CDU 908(497.4/.5-3Istria) ISSN 0392-9493 CENTRO DI RICERCHE STORICHE - ROVIGNO VOLUME XXXIV UNIONE ITALIANA - FIUME . UNIVERSITÀ POPOLARE - TRIESTE ROVIGNO - TRIESTE, 2004 ATTI, Centro di Ricerche Storiche - Rovigno, vol.XXXIV, p. 1-736, Rovigno - Trieste, 2004 CDU 908(497.4/.5-3Istria) ISSN 0392-9493 CENTRO DI RICERCHE STORICHE - ROVIGNO VOLUME XXXIV UNIONE ITALIANA - FIUME UNIVERSITÀ POPOLARE - TRIESTE ROVIGNO - TRIESTE, 2004 ATTI, Centro di Ricerche Storiche - Rovigno, vol. XXXIV, p. 1-736, Rovigno-Trieste, 2004 CENTRO DI RICERCHE STORICHE - ROVIGNO UNIONE ITALIANA - FIUME UNIVERSITA POPOLARE DI TRIESTE REDAZIONE ED AMMINISTRAZIONE Piazza Matteotti 13 - Rovigno (Croazia), tel. +385(052)811-133 - fax (052)815-786 Internet: wWwW.crsrv.org e-mail: info@crsrv.org COMITATO DI REDAZIONE TP ARDUINO AGNELLI, Trieste EGIDIO IVETIC, Rovigno ELIO APIH, Trieste Luciano LAGO, Trieste MARINO BUDICIN, Rovigno ANTONIO PAULETICH, Rovigno GIULIO CERVANI, Trieste MARINO PREDONZANI, Trieste FRANCO CREVATIN, Trieste ALESSIO RADOSSI, Rovigno GIUSEPPE CUSCITO, Trieste GIOVANNI RADOSSI, Rovigno ANITA FORLANI, Dignano FULVIO SALIMBENI, Trieste REDATTORE MARINO BUDICIN, Rovigno DIRETTORI RESPONSABILI Luciano LAGO, Trieste GIOVANNI RADOSSI, Rovigno Recensore ANTONIO MICULIAN, Rovigno © 2004 - Tutti i diritti d'autore e grafici appartengono al Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, nessun escluso Edizione fuori commercio - Esce una volta all'anno Finito di stampare in Italia nel mese di maggio 2005 presso la Tipografia Adriatica - Trieste Atti, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XXXIV, 2004, p. 1-736 INDICE Memorie V. GIRARDI - JURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro K. DZIN, I gioielli d'oro della necropoli di Burle (Medolino) D. VISINTIN, Dalla Serenissima agli Asburgo: agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (secoli XVI-XIX) M. BERTOSA, Pastori dell ’herbadego nelle differentie veneto -arciducali G. SCOTTI, Un frate con “li Turchi” G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria J. ZIHERL, Analisi di un segmento architettonico nel suo con- testo culturologico Note e Documenti R. CIGUI, Omago. Cenni storici di Pietro Kandler D. BRHAN, ‘In partibus Carsi et Istriae”: l’emigrazione dalla Carnia verso l’Istria (XVI-XIX secolo) A. MICULIAN, “Sinodo diocesana di Citta’ Noua celebrata adì 17. maggio 1644. nella chiesa catedrale da monsignor Gia- como Filippo Tomasini vescouo, e conte di S. Lorenzo in Daila” pag. 3 » 33 » S1 » 127 » 157 » 245 » 395 » 421 » 473 » 495 VI Atti, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XXXIV, 2004, p. 1-736 S. BERTOSA, Bambini illegittimi e abbandonati nella Pola dei secoli XVII-XIX » 553 E. IVETIC, Su i Regesti marittimi croati » 573 E. LIUBOVIC, Gli stemmi delle famiglie nobili italiane di Buccari » 585 C. GHIRALDO, Cenni sopra le chiese esistenti o crollate nella campagna di Dignano » 607 L. UGUSSI, / toponimi del comune catastale di Buie » 679 C. PERICIN, Itinerari botanici con Bartolomeo Biasoletto nell’Istria dell’Ottocento. Nuove segnalazioni » 721 Atti, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XXXIV, 2004, p. 1-736 VII RICORDO DI ARDUINO AGNELLI (Trieste, I 8 maggio 1932- Trieste, 25 novembre 2004) Arduino Agnelli è venuto a mancare, improvvisamente, il 25 novem- bre scorso, stroncato da un infarto nel mentre stava conversando, al telefono, con la figlia Alberta. Era nato a Trieste, il 18 maggio 1932, e visi era laureato, in giurisprudenza, prima di prendere la via di Torino, grazie ad una borsa di studio che gli era stata conferita dalla Fondazione Rocke- feller. A spronarlo all’approfondimento della filosofia del diritto e a fre- quentare le aule in cui insegnavano Norberto Bobbio, Messandro Passerin d’Entrevès, Luigi Firpo, era stato il maestro, Pietro Piovani; ma ai lavori degli esordi (“Motivi e sviluppi della costanza del diritto in GB. Vico”, Rivista internazionale di filosofia del diritto, XXXIII, 5, 1956; Il diritto secondo Ferrari, Padova, 1958; John Austin alle origini del positivismo giuridico, Torino, 1959), si era ben presto sommato, anche in vir- tù dell’incarico di inse- gnamento di storia del- le dottrine politiche (inizialmente a Udine, all’epoca sede distac- cata dell’Ateneo trie- stino, poi presso la Fa- coltà di Lettere del ca- poluogo giuliano), un crescente interesse per le tematiche più schiet- tamente risorgimenta- li, con diversi contribu- ti su Gioberti, Omo- deo, Mondolfo e, su tut- ti, Mazzini (“Mazzini e la cultura politica del suo tempo”, I pensiero politico, V, 3, 1972). VIII Atti, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XXXIV, 2004, p. 1-736 È stato giustamente fatto notare come il tracciato bibliografico di Agnelli sia al contempo anche un’autobiografia. Ed è infatti difficile non scorgere, tra le righe dei numerosi scritti agnelliani, il profilo di Trieste: la Trieste città di frontiera, punto d’incontro/scontro tra Nord e Sud, tra Est ed Ovest, tra i mondi latino, germanico e slavo, ma anche la Trieste delle mille lacerazioni, tra lotte operaie e anima borghese, tra aspirazioni irre- dentistiche e (insopportabili, per Agnelli) nostalgie austro-ungariche, tra aperture centroeuropee e (le ancor più biasimevoli) chiusure municipali- stiche. Agnelli, nei suoi studi, ha assorbito e in qualche modo riassunto tutte le tensioni del Novecento triestino, diventandone pure, per il ruolo pubblico che è stato chiamato a rivestire, l’implacabile coscienza critica. Consigliere comunale dal 1982 al 1992, assessore per un biennio, nel 1983-84, sindaco dal luglio al settembre 1986, sarebbe improduttivo tenta- re di suggerire un elenco, inevitabilmente difettoso degli innumerevoli enti e associazioni che si sono avvalsi della sua insostituibile disponibilità: la Deputazione di Storia Patria della Venezia Giulia, che lo vide Presiden- te, il Circolo della Cultura e delle Arti, l’Università Popolare. Le attività di questo Ente promosse al sostegno della Comunità nazio- nale autoctona degli Italiani rimasti in Istria, nel Quarnero e nella Dalma- zia lo videro a lungo protagonista e persino sostenitore, membro della Redazione degli Atti del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno dal 1970 (uscita I volume) assieme a Giulio Cervani, Iginio Moncalvo, Giovanni Radossi, Anita Forlani, Antonio Pauletich. Ha presentato più volte i volumi degli Atti. Assiduo conferenziere dell’UPT e conosciuto in tutte le Comunità degli Italiani. Relatore in svariati seminari di aggiornamento a favore degli inse- gnanti delle scuole italiane dell’Istria e di Fiume. Membro delle commissioni giudicatrici nella sezione “lavori scientifi- ci” del Concorso d’arte e di cultura Istria Nobilissima. Membro del Consiglio di Amministrazione dell’UPT dal 1986 alla fine del 2003, e Vicepresidente dal 1998 alla fine del gennaio 2001. Lo storico triestino fu tra quel gruppo di studiosi e di dirigenti dell’esodo giuliano che nel 1993 fondarono il Bollettino del Coordinamento Adriatico e diedero vita alle sue iniziative, miranti da un lato a riportare a un livello scientifico nazionale e internazionale le vicende che avevano determinato l’esodo istriano, fiumano a dalmato nel secondo dopoguerra; dall’altro a Atti, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XXXIV, 2004, p. 1-736 IX sollecitare l’opinione pubblica italiana ad approfondire le tematiche dell’area europea sud-orientale e delle responsabilità politiche che il nostro Paese doveva assumersi di fronte alla crisi delle nuove guerre balcaniche. Fu più volte relatore nei convegni organizzati da “Coordinamento Adriatico” e dalle associazioni degli Esuli giuliano-dalmati a Bologna, Udine, Trieste, Roma. Profondo conoscitore di tutta la realtà dei Balcani non dimenticò, lui laico e mitteleuropeo, di dedicare la sua attenzione di studioso al mondo ortodosso e ai rapporti storici tra etnie nella Balcania meridionale. “... In questi ultimi tempi pare che gli italiani abbiano preso coscienza che nel dopoguerra 350.0000 italiani furono costretti a lasciare le loro terre da un trattato di pace che imponeva: ‘O prendi la cittadinanza jugoslava o te ne vai. Se vuoi la cittadinanza italiana devi andartene’. Allora, mentre la coscienza italiana non avvertì molto questo fatto, adesso pare che il fatto sia avvertito nel senso che ormai tutti gli italiani se ne sono andati. E no! Gli italiani rimasti in Istria, nel Carnaro, in Dalmazia sono numerosissimi, come hanno provato le elezioni per le comunità degli italiani dello scorso gennaio; c’è un’italianità sommersa che sta riemergendo e noi non possia- mo trascurare questo fatto (...) credo che dobbiamo stare attenti e dob- biamo fare in modo che gli italiani delle aree interessate possano unirsi a noi proprio per realizzare questa Europa di pace”. Sono le parole di Arduino Agnelli, in un discorso pronunciato dai banchi del Senato, il 5 luglio 1991: “Per la pace in Jugoslavia per gli italiani dell’Istria del Carnaro e della Dalmazia”. Ed e’ soltanto una delle innume- revoli circostanze cui si può fare appello per rendere testimonianza della sua mai revocata attenzione — e partecipazione — alle vicissitudini di quella comunità dei “rimasti” che gli era tanto cara quanto - e forse più — della gran massa dei “partiti”. Volendo, per illustrare l’intensità e l’assiduità di questo legame, si sarebbe anche potuto prendere le mosse da molto più lontano, da frangenti e da occasioni assai più remote, vincolate adaltri pesi e ad altre “misure”, che oggi quasi a fatica emergono dalle nebbie del passato (tanta di acqua — e non solo acqua - ne è passata sotto i ponti, nel frattempo). Come, ad esempio, quella memorabile conferenza, tenuta a Pola, nel 1971, dedicata a “Mazzini e le giovani nazioni”, il cui valore era consistito nell’omaggio che si rendeva, a cent'anni dalla sua scomparsa e anticipando tutti, in Italia e altrove — e proprio lì, sotto gli occhi sempre vigili dei suscettibili guardiani della “revolucija” — al teorico per eccellenza x Atti, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XXXIV, 2004, p. 1-736 dell’unità delle genti italiane (e Giovanni Radossi è senz’altro in grado di ricostruire le trappole e le difficoltà che si erano frapposte alla realizzazio- ne dell’incontro; e, del resto, a rileggere bene il testo della relazione, ci si accorge che non mancano le allusioni alla “via nazionale al socialismo”, in segno di “diplomatico” — benché sincero — tributo a quello che era il massimo “comandamento” del regime del momento). Sarebbe sbagliato, ad ogni modo, ritenere — malgrado le facili allusioni all’imperativo mazziniano — che questa frequentazione dei lidi istriani e dalmati si sia svolta all’insegna di un “dovere”; era solito ripetere, Agnelli, che la “sua” Venezia Giulia comprendeva tanto il Friuli quanto le “terre perdute”, e che si sentiva a casa sua a Udine non meno che a Fiume, senza, peraltro, rinunciare a muovere un bonario rimprovero ai suoi concittadini, che scherzosamente divideva in due categorie: quelli dalle vedute ristrette, per i quali il mondo incomincia a Servola e finisce a Barcola, e quelli dagli ampi orizzonti che, “temerariamente”, arrivano con lo sguardo fino a Muggia da un lato e a Grado dall’altro. Risale al 1969 (Bologna) la pubblicazione di quella che indubbiamen- te rimane l’opera più conosciuta ed apprezzata: Questione nazionale e socialismo - contributo allo studio di K. Renner e O. Bauer; ove si espongono le ragioni per la quali gli austromarxisti avevano contestato la presunta superiorità degli Stati nazionali e si erano quindi opposti ad ogni ipotesi di smembramento della compagine imperiale asburgica, ritenendo che nell’ambito del suo ampio insieme territoriale gli interessi economici delle classi lavoratrici fossero meglio tutelati. L’intento era stato quello di spiegare come il pregio di questa posizione, se dipendeva dalla distanza che la separava dalle tutt'altro che affini motivazioni dei conservatori, risiedesse pure nel rifiuto di ogni superficiale internazionalismo che pre- tendesse di pervenire ad una composizione delle divergenze attraverso il misconoscimento anziché una valorizzazione delle singole dimensioni na- zionali; con l’avvertenza che non bisognava nemmeno lasciarsi fuorviare dai facili entusiasmi per le proposte di riordinamento federale o confede- rale, giacché queste, lungi dall’essere animate da nobili intenzioni di giustizia, spesso si traducevano in una semplice dilatazione dell’assetto dualistico e, causa le frequenti sovrapposizioni di popolazione, nel mero rovesciamento, in periferia, degli esistenti rapporti di gerarchia. Ed è forse qui, in questo binomio nazione - socialismo, che va colto l’autentico volto di Agnelli. Atti, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XXXIV, 2004, p. 1-736 XI Uno degli ultimi libri che ha fatto in tempo a sfogliare l’aveva ricevuto in dono da colui che ne era anche l’autore, l’amico Paolo Sema, il piranese già senatore di Rifondazione comunista: una ricostruzione delle tristi vicende che hanno caratterizzato il dopoguerra triestino ed istriano, ma anche amara constatazione dell’insensibilità di cui spesso, troppo spesso — soprattutto a sinistra — la memoria dei loro protagonisti è stata circondata. Siamo rimasti soli, diceva il titolo, che ad Agnelli era molto piaciuto. E bisogna ammettere che, senza Agnelli, un po’ più soli lo saremo per davvero. Sandor Mattuglia XII Atti,Centrodi Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XXXIV, 2004, p. 1-736 RICORDO DI ELIO APIH (1922-2005) Parafrasando il commento di Pietro Kandler sulla morte di Domenico Rossetti (“Il Consiglio dei Patrizi”) possiamo dire che Trieste ha perso il suo più grande storico. Nessun altro storico della sua generazione (Elio Apih era nato nel 1922) è stato capace quanto Apih di rinnovare la storia di Trieste e della Regione Giulia, togliendola alla dimensione della tradi- zione locale filologico-erudita per consegnarla alla storia europea dell’il- luminismo e del riformismo settecentesco (Gian Rinaldo Carli), alla storia dei fenomeni come il nazionalismo e il fascismo (Italia, fascismo, antifasci- smo nella Venezia Giulia), della storia del socialismo, con particolare attenzione all’austromarxismo (è sua la splendida riedizione del 1984 di “Irredentismo adriatico” di Angelo Vivante). Nel 1988 l’opera pluridecennale di Apih rivolta alla ricostruzione della storia della sua città (è del 1957 La società triestina nel secolo XVIII) giungeva ad un alto momento di sintesi con Trieste, uscita nella colla- na laterziana “Storia delle città italiane”. A di- ciassette anni di distanza l’opera rappresenta anco- ra il riferimento ineludibile e insu- perato sulla storia di Trieste dal Set- tecento fino agli anni Ottanta del secolo trascorso. Allievo di Gaetano Salvemi- ni (che lo aveva Atti, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XXXIV, 2004, p. 1-736 XIII definito, secondo una testimonianza di Giuliana Benzoni “il più capace, il più provvisto di metodo, dei suoi giovani collaboratori”) Elio Apih inte- grava felicemente nella sua opera l’impegno civile e la libertà di giudizio dell’antifascista pugliese con una capacità invidiabile di formulazione di giudizi storici, di individuazione “dell’universale nel particolare”, secondo una definizione di derivazione crociana datane da lui stesso. Nella lezione conclusiva del suo magistero alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Univer- sità di Trieste Elio Apih illustrava nei termini seguenti il debito crociano contratto nell’immediato dopoguerra: da Benedetto Croce “ho imparato che la conoscenza storica è ‘conoscenza dell’universale nel particolare’, ho imparato che capire un fatto vuol dire rendersi conto di tutta la grandiosa complessità e diversità di motivi che lo determinano, che un fatto esiste perché appartiene a tutta un’ampia rete di altri fatti e di cose, con cui ha connessione vicina o lontana, e che in qualche modo riassume e condensa.” Naturalmente aristocratico nei suoi giudizi di valore e nella signorilità dei modi, Elio Apih univa una solida anche se schiva fiducia nelle proprie capacità critiche ad un disprezzo sostanziale verso i giochi di potere accade- mici e le ipocrisie ad essi sottese. Troppo libero e indipendente per adattarsi alla logica dei gruppi, delle cordate e del conformismo che tali logiche inducevano, era rimasto anche nella vita universitaria, un isolato. Tale isola- mento, però, non gli pesava piuttosto lo considerava un punto di osserva- zione privilegiato da cui contemplare con ironia mai malevola e con sereno distacco “la fiera delle vanità” del mondo accademico. D'altro canto, era pronto a riconoscere senza invidie il valore di coloro che godevano della sua stima, tra gli altri Boris Pahor, Fulvio Tomizza, Angelo Ara. L’antifascismo di Elio Apih era (come quello di Umberto Saba) di tipo esistenziale. In una intervista radiofonica del 1996 raccolta da Lilla Cepak aveva osservato che tutto il gran parlare di “antifascismo” gli sembrava eccessivo e sostanzialmente poco proficuo. Infatti, aveva osser- vato in quella occasione, “il problema non è di essere ‘anti’, ma di essere qualcosa di diverso”. Tale “alterità” rispetto al fascismo Apih l’aveva dimostrata con un costante e limpido impegno civile che talora confluiva nell’attività storio- grafica, talora ne rimaneva invece distinto. I lavori sul Fascismo nella Venezia Giulia rappresentavano per lo storico triestino anche l’assolvi- mento di un obbligo etico rispetto all’oppressione nazionale praticata dal Fascismo nei confronti delle popolazioni slovene e croate. Sotto la sua XIV Atti, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XXXIV, 2004, p. 1-736 direzione venne pubblicata la Guida al Museo della Risiera di san Sabba ed egli fu pure per molti anni membro del Comitato del Museo. Elio Apih si adoperò anche nell’ambito dell’attività culturale per gli Italiani in Istria e a Fiume promossa dall'Università Popolare di Trieste e con la fine degli anni Settanta del secolo XX divenne assiduo e apprezzato collaboratore del Centro di ricerche storiche di Rovigno. Per lunghissimi anni a partire dal 1980 è stato pure membro del Comitato di redazione degli Arti dell'Istituto rovignese. Tra i suoi lavori pubblicati su tale rivista nei volumi IV, V, VI, VIII, IX, X, XII sono da ricordare gli articoli: “Contributo alla storia dell’agri- coltura istriana”, “Sui rapporti tra Istria e Friuli nell’età moderna”, “Qual- che notizia sull’attività di rimboschimento in Istria avanti la prima guerra mondiale”, "Qualche testimonianza e qualche considerazione per la storia del socialismo in Istria”, “Capodistria nel ‘700 in alcune lettere inedite di Gianrinaldo Carli”, “Appunti sull’agricoltura istriana nell’800”, “Il rap- porto sull’Istria del Consigliere di Stato Giulio Cesare Bargnani (1806)” e il primo volume della collana “Cataloghi di fonti per la storia dell’Istria e di Fiume”, Catalogo analitico della stampa periodica istriana (1807-1870). Fu costante relatore su temi storici di conferenze nelle sedi delle diverse Comunità dell’Istria e del Quarnero. Uno dei suoi ultimi impegni fu la partecipazione alla commissione storica italo-slovena, da cui poi diede le dimissioni per motivi di salute. Apih aveva riposto nei lavori della Commissione speranze forse eccessive e alla fine era rimasto un po’ deluso dal risultato finale, che riteneva non del tutto scevro da logiche di tipo “diplomatico”. Lo storico triestino fu per tutta la vita socialista, anche se si allontanò relativamente presto dall’attività politica per dedicarsi alla ricerca e all’in- segnamento, che concepiva come impegno civile nel senso più alto del termine, ossia come trasmissione di valori e non come diffusione di conte- nuti politici. Alla scelta socialista lo portava tutta la vicenda biografica: le ristrettezze economiche sperimentate durante l’infanzia e la giovinezza, il senso di giustizia sociale, l’ideale dell’uguale dignità umana, ma anche la sostanziale estraneità rispetto al comunismo, che troppo confliggeva con il suo bisogno di libertà, di indipendenza intellettuale e con il suo anticon- formismo di fondo. Sebbene Elio Apih non possa essere considerato uno storico “locale”, in quanto, come si è ricordato più sopra, nella sua produzione storiografica Atti, Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, vol. XXXIV, 2004, p. 1-736 XV venivano a riflettersi le grandi problematiche europee, Trieste è stata costantemente al centro della sua riflessione. Come per molti intellettuali triestini, anche per Apih il rapporto con la propria città fu tutt'altro che facile. In uno dei suoi ultimi lavori, “Il ritorno di Giani Stuparich”, egli faceva il punto su tale questione, riscontrando come Trieste fosse caratte- rizzata da mondi chiusi e non comunicanti, all’interno dei quali veniva esercitata una forte pressione al conformismo. Ciò avrebbe favorito, se- condo Apih, “l’incomprensione del nuovo e dell’intelligente”. Per conclu- dere, con folgorante intuizione: “Ciò valeva anche per gli intellettuali e diversi lo sperimentarono quando vollero mettersi ... contro la corrente; la subìta esperienza di quel qualcosa ‘che si frappone’ accomuna, lungo i due secoli di vita della moderna Trieste, Antonio Giuliani, la tarda età di Pietro Kandler, Scipio Slataper, Angelo Vivante, Fabio Cusin, Umberto Saba” e, aggiungiamo noi, Elio Apih. Marina Cattaruzza ua + UT MEMORIE i V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 3; CULTI E RITI DI POLA ANTICA E DEL SUO AGRO VESNA GIRARDI JURKIC CDU 21(497.5Pola)"652” Sveuciliste u Zagrebu, Saggio scientifico originale Medunarodni istrazivaéki centar za arheologi]ju, Gennaio 2005 Brijuni-Medulin, Università di Zagabria Centro internazionale di ricerche archeologiche Brioni - Medolino Pola Riassunto — L’articolo tratta dei culti romani, greco-romani, orientali, indigeni e sincretici celebrati nella Pola antica e nell’ager polese dal I secolo a.C. fino al IV sec. d.C. Vi si menzionano i luoghi di culto accertati e quelli presunti tali, i templi e i larari di Pola, le ville rustiche e i centri artigianali dell’agro. Vi si rispecchia uno svariato pantheon romano di credenti e dedicanti legato allo sviluppo economico, alla composizione plurietnica dell’agro e al livello di romanizzazione. La distribuzione delle divinità romane, greco-ro- mane ed autoctone nel periodo esaminato si rivela quasi paritaria (39%:37%:24%). Nel corso delle epoche storiche i culti e le credenze hanno sempre fatto parte del tessuto sociale. Essi costituiscono un aspetto fondamentale della vita umana. Le credenze traspaiono nell’affermarsi di forme di comportamento, nella fondazione di istituzioni, sistemi di valori e usanze. Il comportamento degli esseri umani sarebbe difficilmente spiegabile senza un’approfondita cognizione e comprensione dei culti presenti nei vari periodi dello sviluppo complessivo della società umana. L’approccio interdisciplinare offerto dall’archeologia, onomastica e toponomastica, nonché l’interpretazione dell’iconografia delle divinità e dei culti nel se- gno dell’evoluzione delle mitologie autoctona, greca e romana e del loro intrecciarsi sincretico, offrono preziose cognizioni comparative riguardan- ti l’esistenza di credenze antiche in Istria e soprattutto nell’area polese, ovvero nell’ager Polensis et Nesactiensis romano. Sulla base dei risultati delle ricerche archeologiche e di numerose 4 V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 fonti scritte (in particolare dei secoli XIX-XX), come pure della copiosa bibliografia specialistica sulla problematica cultuale dci reperti votivi, oggi è possibile proporre una rassegna d'insieme ed un giudizio sul tema dei culti antichi, ovvero sulle testimonianze cultuali e votive dell’Istria antica. Occorre mettere in rilievo il ruolo fondamentale dei culti avuto al cospetto del processo e del livello di romanizzazione della popolazione autoctona dell’Istria antica, un processo in corso per oltre cinque secoli, in particola- re nell’agro polese e in quello di Nesazio. Senza ambire ad un’interpreta- zione definitiva, che peraltro non sarebbe consona all’ambito della scienza archeologica — dove le nozioni non sono mai definitive, ma dinamiche e sempre soggette a nuove scoperte e cognizioni scientifiche — un tale operare costituisce senza dubbio una solida base per un’elaborazione sintetica della problematica cultuale nel polese. Per meglio comprendere l’adozione dei culti greci, romani ed orientali da parte della popolazione istriana autoctona, come pure il rapporto di sincretismo che intercorreva tra questi culti, occorre tratteggiare breve- mente alcune vicende storiche dell’epoca in questione. Nel III secolo a.C. i Romani indirizzano la propria espansione verso le isole e la costa orien- tale dell'Adriatico, verso l’ampia area tra il Carso triestino e la città greca di Epiro, dove vivevano tribù illirico-venete, illiriche e indoeuropee a loro affini. Dopo aver consolidato il loro potere nell’Italia settentrionale, i Romani gradualmente espandono la loro influenza sulla penisola istriana. Allo scopo di proteggere i confini orientali dell’Impero e di creare la base e le condizioni per altre conquiste, nell’anno 182 a.C., ancor prima della definitiva conquista militare della penisola, fondano Aquileia, capitale che eserciterà notevole influenza sull’aspetto amministrativo, economico e religioso della vita degli abitanti dell’Istria e del Polese. La penisola viene a trovarsi nel mirino degli interessi politici ed economici romani in seguito agli scontri militari con le tribù istre, aventi il loro apice nella guerra istro-romana degli anni 178-177 a.C. Dopo la caduta di Nesazio, principale roccaforte della difesa istrica, la morte del re Epulo ultimo re degli Istri e la distruzione degli abitati di Faveria e Mutila, inizia la graduale pacifica- zione dell’Istria e del polese, conclusasi con la creazione della colonia cesariana di Pola. La pacificazione definitiva avviene all’epoca dell’impe- ratore Augusto, quando la cosiddetta pax /ulia segna un periodo di fiori- tura economica, urbanistica, culturale e religiosa della città di Pola, tanto che essa può dirsi a pieno titolo città augustea. V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 3-32 s La planimetria di città romana fu quindi conferita alla colonia Pola nel periodo augusteo, rimanendo essenzialmente tale fino ai giorni nostri. L’ordito urbano, insolito se messo a confronto con l’ideale sistema ortogo- nale vitruviano della città antica (ad esempio quello di Parenzo, colonia Parentium), è di fondamentale importanza per poter comprendere la vita spirituale, culturale e religiosa di Pola antica. Nel periodo della nascita della colonia cesariana, gli urbanisti, architetti e costruttori romani ade- guano alle esigenze romane la pianta a ragnatela del centro preistorico ubicato in cima e ai fianchi del colle cittadino centrale. Nella pars superior della città, dove nuovi santuari romani sorgono soprattutto grazic alla preesistente tradizione di culto e alla favorevole configurazione del suolo, l’area urbana viene trasformata in insulae trapezoidali anziché rettangola- ri. In epoca augustea, dopo la battaglia di Azio nel 31 a.C. e in situazioni precarie per i sostenitori polesi di Pompeo (più tardi anche per quelli di Marco Antonio), la pars inferior coloniae Polae si estende nell’area sotto- stante il colle cittadino in direzione della prospiciente insenatura marina, designando come nuovo centro augusteo di culto il foro romano. A diffe- renza della pars superior, la pars inferior della città, compresa la piazza centrale quale centro cultuale, economico ed amministrativo cittadino, viene divisa ed edificata in regolari insulae residenziali a pianta quadran- golare con alcuni minori adeguamenti alla configurazione naturale del terreno. Già nella fase repubblicana della colonia cesarea, cioè intorno al 48 o 46 a.C., viene eretto il tempio centrale di dimensioni monumentali, in blocchi di pietra regolarmente scolpiti e levigati, con ogni probabilità dedicato al patrono della colonia, Ercole. Il nome per esteso della colonia con l’indicazione del patronato di Ercole lo si ritrova in un decreto risalen- te al II secolo d. C.: In colonia Iulia Polla Pollentia Herculanea. Le fonda- menta di questo centro di culto sono conservate oggi sotto la piazza cittadina. Ubicato antiteticamente, ma allo stesso livello, vi si trovava un edificio absidale, probabilmente una basilica romana (curia), in ogni caso una costruzione della Pola repubblicana destinata ad attività economiche o amministrative. Dopo la proclamazione di Augusto pater patriae nell’anno 2 a.C., i cittadini polesi seguendo il nuovo schema urbanistico edificano altri due templi, a nord e a sud dell’edificio di culto centrale. Il tempio meridionale viene dedicato al culto imperiale di Augusto, mentre quello settentrionale al culto di Diana. Uno dei rari monumenti di culto bene conservati è proprio il tempio 6 V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXTV, 2004, p. 3-32 di Augusto, con le sue decorazioni e sculture di derivazione classica ellenistica, le colonne corinzie e le elaborate decorazioni floreali. Sull’ar- chitrave sotto il frontone si rilevano i resti delle scanalature utilizzate per fissare le lettere in bronzo dell’iscrizione Romae et Augusto Caesari Divi fillio Patri Patriae, che conferma la data della costruzione tra il 2 a.C. e il 14 d.C. Il frontone presentava in passato anche tracce di un medaglione sostenuto da due Vittorie. Il tempio gemello, altrimenti detto tempio di Diana, venne eretto a complemento dell'impianto architettonico cultuale del foro nel periodo degli imperatori Tiberio e Vespasiano. Oltre alla presenza del culto imperiale dell’imperatore Augusto e del probabile patrono della città, Ercole, si presuppone che sul foro si trovasse anche un’ara dedicata a Giove, decorata dal suo volto barbuto con corna d’ariete (/uppiter Amon) e da un’aquila alata. La parte centrale dell’altare comprendeva anche una raffigurazione di Medusa. Una tale composizione decorativa è presente anche nei fori di Aquileia e Zara, e risulta perciò ovvio che nella sfera cultuale (specialmente nell’iconografia) l’influenza aquileiese fosse uniforme, standardizzata e costante nell’area nordadriatica. Sul foro erano inoltre piazzati vari basamenti in pietra con statue di imperatori romani e di appartenenti alle loro famiglie quali Claudio, Vespasiano, Settimio Severo, Marco Aurelio, Ulpia Severina, Licinio ed altri alti ufficiali imperiali. Dall’epoca augustea in poi, la venerazione dei culti imperiali diventa abitualc, come attestano due vani che si trovano sul lato occidentale del foro. Uno di questi si presenta a forma di nicchia semicircolare aperta, posta di fronte al tempio di Diana, ai piedi del lato ovest del colle urbano, e vi è stata rinvenuta la statua di un imperatore (forse Adriano) con uno schiavo genuflesso ad indicarci la venerazione del culto imperiale dopo qualche imprecisato trionfo romano. Sull’altro lato del foro (il più lungo), il secondo vano ha pianta quadrilaterale; al suo interno è stata rinvenuta la testa di Agrippina, assieme a un busto impe- riale. Questi reperti ci indicano a loro volta l’ubicazione di un luogo di culto imperiale, in questo caso probabilmente dell’imperatore Claudio e dell’imperatrice Agrippina. Si suppone che in epoca romana sul foro si trovasse anche una statua della dea Vittoria, della quale si sono conservati alcuni frammenti litei. Il culto di Giove (/uppiter), suprema divinità romana, non è presente a Pola solamente negli abituali rilievi raffiguranti Giove Amon; lo si trova anche su un'iscrizione votiva giovenale (/uppiter Victor) con la rappresen- V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 7 tazione in rilievo del suo viso barbuto, rinvenuta sul pendio nordocciden- tale del colle centrale, nei pressi della cattedrale (Fig. 1). Si presuppone, pertanto, che all’epoca romana il tempio di Giove si trovasse nel luogo dove oggi si trova la cattedrale, dato che non si riscontrano tracce di una sua possibile ubicazione sulla sommità del predetto colle. Di quanto fosse radicato il culto ufficiale di Giove e della sua consorte Giunone è testimo- ne, secondo Pietro Kandler, il nome stesso della porta cittadina (Porta Iunonae, Porta lovis) che nelle mura orientali si apriva verso l’anfiteatro e, oltre (via Flaviae), verso Trieste (Tergestae). A Pola Giove veniva venerato in varie forme, come testimoniano le iscrizioni su are: /uppiter Optimus Maximus, Iuppiter Conservator e Iuppiter Depulsor. Il Giove con corna d’ariete (Giove Amon) richiama l’influsso egizio fortemente presente dopo la conquista dell’Egitto e la battaglia di Azio nel 31 a.C. Giove Depulsore era venerato anche in Oriente e nella regione danubiana, ricoprendo una valenza apotropaica, protettrice dagli influssi malefici. Giove Conservatore era particolarmente venerato nell'epoca augustea, come attestano le simpatie dei polesi dell’Antichità per l’imperatore Augusto. Fig. 1- Pola Zuppiter - Giove. 8 V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 3-32 Giove Ottimo Massimo (/uppiter Optimus Maximus) era venerato anche nei pressi di Stignano nel lanificio (fu/lonica) di Caio Giulio Criso- gone (C. Iulius Crysogonus), un orientale che per venerare Giove, Mitra e Silvano fa erigere tre are nell’impianto produttivo di sua proprietà. Nella cerchia delle divinità del pantheon romano ufficiale, accanto a Giove, Giunone e al patrono Eracle va annoverata innanzitutto Minerva. A tutt'oggi non sono state ritrovate né statue né rilievi della dea che ne attestassero l’effettiva presenza in città, se non una piccola testa in cerami- ca e un busto rinvenuti in una delle tombe della vicina necropoli ubicata di fronte all’Arco dei Sergi (Fig. 2). Si tratta di oggetti provenienti da un Fig. 2- Pola, Minerva. V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 3-32 9 santuario domestico o larario. Il culto di Minerva è comunque testimonia- to da un'iscrizione che menziona l’insula di Minerva (Insula Minerva), con molta probabilità un quartiere residenziale nella zona dell’odierna cappel- la della basilica di S. Maria Formosa. La lapide in marmo in questione è stata rinvenuta (secondo Tommaso Luciani) il 19 ottobre 1867 nell’area tra l'Arco dei Sergi e l’anfiteatro. Oltre al nome esteso della colonia Pola, l'iscrizione riporta anche il nome Settidius Abascantus, un sacerdote di Minerva che richiede il permesso per poter adornare a proprie spese il tempio della dea nell’/nsula Minervae. Della presenza del culto ci informa anche l’iscrizione di un’ara piramidale di un “servitore di Minerva” (servus Minervae). A Pola Minerva era detta anche “Minerva Polensis”; ad essa sono, infatti, dedicate un’ara e una lapide rinvenute in epoca più tarda nelle mura cittadine. Ma la dea veniva venerata anche nei piccoli santuari dome- stici detti larari, come testimonia il ritrovamento di un bronzetto classico raffigurante la divinità con tanto di scudo e lancia, proveniente da una villa romana nella baia di Ronzi o Ronzano (Runke) nei pressi di Promontore. Il culto di Venere è attestato a Pola dal rinvenimento di frammenti di due statue di modeste dimensioni. Di una delle due statue è giunta a noi la parte inferiore del busto avvolto da mantello secondo lo stile greco-el- lenistico (Venus Anodyomenae), mentre dell’altra rimane la parte supe- riore nuda del busto di Venere sdraiata (Fig. 3). Il culto della dea della Fig.3- Pola, Venere. 10 V.GIRARDI JURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Arti, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 bellezza è testimoniato anche da un’ara intitolata a Venere Celeste (Venus Caelestis) e dal ritrovamento di un’iscrizione su un’architrave in pietra che ci attesta la presenza di un santuario a lei dedicato. Dato che i reperti sono stati rinvenuti all’interno delle mura cittadine nordorientali, in riva alla baia, si suppone che nelle vicinanze del sito (a Pola, quindi) fosse ubicato il santuario di Venere con un tempio (da cui la suddetta iscrizione) e con ara al proprio interno. È importante rilevare che Venere Celeste non è la corrispettiva della dea romana ma una divinità di origine orientale, il che significa che la presenza del suo culto a Pola ci indica l’esistenza di un rapporto sincretico romano-orientale. Venere si celebrava anche nella baia di Val Catena (Verige) sull’isola di Brioni Maggiore. Nella triade santuaria (Venere, Nettuno e tempio centrale) sul sito del tempio venusiano è stata trovata una statua di Venere Cnidia (a tutt'oggi non attribuibile con certezza). Ricerche storiche ed epigrafiche non hanno accertato il culto di Apollo a Pola. Tuttavia, dall'analisi di una testa infantile inghirlandata scolpita in marmo, trovata a Pola e datata nell’epoca giulio-claudia, si può avanzare l’ipotesi della raffigurazione di un Apollo giovane. La leggenda sul tempio di Diana e il culto della dea della caccia in città non trovano riscontri certi, ma essa può comunque essere collegata al culto di Apollo se s’interpreta questo come culto comune dei due fratelli. È proprio approfondendo il legame tra leggenda e reperto archeologico (il frammento di statua apollinea) che si trova un appiglio per uno studio della celebrazione di questo culto congiunto nella Pola antica. Queste tracce di culti ufficiali appartenenti al pantheon romano indi- cano senza dubbio una romanizzazione in corso in senso religioso degli abitanti di Pola e del suo agro, dove il governo romano, assieme ai membri e agli ufficiali delle famiglie imperiali, godeva di forte supporto. Ad ogni modo, Pola antica doveva la propria fioritura economica ed urbanistica a un’economia altamente sviluppata, come attestano, testimoniando un te- nore di vita elevato, i rinvenimenti di sfarzose ville urbane decorate con affreschi e mosaici pavimentali, i due imponenti teatri, il foro con i suoi templi, l'Arco dei Sergi, le porte monumentali quali quella d’Ercole e quella Gemina con le relative mura, l’anfiteatro, nonché i gioielli d’oro e d’argento e i recipienti di ceramica pregiata o vetro rinvenuti nelle necro- poli polesi. L’eterogeneo pantheon romano - con il suo politeismo - contribuiva V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 3-32 ll non solo a una vasta scelta di protettori delle coltivazioni, della vite, della fertilità del terreno e in generale, della navigazione, dell’artigianato, dell’industria mineraria, ma ci consente anche di approfondire meglio le diverse provenienze degli abitanti del Polese. L’amministrazione romana, oltre ad assegnare in Istria terreni ai vari veterani, spesso amministrava l’ager publicus come proprio possedimento, concedendo il terreno in usu- frutto sia abreve termine (inizialmente a cinque anni), sia in perpetuo (ius perpetuum) a soldati valorosi e a impiegati amministrativi. Parimenti, una quantità notevole di terreni dell’agro polese veniva spartita per assegna- zione (agerasignatus) a patrizi, soprattutto a membri di famiglie imperiali e ai municipi (es. Nesazio); oppure i questori, a seconda delle direttive ricevute, li vendevano a facoltosi singoli o a famiglie, oppure lo cedevano dietro compenso alle comunità religiose (ager questorius). Alcune tenute a sud avevano lo status di poderi imperiali, come quelle vicino a Fasana, Gallesano, Dignano, Carnizza, Sissano, Lisignano e Medolino. Le sedi dei procuratori (i gestori delle tenute) si trovavano, invece, a Pola. Le fontistoriche, i reperti archeologici ma anche le conoscenze speci- fiche sui culti offrono una vasta gamma d’informazioni in base alle quali è possibile (con l’ovvio ausilio dei dati complementari disponibili) tracciare un quadro abbastanza fedele della struttura economica del Polese in epoca romana. Nella zona costiera si coltivava la vite e fitte piantagioni di ulivi; l'economia ittica completava l’alimentazione degli abitanti. Il commercio di legname, di prodotti in ceramica e di semilavorati in pietra assicurava la circolazione dei mezzi finanziari destinati alle tasse, all’acquisto di mano- dopera (schiavi) e di oggetti di lusso e d’uso comune importati. Nelle parti interne dell’agro venivano coltivati con successo i cereali, sugli ampi pascoli si allevava il bestiame di taglia grossa e vi pascolavano greggi di pecore e capre. La lana destinata all’industria tessile, i prodotti in legno e in ceramica, la pietra e la calce provenivano tutti dall’entroterra, comple- tando così la gamma di prodotti offerta dall'economia dell’Istria meridio- nale. Come avvenne in territorio italico, così anche in Istria si ebbe un’edi- ficazione sistematica di poderi autarchici a carattere agricolo e produttivo presso le ville rustiche, grandi o piccole che fossero. I governatori di tali tenute, detti villici, di regola erano schiavi che godevano di particolare fiducia da parte del loro padrone. Essi supervisionavano il lavoro degli altri schiavi, organizzavano sistematicamente tutte le fasi di lavoro nella 12; V.GIRARDI JURKIC, Cultie riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 tenuta, e potevano anche partecipare alla stipula di alcuni contratti per i quali li padrone si assumeva la responsabilità. La produzione e lo scambio di merci a Pola e dintorni portò così gradualmente alla fioritura del commercio, della finanza, delle speculazio- ni e al conseguente profilarsi del nuovo, facoltoso ceto mercantile, che costruirà dimore di villeggiatura in punti ameni della costa (S. Stefano presso Sissano, Cuie presso Lisignano, Visola presso Medolino, Pomer, Valbandon, Val Catena su Brioni Maggiore, Barbariga); queste ville rusti- che sono dei piccoli capolavori di edilizia ed arte decorativa romana per la sontuosità delle loro soluzioni architettoniche e lo sfarzo dei loro elementi decorativi. Per far fruttare queste imponenti costruzioni, i proprietari le attrezzavano con gli impianti necessari per la lavorazione e l’immagazzi- namento di prodotti agricoli che si coltivavano nei vasti appezzamenti appartenenti alle rispettive tenute. Sulla punta di S. Stefano (sulla costa orientale dell’agro polese) si trovano i resti di un torchio per la lavorazione di uva e olive e alcune piscine di filtraggio con recipienti in pietra e ceramica. Il maggior impianto perla produzione di olio nel polese è stato trovato a Barbariga, mentre dei silos per cereali (con ampie stalle) sono venuti alla luce all’interno delle ville rustiche di Radecchi, presso Pola, e di quelle ubicate a Saraia Grande (Velika Saraja) e sul colle di S. Lorenzo nel bosco di Siana, nonché in quelle lungo la baia di Pomer. Speciali impianti per la lavorazione della lana e la tintura dei capi sono stati, infine, rinvenuti presso edifici romani di Pola, Barbariga e nella baia di S. Nicola su Brioni Minore. Tutti questi siti sono indicativi del forte sviluppo economico dell’agro polese, che aveva permesso alla colonia Pola di distinguersi per ricchezza e sontuosità. Di particolare rilievo risultava l’allevamento di ostriche e di vari pesci nella baia di Pomer, mentre nella baia di Saline, sulle isole Brioni, si estraeva il sale. Cave di pietra più o meno grandi dove si estraeva e frantumava pietra di qualità erano largamente diffuse; le più note quelle di Brioni Maggiore, S. Girolamo e Vincuran (Cava romana, per l’appunto) che, assieme alle cave più piccole, soddisfacevano le esigenze della fiorente attività edilizia e delle officine dei tagliapietra. Nei pressi di Fasana si trovava un impianto per prodotti in ceramica appartenente al console Caio Lecanio Basso (C. Laecanuus Bassus) e più tardi di proprietà dell’imperatore Vespasiano. Dalle sue officine uscivano anfore ed altri recipienti necessari per la conservazione e il trasporto di olio, vino e cereali, come pure quelli per la V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 13 lavorazione e la conservazione dei prodotti ittici. La ceramica prodotta in loco veniva esportata, tramite le vie mercantili, fino al Norico e alla Pannonia, di cui attestano i timbri presenti sui reperti rinvenuti. La vita religiosa e spirituale degli abitanti di Pola romana e del suo agro fino al Canale di Leme dipendeva dall’incidenza di un tale quadro economico e dalla varia provenienza etnica dei suoi abitanti. La celebra- zione obbligatoria dei culti ufficiali avrebbe dovuto assicurare la benevo- lenza degli dei, necessaria secondo le credenze per il mantenimento dell’ordine e della pace nella città. Sul territorio dell’agro della colonia Pola, oltre ai nomi delle divinità romane già menzionate (Ercole, Giove, Minerva, Venere) compaiono, su are votive ed iscrizioni, anche nomi di altre divinità romane, greco-romane ed orientali, in forma originaria 0 sincretica, come Bona Dea, Terra Mater, Fortuna, Iside, Giunone, Magna Mater, Libero Augusto, Asclepio Augusto, Silvano Augusto, Sol, Luna, Flora e Mitra, nonché numerosi mani e geni protettori della città e della famiglia. In onore delle ninfe fu eretto sulla costa polese un ninfeo ador- nato da un recipiente di marmo per il raccoglimento dell’acqua sorgiva. Nonostante la romanizzazione e la pacificazione di cui si è detto, a Pola e nel Polese la popolazione autoctona mantenne le proprie usanze tradizio- nali nel celebrare le divinità illiriche indigene o illiro-venete e numi quali Terra Histria, Boria, Nebres, Ica, Eia Augusta, Istria; divinità che nella nuova forma sincretica acquisiscono l’appellativo “Augustus”. Troviamo così menzione di un genius Barbolani, che probabilmente era il genio domestico protettore di un padrone rurale del Medolinese il quale vene- rava questo culto ed altri Lari domestici. Troviamo inoltre testimonianze del culto di semidei e ninfe su numerosi elementi edilizi posti a decorazio- ne dei teatri romani, dell’ Arco dei Sergi, dei mausolei tombali; vi ritrovia- mo Priapo, i tritoni, le ninfe, le sfingi alate, il dio Atis, le Meduse. Considerando le divinità ufficiali in auge nella Pola antica non si può non menzionare l’antica capitale degli Istri, Nesazio, che aveva perduto il suo primato di tradizionale centro amministrativo e di culto proprio in seguito alla conquista romana. Quando Pola acquisisce lo status di colonia, Nesazio diventa municipio (probabilmente all’epoca dell’imperatore Claudio) e sotto l’imperatore Gordiano diviene città indipendente (res publica). A Nesazio e nel suo territorio è accertata la tradizionale venera- zione delle divinità femminili di Eia Augusta (Fig. 4), Terra Histria, Trita Augusta e di una sola divinità maschile, Mel/osocus Augustus, a conferma 14 V.GIRARDIJURKIC, Cultie riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 Fig. 4- Nesazio, Eia Augusta. che in questa località i culti indigeni e sincretici istriani ed orientali esercitavano più influenza di quelli presenti nella Pola imperiale. Il culto della Grande Madre generatrice, dea della fertilità, era atte- stato a Nesazio già nella preistoria ed accertato nei secoli VI e V a.C., periodo al quale risale una statua monumentale in pietra di figura femmi- nile nel duplice atto dell’allattamento e del parto. Complementare ad essa risulta il dio noto come il cavaliere di Tracia, il quale era probabilmente una divinità della guerra, del potere e della fecondità avente un ruolo nella creazione della feconda progenie e del benessere generale. Come si evince dalle iscrizioni disponibili, a Nesazio si venerava anche il culto di Eia e Melosocus (Fig. 5), dei quali non abbiamo però rappresen- tazioni figurative; ciò nonostante è certo che essi rappresentavano una coppia importante di divinità autoctone che possiamo porre in relazione con la generatrice e il cavaliere e con le figure di Ica, Terra Histria, Boria, Nebres e Trita. Questo nutrito pantheon indigeno di figure femminili protettrici di sorgenti, suolo, vento, tempeste, nuvole, nebbia, coltivazioni V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 200)4, p.3-32 15 zi getti Fig. S- Carnizza, Melosocus. e terreno fertile, per le proprie caratteristiche iconografiche verrà combi- nato con le divinità romane Magna Mater e Bona Dea. Il centro di culto formato dai tre templi della Nesazio romana è quasi identico, per disegno architettonico ed urbanistico, a quello di Pola. I due templi più piccoli si trovavano, infatti, a sud e a nord dell’edificio centrale, e l'impianto cultuale nella fase edilizia conclusiva segue la pianta della triade polese. Il tempio meridionale di Nesazio è quello più antico, con ogni prob- abilità del periodo repubblicano; si ritiene che fosse dedicato a Eia e alla dea della fertilità. Il tempio centrale, edificato in un secondo tempo, a giudicare dai bronzetti di Giove rinvenuti nei larari domestici era prob- abilmente dedicato al culto di Giove. A chi fosse dedicato il terzo tempio non è dato sapere, ma a giudicare dalla cronologia dell’edificazione avreb- be potuto essere il centro di un culto imperiale, come indica anche l’iscri- zione che parla degli augustali, i sacerdoti del culto imperiale. In tutto l’agro polese, compresi i centri produttivi come il lanificio di Caio Giulio Crisogone o le officine ceramiche di Caio Lecanio Basso 0, ancora, le ville rustiche di proprietà augustea a Cuie presso Lisignano e 16 V.GIRARDIJURKIC, Cultie riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 3-32 quelle a Pomer, Promontore, Gallesano, Vareschi o Barbariga, è possibile dedurre lo status sociale degli abitanti e la provenienza di un particolare culto o credenza grazie alle epigrafi votive e ai nomi dei dedicanti sulle are votive. È di particolare interesse la massiccia presenza del fenomeno di adozione dei culti indigeni da parte degli immigrati: orientali, veterani, schiavi e liberti nella nuova patria si sentono più protetti dalle divinità locali. Ed è proprio grazie a questa vasta gamma di dei e dee in coesistenza con la religione ufficiale romana che a Pola e nel polese la tradizione religiosa illirica si conservò fino quasi all’arrivo del cristianesimo. In alcuni frangenti le manifestazioni di culto romano, greco-romano, orientale od autoctono avevano un carattere pubblico che si esternava con periodiche processioni e preghiere che si facevano versando delle bevande sulle are votive in luoghi quali il foro, gli spazi dedicati al culto imperiale e nei templi. I piccoli santuari domestici detti larari appartenevano alla sfera del privato, della famiglia o della tenuta. Il culto imperiale era preservato, esaltato e celebrato dagli augustali, membri del collegio sacer- dotale addetti al culto imperiale, noti nella Pola romana e a Nesazio. A Pola, il collegio dei dendrofori (taglialegna) era addetto alla celeberazione del culto orientale della Magna Mater, la Grande Madre di tutti gli dei (Fig. 6). La dedica sulla stele di una Obellia Maxuma adornata con raffigu- razione di Atis e Serapis menziona una sacerdotessa di questo culto (Fig. 7). Il pastore Atis è l’eterno accompagnatore della Mater e lo si ritrova menzionato e raffigurato nei rilievi e sculture polesi, a riprova dell’ampia diffusione di questo culto orientale che era stato adottato con grande rispetto dai cittadini di Pola. Il rinvenimento, nel quartiere di Veruda, di una testa (frammento di statua) di Atis e di una statua (Fig. 8) e due blocchi con rilievi raffiguranti l’ Atis funerario sono forieri di una possibile presenza di un santuario della Magna Mater nei dintorni di Pola. La Magna Mater si venerava anche a Nesazio: le terme romane hanno svelato una statua in marmo della dea sul trono con serpente al piede. Questo culto si può collegare all’indigena dea ctonia della terra, Bona Dea o Terra Mater, sulle cui are venivano compiute offerte sacrificali. Il rinve- nimento di una piccola testa di Atis vicino al tempio meridionale di Nesazio indica, anche qui, la possibilità che vi fosse ubicato un santuario dedicato a questo culto. Anche Mitra, divinità di origine siriana, trovava favori nella Pola romana (Fig. 9). Questo culto vede la sua massima diffusione nel III secolo V. GIRARDIJURKIG, Cultie riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 3-32 Fig. 6- Pola, Magna Mater. Fig. 7- Pola, stele di Obellia Maxuma. 17 V.GIRARDIJURKIC, Cultie ritidiPola antica e del suoagro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 Fig. 8 — Pola, Atis. Fig. 9 - Pola, Mitra. V.GIRARDIJURKIC, Culti riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 3-32 19 in tutto l’Impero Romano, ma soprattutto nella zona di Aquileia e nel Norico, in Dalmazia e nell’attuale Bosnia ed Erzegovina. È probabile che in uno speleum (grotta naturale) sul pendio settentrionale del colle centra- le polese si celebrassero con regolarità riti di sangue nella forma di sacrifici di tori (tauroctonia) e si bevesse, ancora caldo, il loro sangue. Dato il rinvenimento di un monumento a Mitra nei pressi della cattedrale polese, il culto mitraico può essere considerato un prodromo del cristianesimo, specialmente tra i commercianti, i militari e gli schiavi. Insieme a Mitra di solito si celebrava anche Sol, ovvero il sole, la divinità che alludeva alla luce e all’immortalità. A questo proposito, a Pola è documentato anche il culto di Luna. La Pola romana in quanto città costiera e portuale conosce anche il culto, di provenienza greca, dei gemelli Castore e Polluce, protettori dei naviganti. La dea Iside rientra nel gruppo delle divinità egizie, anch’esse venera- te nell’agro polese: un’ara ad essa dedicata è stata ritrovata in un podere a Gallesano (Fig. /0). Nelle ville rustiche i gestori abituali delle tenute — Fig. 10- Gallesano, Iside. 20) V.GIRARDIJURKIC, Cultie riti di Pola anticae del suo agro, Atti,vol.XXXIV, 2004, p.3-32 liberti, ma spesso anche schiavi investiti della fiducia del loro padrone — facevano offerte a Iside, loro protettrice. Inoltre, in qualità di dea della fertilità e della fortuna essa vegliava parimenti sulla famiglia, sulla proge- nie e sulle coltivazioni, per cui le venivano fatte offerte per assicurare la continua fertilità. Iside viene spesso raffigurata con in mano un sonaglio (sistrum) come strumento musicale; un sistrum è stato appunto rinvenuto in una delle tombe di Nesazio. In questa rassegna delle divinità orientali e greco-romane, va detto anche delle divinità italiche, che compaiono nelle vesti di Silvano e Libero. Silvano è il dio dei boschi e dei pascoli, protettore di pecore, capre e pastori. Are a lui dedicate sono state trovate nel lanificio di Caio Giulio Crisogone (dove si menziona il Sanctus Silvanus), come pure a S. Daniele (Sandalja), vicino a Pola. Il culto di Libero, divinità dalle medesime caratteristiche di Silvano e dei greci Pan e Dioniso, è connesso soprattutto alla viticoltura. Lo si Fig.11- Pola, Ercole. V.GIRARDIJURKIC, Cultie riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 21 celebrava nella tenuta augustea di Cuie presso Lisignano, dove, sopra un ara, gli venivano profuse offerte. Ad Augusto Libero (Liber Augustus) era probabilmente dedicato nella tenuta un piccolo santuario eretto da uno schiavo appartenente ad Ottavia, moglie di Nerone. Gli schiavi ed i liberti veneravano anche i Geni, creature mitologiche appartenenti ad un rango divino inferiore. Essi erano di solito divinità legate a un luogo particolare, a un insediamento (genii loci), come ad esempio il Genius Barbolani presso Medolino. Uno schiavo che in esso riponeva massima fiducia eresse una piccola ara domestica, professando così la propria venerazione e l’affidamento alla protezione del genio. Il culto di Ercole, molto noto nel pantheon greco e che fu adottato come semidio dapprima dagli Etruschi e più tardi dai Romani, ha segnato in perpetuo la Pola romana: come patrono della città, egli evoca la leggen- da ellenistica dei Colchidi, il popolo che approdò nel porto di Pola e qui mise a riposo i propri remi. Eracle stesso fu uno degli Argonauti partiti con Giasone alla ricerca del vello d’oro nella Colchide. Vista con occhi moder- ni, la storia narra dei conquistatori e guerrieri in cerca d’oro e ricchezze che, partendo dall’Asia Minore, viaggiarono e commerciarono, fino ad approdare nel Mar Adriatico, spingendosi fino a Pola. Seppur Nesazio vanti una presenza maggiore di tracce di rapporti con la cultura greca arcaica e classica, dei contatti avvenuti nella baia di Pola testimoniano alcuni scritti di Callimaco e Licofrone, scrittori alessandrini del [V secolo a. C. Le testimonianze più recenti del legame con questa tradizione sono il rilievo raffigurante la testa di Ercole e la sua clava che si trovano sulla porta cittadina omonima, la più antica di Pola, risalente all’anno 50 a.C. Essa è ubicata proprio dove precedentemente si trovava la porta preisto- rica del castelliere polese. Un’ulteriore testimonianza è data da un’iscri- zione dedicata ad Ercole che parla dell’edificazione e ristrutturazione di un tempio per decisione di un decurione — “de decurionum sententia”. Un'altra iscrizione dedicata ad Ercole (Hercules Augustus) è stata rinvenu- ta proprio nei pressi di Porta Ercole e conferma la massima diffusione del culto di Ercole a Pola. Quest’epigrafe del II secolo d.C. riporta il nome della città come Colonia Pola Pollentia Herculanea, confermando la conti- nuità del culto erculeo nella Pola romana. Il rinvenimento di una piccola ara votiva dedicata ad Ercole con la sua clava e il maiale dell’orientale Filargiro, assieme alle iscrizioni sopraccitate che appartenevano o a un tempio più recente (ubicato secondo alcuni extra muros) o, più proba- 3 V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola anticae del suoagro, Atti, vol. XXX1V,2004,p.3-32 bilmente, a un’altro più antico che era ubicato sul foro e ne costituiva il tempio centrale (con tanto di cella dedicata al semidio), nonchè un reperto di testa barbuta, frammento di una grande statua in pietra, accertano senza ombra di dubbio la presenza nel corso di secoli del culto di questa semi-divinità, che pertanto merita la nostra massima attenzione. Bisogna sottolineare che i Greci furono i seguaci originari del culto di Ercole nonché i suoi primi divulgatori (Fig. //). Esso è stato poi adottato dai Romani e in seguito assimilato in toto dalla popolazione autoctona polese. AI pantheon greco-romano e orientale dei culti e delle credenze ritrovati a Pola aggiungeremo infine la dea egizia Hathor; ma anche i Sileni e le Ninfe (Fig. /2), Dioniso (Fig. 13), i Tritoni e le Meduse erano parimenti presenti a Pola e nel polese, nelle decorazioni degli edifici pubblici e privati. Pur non essendo di precipuo interesse cultuale per la popolazione polese, essi tuttavia erano parte integrante del contesto spiri- tuale e religioso di Pola romana. Questa rassegna di credenze e di centri di culto accertati o presunti a Pola e nel polese rileva chiaramente la coesistenza e l’intrecciarsi del culto Fig. 12- Pola, Menade. V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Arti, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 23 romano Ufficiale, di divinità del pantheon greco-romano, orientale e sin- cretizzato e di numerose dee autoctone. Quanto è stato qui descritto ha costituito il quadro religioso del vivere plurietnico e pluriconfessionale nello spirito della tolleranza religiosa romana, fino al sopravvento del monoteismo e della religione cristiana. Fig. 13- Pola. Dioniso. 24 V.GIRARDI JURKIÒ, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 BIBLIOGRAFIA Abbreviazioni AAAD Antichità Altoadriatiche, Atti delle Settimane di Studi aquileiesi, Aquileia-Udine ACRS Atti, Centro di ricerche storiche, Rovigno-Trieste AMSI Atti e Memorie della Società istriana di archeologia e storia Patria, Parenzo-Ve- nezia- Trieste AN Aquileia Nostra, Rivista dell’Associazione nazionale per Aquileia, Aquileia ASAnt Annali del seminario di studi del mondo classico, Archeologia e Storia Antica. Istituto Universario Orientale, Napoli. 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Razuzdane svedanosti bile su posebno vezane za kult Dioniza, Libera te orijentalne krvave taurobolije kao kod Velike Majke i Atisa, Mitre i kod kultova Sabazija i Izide. Navode se utvrdena i pretpostavijena kultna sredista, hramovi i kuéna svetista (lararij) u Puli, Nezakciju, Premanturi, Vrèevanu kod Medulina, LiZnjanu, Stinjanu, na Brijunima i na podruèéju agera u vilama rustikama i obrtniékim centrima. Odraz mjesovitog rimskog panteona, vjernika i dedikanata, orijentalaca i Italika te romaniziranih Histra, uvjetovan je razvitkom gospodarstva, multietniékim sastavom pulskog agera i stupnjem romanizacije. Odnos rimskih prema gréko-rimskim i autohtonim bozanstvima u navedenom razdoblju je gotovo podjednak (39%:37%:24%). POVZETEK: KULTI IN OBREDI V PULI IN NJENI OKOLICI V RIMSKEM OBDOBJU - Clanek govori o rimskih kultih (Jupiter Viktor, Minerva, Venera, Herkul, Diana - Artemida, Liber, Dioniz, Mater Zemlja, Bona Deja, Viktorija), gr$ko-rimskih, orientalnih (Jupiter Amon, Nebeska Venera, Nemeza, Izida, Mitra, Magna Mater - Cibela, Atis, Sabazij, Hator, Aheloj, Tifon, Menade, Gorgone, Meduze), avtohtonih (Eja, Borija, Trita, Nebres, Melosok) in sinkretiénih kultih (Eja Avgusta, Melosok Avgust, Liber Avgust in drugi), ki so jih Castili v Puli rimskega obdobja in njeni okolici od I. stoletja p. n. $. do IV. stoletja n. $. Vsakega od omenjenih kultov so slavili v razliénihn mesecih, ob menjavi: letnih Casov, s procesijami ter plesom in glasbo. Se posebno velike obrede so V.GIRARDIJURKIC, Culti e riti di Pola antica e del suo agro, Ani, vol. XXXIV, 2004, p.3-32 31 pripravijali za Caséenje kulta Dioniza in Libera; orientalne krvave obrede Zrtvovanja bikov so bile v éast Magni Mater, Atisu in Mitri, Se posebno pa za kult Sabazija in Izide. Omeniti je potrebno tudi domnevne kultne centre, templje in larare v Puli, Nezakcij, Premanturi, Vréevanu, pri Medulinu, LiZnjanu, Stinjanu, na Brijonih ter na podezelju, v vilah in obrtnih centrih. Odsev rimskega panteona, s svojimi verniki in Castilci, tako vzhodnimi kot italskimi ter romaniziranimi Istriani, so pogojevali ekonomski razvoj, multiet- niéna struktura pulskega podezelja in stopnja romanizacije. V omenjenem obdobju se je razmerje rimskih bozZanstev glede na gr$ko-rimska in avtohtona skoraj izenacilo (39%:37%:24). la. K. DZIN, I gioielli d'oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 33-50 33 I GIOIELLI D’ORO DELLA NECROPOLI DI BURLE (MEDOLINO) KRISTINA DZIN CDU 671.1:902.2(497.SBurle/Medolino)”652” Arheoloski muzej Istre Saggio scientifico originale Museo archeologico dell’Istria Gennaio 2005 Pola Riassunto - La vasta necropoli che si estende sull'area delle vie stradali che da Pola giungono a Medolino attraverso Sichici e Sissano (l’antica Sissianum) e della scomparsa Azzano (Atianum) occupava la parte orientale della valle nei pressi delle antiche fortifica- zioni residenziali e produttive e dell’abitato tardoantico sulla penisola di Visola. Una parte del sepolcreto affonda nel golfo e porto di Medolino, una seconda nel golfo di Burle, un’altra ancora si estende lungo la terraferma e occupa il braccio di terra della penisola e il relativo litorale. Il ritrovamento di gioielli d’oro in 9 tombe della necropoli di Burle è segno della continuità della vita locale e dell’uso di adornare le defunte nel viaggio verso l’aldilà, dato che i corredi funerari sono composti da preziosi patrimoni di famiglia creati duecento anni prima di venir sepolti. Gli scavi e le ricerche sull’area della necropoli di Burle hanno avuto inizio con il rinvenimento di una stele funeraria del liberto Elio, databile alla fine del II o all’inizio del III secolo!. Il lavoro è intercorso in tre fasi (1979-1981, 1997-1998 e 1999-2000), la prima delle quali è stata contrasse- gnata da scavi sistematici, seguiti a distanza di tempo dalle ultime due fasi, caratterizzate da scavi di protezione. Durante questi scavi sono state rinvenute complessivamente 312 tombe tra crematorie e inumative, data- ! V.JURKIG, Anticka i kasnoantitka nekropola Burle kod Medulina. Prethodni izvjestaj, 1979- 1981 /La necropoli antica e tardoantica di Burle presso Medolino. Relazione preliminare, 1979-1981/, Izdanja Hrvatskog arheoloskog drustva [Edizioni della Società croata di archeologia/, 11/2, Pola, 1987, p. 167-188; K. DZIN, Sjaj antiékih nekropola Mutile (Splendour od antique Mutila's necropolis), Arheoloéki muzej Istre - Katalog /Museo archeologico dell’Istria - Catalogo/, 58, Pola, 2000, p. 1-24. 34 K.DZIN,I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Artî, vol. XXXIV, 2004, p. 33-50 bili dal I secolo a.C fino al VI secolo d.C. A sud-ovest (dove si trovavano le tombe crematorie più antiche) la necropoli è sommersa tra il m 1,20 ed il m 1,90 di profondità, mentre la zona più recente, emersa a nord-est, era delimitata in parte da un muro di cinta, il che costituisce una novità per quanto riguarda le aree funerarie dell’Istria antica? (Fig. 1). Nel corso della prima fase di scavi sono emerse 40) tombe scheletriche e un’architettura tombale alquanto eterogenea (tombe anforee, tombe scavate direttamente nella terra rossa o nelle fessure calcaree, tombe ricoperte da lastre di pietra, tombe in muratura). Il settore occidentale della necropoli presenta un’area specifica adibita a manifestazioni funera- rie e di culto, ricca di frammenti di recipienti e boccali in ceramica dal fondo forato, di tipologia, grandezza e fattura affini. Proprio qui sono state scoperte le fondamenta di un edificio tardoantico di pianta rettangolare che indicherebbero l’esistenza di un locus sepulturae che doveva contenere un sarcofago in pietra. I reperti minuti non sono copiosi ma risaltano con sa Si MEDULIN - BURLE / Excavafions 1981-2000 i e Vesna Girardi Jurkic. Ph.D. - Kristina Dam [ sosse 904/1 > “eg Fig. 1.- Medolino - Burle, pianta degli scavi 1981-2000, secondo V. Girardi-Jurkié — K. Din (Mapa-Burle JPG) 2 K. DZIN, Catalogo, in Sjaj antiékih nekropola Istre (The Splendour of the antique necropolises of Istria), Arheolo$ki muzej Istre - Monografije i katalozi /Museo archeologico dell’Istria - Monografie e cataloghi/, 13, Pola, 2002, p. 102-133. K.DZIN,I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol. XXXIV,2004, p.33-5@ 35 interesse all’occhio dell’archeologo: perline azzurre, anelli, orecchini poli- edrici dalle estremità allargate, ampolle di vetro e balsamari e ceramica tardoantica ondulata. Le datazioni preliminari fanno risalire questo setto- re della necropoli al periodo tra il II e la fine del IV secolo. Le due successive fasi di scavo hanno portato alla luce 272 sepolcri tra cinerari ed inumativi, nonché due sarcofagi in piombo infissi nelle rispet- tive tombe murate?. Le tombe crematorie sono quelle più eterogenee: sistemate in crepacci e prive di corredo, evidenziano la sepoltura dei ceti più poveri tra la popolazione indigena romanizzata. La sepoltura avveniva in parte deponendo i resti carbonizzati del defunto in urne ceramiche di grezza fattura locale dentro fosse tombali scavate nel terreno oppure dentro incavi naturali della roccia viva. Due delle tombe crematorie si presentavano in sepolcri murati; di queste una era a capanna‘. Questo settore della necropoli non ha portato alla luce ollae vitree né relativi frammenti, nonostante siano state scavate 20 tombe crematorie dai ricchi corredi in vetro e altro materiale, tra cui 5 lacrimari vitrei e un bicchiere caliceforme di fattura fine in vetro sottile verdastro con beccucci e ansette, due specchietti in metallo argentato, un unicum di grosso anello in ambra raffigurante Eracle con leone e una lucerna Fortis ricoperta da grumi di vetro bruciato. Le tombe cinerarie ammontano al 10% dei sepolcri totali della necropoli. Ciò vale a dire che il 90% dell’area sondata della necropoli è compo- sto da tombe di tipo inumativo. La loro conformazione è pluriforme: troviamo così anfore di sepoltura coperte da cumuli di pietra, anfore in funzione monumentale, tombe delimitate e coperte da tegulae in pietra 0 ceramica, tombe che seguono la forma dei sarcofagi lapidei, tombe murate da frammenti litei e lastre ceramiche e con copertura a due embrici in tegole, tombe di famiglia murate ed intonacate coperte da lastre in pietra regolari o tegole, ossari e tombe ricavate nella pietra e coperte da pietric- cio. Tutte queste varietà si sono a loro volta variamente configurate in sottogruppi che indicano la stratificazione temporale, sociale e religiosa dei riti di sepoltura. Tra i reperti più importanti ritrovati in queste tombe inumative annoveriamo: ampolle pentaedriche ed esaedriche del tipo Mercurio; un kit di scrittura a cera composto da due piattini per cera, 3 IBIDEM, p. 103. 4 IBIDEM, p. 104. 5 IBIDEM, p.107, n.111. 36 K. DZIN, Igioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol. XXXTV, 2004, p.33-50 colino e sti/os®; due gemme, una raffigurante un pescatore che esce da una conchiglia nautilus” , l’altra un astice*; numerose perline soffiate verdi e bianche infilate su filo d’oro”; numerose perle in giaietto; alcune medaglie ovali in pasta vitrea color blu scuro, forate alle estremità; sette lucerne del tipo Fortis!", aghi in osso per la rammendatura delle reti da pesca e numerosi pesi rotondi forati in ceramica; un completo da barba composto di bacinella in ceramica e rasoio metallico; dei cuneetti in osso per la tessitura del pizzo; un timbro rettangolare in bronzo con la dicitura in rilievo AOVILIAE L. F. OCLATINAE"!. Di particolare significato è il rinvenimento di due sarcofagi in piombo interrati e rivestiti di muratura in pietra e coperti a due spioventi in pietra!” (Fig. 2). Uno dei due sarcofagi conteneva resti maschili assieme a sette ampolle vitree, sei delle quali con sul fondo incise le seguenti iniziali: VD, O P*. L’altro sarcofago presentava uno scheletro femminile ed era prov- visto di un ricco corredo costituito soprattutto da gioielli, quali una collana d’oro con pietre verdi semipreziose lucidate e una coppia di orecchini in pasta vitrea azzurrognola, di foggia ovale siriana!. Un tale repertorio di recipienti eleganti, tazzine in ceramica, gioielli d’oro, collane, orecchini con asola color verde e anelli, indica senza dubbio l’alto status sociale di Fig. 2. - Sarcofago in piombocon sepoltura femminile; fase dell’apertura; tomba n. 159. © IBIDEM, p. 185, n. 181, 182, 183, 184. 7 IBIDEM, p. 114, n. 169. 8 IBIDEM, p. 113, n. 159. * IBIDEM, p. 108-111, n. 119-143. !0 IBIDEM, p. 123-129, n. 219-129. !! IBIDEM, p. 118, n. 182. 12 K_DZIN, Sjaj antickih nekropola Mutile (Splendourod antique Mutila's necropolis), ArheoloSki muzej Istre -- Katalog /Museo archeologico dell'Istria - Catalogo/, 58, Pola, 2000, fotografia p. 7. 13 K. DZIN, Catalogo, in Sjaj antiékih nekropola Istre , cit., p. 106, n. 94, 95, 96. 4 IBIDEM, p. 119, n. 188, 189. K.DZIN, I gioielli d'oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.33-50 37 questi defunti, che probabilmente si occupavano delle tenute (forse in qualità di villici) o ricoprivano cariche amministrative. La necropoli di Burle è in gran parte pagana, tuttavia le tombe prive di corredo funerario presentano alcuni contrassegni cristiani. È da menzionare, ad esempio, un reperto di sepoltura rituale costitui- to da un cinghiale di tre anni d’età, con accanto due selci: l’animale era stato sistemato sul petto del defunto, con la tegola messa a sostenerne il capo a mo” di cuscino!*. L’intera fossa era foderata di pietra frammentata e sminuzzata, e qui il pensiero corre alle precedenti inumazioni celtiche o alle tombe altomedievali con bovini rinvenute sul colle di ZajGji brijeg vicino a Pinguente. Un’accetta di ferro ritrovata accanto ai resti del defun- to suggerisce l’esistenza in loco di una fase più recente di cimitero altome- dievale a file, similarmente a una tomba inumativa che nella precedente fase di scavo aveva portato alla luce un falcetto in metallo: il tutto a riprova della continuità inumativa in questa necropoli dal I sino alla fine del VI secolo!. LE In occasione degli scavi effettuati nel 2000 è stata accertata l’esistenza di tombe inumative con corredi d’oro in prossimità dei due sarcofagi in piombo. Gli orecchini rinvenuti nei restanti 8 sepolcreti, per qualità dell’oro e fattura risalgono all’inizio del II secolo d.C. e fanno parte del patrimonio di famiglia depositato accanto alla defunta agli inizi del IV secolo, cioè nel momento di massimo fulgore della villa su Visola e di massimo potere dei suoi inquilini!”. 5 V. GIRARDI-JURKIC - K. DZIN, “Znaéaj rimskih nekropola u Istri - The importance of the roman necropolises in Istria”, in Sjaj antickih nekropola Istre, cit., p. 64-65. 10 IBIDEM, p. 65. !7 Tombe n. 107, 117, 128, 159, 189, 198, 201, 244, 38 K. DZIN, I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol XXXIV, 2004, p. 33-50 CATALOGO DEI GIOIELLI: 1. Collana d’oro formata da due file di elementi d’oro e di perle di pietra verde semipreziosa di forma cilindrica. Medolino — Burle, tomba n. 159, secoli I-II, lunghezza tot. 72,0 cm, lunghezza media pietre 0,6 cm, diametro pietre 0,4 cm, spessore filo d’oro 0,05 cm; peso:12,05 gr. A 30010462!8 (Fig. 3). Fig. 3.- Cat.1. Collana d’oro (188 / zlato JPG) 18 K. DZIN, Caralogo, in Sjaj antickih nekropola Istre, cit., p. 119, n. 188. K. DZIN, I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol XXXIV, 2004, p. 33-50 39 2. Coppia di orecchini con pietre d’ametista incastonate in cornice fusa che chiude interamente la parte posteriore della pietra. La cornice è decorata e ne sporgono tre gambette fuse piegate all’insù. Il gancetto per il lobo è di filo d’oro semplice arrotondato. Medolino — Burle, tomba n. 159, secoli I-II, grandezza 1,6 x 1,2 cm, pietra 0,8 x 1,2 cm, lunghezza gambette 1,4 cm, spessore gancetti 0,1 cm; peso: 3,69/3,98 gr. A 30010463 a/b!° (Fig. 4). Fig. 4. — Cat. 2. Coppia di orecchini con pietre d’ametista (/89 / 59 nauònice) 3. Orecchino semplice in oro e lamiera pressata, con asola. Medolino — Burle, tomba n. 244, secoli I-II, larghezza 1,0 x 0,9 cm, spessore 0,3 x 0,01 cm; peso: 0,56 gr. A 30010464”, ! IBIDEM, p. 119, n. 189. 20 IBIDEM, p. 119, n. 190. 40 K.DZIN,I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 33-50 4. Orecchino in oro fuso di forma conica scanalata. Medolino — Burle, tomba n. 198, secolo I-II, 1,3 x 2,0 cm; peso: 0,07 gr. A 30010465”! (Fig. 5). Fig. 5. - Cat. 4. Orecchino in oro fuso (/97 / 63 nau$nice) S. Coppia d’orecchini in filo d’oro teso, terminante in asola ferrata a decorazione funzionale. Medolino —- Burle, tomba n. 189, secoli II-IV, larghezza 1,1 x 1,3 cm, spessore filo 0,08 cm; peso: 0,51/0,41 gr. A 30010466 Mb, 2l IBIDEM, p. 119, n. 191. 22 IBIDEM, p. 119, n. 192. K.DZIN,I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 33-50) dl 6. Coppia d’orecchini in filo d’oro teso, terminante in asola ferrata a decorazione funzionale. Medolino — Burle, tomba n. 117, secoli II-IV, larghezza 1,3 x 1,5 cm., spessore filo 0,1 cm; peso: 0,65/0,60 gr. A 30010467 a/b?? (Fig. 6). Fig. 6. - Cat.6. Coppia d’orecchini in filo d’oro teso (/92 / 64 nausnice) n 7. Coppia d’orecchini rettangolari con smeraldi incastonati in cornice fusa che chiude interamente il retro della pietra. La cornice è decorata e ne sporgono tre gambette fuse piegate all’insù. Il gancetto per il lobo è di filo d’oro semplice arrotondato. Medolino — Burle, tomba n. 107, secoli I-II, larghezza 1,5 x 1,2 cm, pietra 1,3 x 0,8 cm, lunghezza gambette 1,1 cm, spessore gancetti 0,1 cm; peso: 3,01/2,59 gr. A 30010468 a/b°! (Fig. 7). 8. Orecchino d’oro rettangolare con perla cilindrica perforata di pie- traverde semipreziosa. Ai piedi della cornice si trovano tre decorazioni di filo d’oro con terminazione all’insù. Medolino — Burle, tomba n. 201, IV 23 IBIDEM, p. 120, n. 193 24 IBIDEM, p. 120, n. 194. 42 K.DZIN, 1 gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.33-50 NYA VA VANTA LI \ | | \ Lal da NITISSINA Fig. 7. — Cat. 7. Coppia d’orecchini rettangolari con smeraldi incastonati (/94 / 60 nausnice) secolo, larghezza 1,4 x 1,0 cm, dimensioni pietra 1,2 x 0,7 x 0,8 cm, spessore filo 0,1 — 0,2 cm; peso: 2,64 gr. A 30010469°5 (Fig. 8). Fiy. 8.- Cat. 8. Orccchino d’oro rettangolare con perla cilindrica perforata 25 IBIDEM, p. 120, n. 195. K.DZIN, I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Arti, vol. XXXIV, 2004, p. 33-50 43 9. Coppia di orecchini massicci fusi, conici e scanalati. Medolino — Burle, tomba n. 128, secoli II-IIT, larghezza 1,6 x 0,8 cm, altezza cono 0,5 cm; peso: 1,76/1,48 gr. A 30010470 a/b°° (Fig. 9). Fig. 9. — Cat. 9. Coppia di orecchini massicci fusi (796 / 62 nausnice) III. A cuor leggero si potrebbe dire, come del resto ritenevano i filosofi greci, che il genere umano dai suoi primordi fosse ossessionato dai feno- meni della nascita e della morte. Questi flussi esistenziali di inizio e fine dell’essere erano un tutt'uno con la concezione umana dell’esistere e dello scomparire. Con lo sviluppo dei processi mentali compariva l’esigenza di interpretare queste intuizioni in chiave metafisica come passaggio dalla vita terrena all’aldilà. Il genere umano cercava quindi in tutte le epoche storiche un credo, in ambito mitologico e religioso, nella vita dopo la 26 IBIDEM, p. 120, n. 196. 44 K.DZIN,I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 33-50) morte, e questo pensiero costituiva parte integrante della cultura spiritua- le e del vivere religioso. La celebrazione delle divinità nelle acropoli come auspicio di protezione dei vivi e dei defunti, espresso dalla pietas nei loro confronti con libagioni sacrificali, lamenti e danze funebri, sono tutti segni di continuità tra vivi e morti. Il fine degli usi rituali, culturali ed architet- tonici dei viventi si manifestava con la loro trasmissione nelle necropoli — città dei morti contrassegnate dalla continuità della vita terrena in quella ultraterrena, immaginata in un modo simile o anche identico a quella”. L’idea e lo scopo sono rimasti gli stessi dalla preistoria fino alle epoche più recenti: assicurare la continuità del vivere evitando di ammettere l’esistenza della morte come interruzione di quanto si era vissuto in quel mondo. Le tombe erano considerate luoghi dove riposavano i resti terreni dei defunti, il cui spirito continuava a vivere allo stesso modo da qualche parte nell’universo. Così le lapidi tombali sovente presentano raffigurazio- ni e rilievi di psicopompi (guide delle anime), divinità e figure mitologiche, eroti con fiaccole spente, delfini ed uccelli; ma vi ritroviamo anche scene di quotidianità come banchetti, abbellimenti femminili, gare sportive, raffigurazioni dell'educazione dei bambini o scene di attività artigiane. La concezione della non-interruzione della vita fungeva da stimolo ai viventi e da esempio per vincere la morte ed elaborare il lutto nelle maniere descritte da queste raffigurazioni, allo scopo di incoraggiare la fiducia nel futuro delle generazioni venture; tutto ciò è rilevabile anche nell’Istria antica. La sepoltura del defunto costituiva, qui come in altre civiltà dell’epo- ca, un elemento quotidiano di cultura spirituale e di interpretazione religiosa. La deposizione nella tomba delle ceneri cremate o del corpo inumato si legava a riti specifici che trovavano la loro ragion d’essere nelle tradizioni e nei costumi del mondo antico, e che si rispecchiavano quasi in toto anche in terra istriana”*. Particolare valenza assume qui la deposizione di oggetti nella tomba o sopra di essa durante i cerimoniali di lutto. Questi corredi tombali erano effetti personali del defunto o regali della famiglia o di amici a segnare l’ultimo commiato, ma anche oggetti di culto dei morti e offerte agli dei. L’usanza si era mantenuta in Istria per tutto l’evo antico, 27 V. GIRARDI-JURKIC, “Najznadajnije nekropole i groblja u prapovijesnoj, antiékoj i rano- srednjovjekovnoj Istri (Les nécropoles et les cimetières les plus importantes en Istrie dans la period de la préhistoire, de l’antiquité et du moyen age)”, Histria Antiqua, Pola, vol. 8 (2002), p. 11. 28 IBIDEM, p. 11-36 K.DZIN,I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.33-50 45 con maggiore o minore intensità a seconda della struttura etnica e sociale degli abitanti, fino all'accettazione ultima del monoteismo cristiano. Le offerte funerarie spesso venivano rotte o forate in occasione delle cerimo- nie funebri, e sulla fossa ormai chiusa si deponevano cinghiali, tartarughe ed altri animali domestici o selvatici a protezione della tomba e della vita ultraterrena del defunto. La deposizione dei corredi d’oro nelle 9 tombe della necropoli di Burle rappresenta proprio questa continuità esistenziale com°essa si ri- specchiava nell’usanza di adornare le defunte per il passaggio all’aldilà e fornirle così di un po’ di quel prezioso patrimonio di famiglia custodito gelosamente di generazione in generazione nel corso di circa duecento anni (Fig. /0). Fig. 10.- Medolino, veduta aerea (MEDULIN JPG) 46 K.DZIN, I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atri, vol. XXXIV, 2004, p. 33-50 BIBLI®@GRAFIA A. GNIRS, “Rémische Luksusvilla in Medolino”, Jalrbuch fiir Altertumskunde, 2, Vienna, 1908, 157. K. DZIN, Sjaj antickih nekropola Mutile /Lo splendore delle necropoli antiche di Mutila/, Katalog AMI /Catalogo del Museo archeologico dell’Istria/, 58, Pola, 2000, 7-24. K. DZIN, ”Zastitno arheolosko istrazivanje na nekropoli Burle kod Medulina u 2000. godini” /Ricerche archeologiche conservative nella necropoli di Burle presso Medolino nel 2000/, Godisnjak muzea- laca i galerista Istre /Annuario degli operatori museali e dei galleristi dell’Istria/, 7, Pola, 2001, 5-7. K. DZIN, Anticki nakit iz Medulina /Gioielli antichi di Medolino/, Katalog Muzeja grada Umaga /Catalogo del Museo della città di Umago/, 2002. V.JURKIG, “Burle, Medulin, Istra — antiéki kosturni grob sa stelom” /Burle, Medolino, Istria - tomba scheletrica antica con stele/, Arheoloski pregled /Rassegna archeologica/, 21, Belgrado, 1980, 114-115. V. GIRARDI JUR KI, “Medolino e i suoi dintorni dalla preistoria al medioevo”, Atti del Centro di ricerche storiche, Trieste-Rovigno, XI, 1980-1981, 9 e seg. V.JURKIÒ, “Medulin i okolica od prapovijesti do srednjeg vijeka” /Medolino e i suoi dintorni dalla preistoria al medioevo/, Prilozi o zaviéaju /Contributi alla terra natia/, Cakavski sabor, 3, Pola, 1983, 99-121. V.JURKIC, Anticka i kasnoanticka nekropola Burle kod Medulina. Prethodni izvjestaj, 1979-1981 /La necropoli antica e tardoantica di Burle presso Medolino. Relazione preliminare, 1979-1981/, Izdanja Hrvatskog arheoloskog drustva /Edizioni della Società croata di archeologia/, 11/2, Pola, 1987, 167-188. V. GIRARDI JURKIC, La necropoli tardoantica di Burle presso Medolino, Monografije i katalozi /Monografie e cataloghi/, I, Pola, 1985, 94-95. V.GIRARDI JURKIC, “Najznadajnije nekropole i groblja u prapovijesnoj, antiékoj i ranosrednjovje- kovnoj Istri” /Le necropoli e i cimiteri più importanti dell’Istria preistorica, antica e altomedie- vale/, Histria Antiqua, 8, Pola, 2002, 11-36. V.GIRARDI-JURKIC - K. DZIN, Sjaj antickih nekropola Istre [Lo splendore delle necropoli antiche dell’Istria) Monografije i katalozi, 13, Pola, 2002, 1-152. K. DZIN, I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.33-50 47 H. MAIONICA, “Trieste, Pola, Aquileia”, Archéiologisch-epigraphische Mittheilungen aus @sterreich- Ungarn, Vienna, I, 1879, 43. R. WEISHAUPI, “Zur topographie des antiken Pola”, Jahreshefte des dsterreichischen Archdiologi- sches Instituts, 4, Vienna, 1901, 206. 48 K.DZIN, I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Arti, vol. XXXIV, 2004, p. 33-50 SAZETAK: NALAZ ZLATNOG NAKITA NA NEKROPOLI BURLE KOD MEDULINA - Prostrana nekropola je smjestena na podruèju prometnica koje dolaze u Medulin iz pravca Pule preko Sikiéa i Sisana (Sissianum) i preko propalog Azzana (Atianum). Polozajem je s istoène strane zapremala cijelu udolinu prema uzdignutim antiékim rezidencijskim i gospodarskim gradevinama i kasnoantiékom naselju na poluotoku Vizuli. Jednim dijelom potonula je u medulinski zaljev i luku, drugim dijelom u morski zaljev Burle, a na kopnu je ostao dio koji zaprema prevlaku poluotoka i dio kopna uz more na poluotoku i kopnu. U istrazivanju godine 2000. utvrdeno je postojanje skeletnih grobnih ukopa sa zlatnim nakitom grupiranim u neposrednoj blizini dvaju olovnih sarkofaga. Nausnice pronadene u ostalih 8 grobova vrstom zlata i obradom odgovaraju vremenskom periodu ranog 2. st. posl. Kr. Kao dio obiteljskog naslijeda prilozeni su uz pokojnicu pocetkom 4. st. kada je i vila na poluotoku Vizula dosezala svoj najvisi sjaj a njezini stanovnici vrhunac svojega sjaja i moti. Sahranjivanje pokojnika u antiékoj Istri, kao i u drugim civilizacijskim sredinama toga doba, Cinilo je svakodnevnu sastavnicu duhovne kulture i religijskog tumaèenja. Polaganje u grob pokojniko- vog pepela (incineracija) ili Ijudskog tijela (inhumacija) bilo je povezano s posebnim ritualom koji je nalazio svoja izvorista u tradicijskim i etniékim obiéajima drevnoga svijeta, koji se u gotovo svim svojim osnovnim znaéajkama mogu sagledavati i na prostoru istarskog poluotoka. U tim obiéajima, zasebno mjesto pripada ritualnom polaganju predmeta u grob ili na grob prilikom grobnih zalbenih sveéanosti. Takvi grobni prilozi polagani i darovani mrtvima u grob bili su obiéno njegovo osobno vlasnistvo i pokloni rodbine i prijatelja pri konaénom rastanku, ali i predmeti kulta mrtvih i zrtveni pokloni bogovima Polaganje zlatnog nakita u 9 grobova na nekropoli Burle predstavlja kontinuitet Zivota i uljepsavanja pokojnica iz ovozemaljskog u onozemaljskom svijetu gdje su sa sobom ponijele dio obiteljskog dragocjenog nasljeda tako da je od izrade do ukapanja proslo dvjestotinjak godina. K. DZIN, I gioielli d’oro della necropoli di Burle (Medolino), Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 33-50 49 POVZETEK: NAJDBA OKRASKOVIZLATEGA NAKITA V NEKRO- POLI V BURLAH PRI MEDULINU - Velika nekropola v Burlah se nahaja na podroéju, kjer potekajo komunikacijske poti - v Medulin iz Pule, prek Sikiéev in Sigana (Sissianum) éez rusevine v Azzanu (Atianum). Proti vzhodu se je nekropola razprostirala po vsej dolini in se raztezala proti gospodarsko-stanovanjskim poslopjem ter kasnoantiénemu naselju na polotoku Vizula. Eden od njenih delov se je pogreznil v zaliv in pristanisée v Medulinu, njen drugi del pa v zaliv v Burlah; na kopnem je ostal del nekropole, ki je pokrival ozino in obalni pas tako vzdolZ polotoka kot vzdolZ kopnega. Raziskovanja leta 2000 so izsledila grobove z okostji z zlatim nakitom, grupiranimi v neposredni blizini dveh svinèenih sarkofagov. Uhane, najdene v ostalih osmih grobovih, lahko po kvaliteti zlata in po izdelavi uvrstimo v zatetno obdobje II. stoletja n.$. Kasneje, v zacetku IV. stoletja, ko je tudi villa v Vizuli dosegla svoj najveòji sijaj in njeni prebivalci najveéjo moé, so bili prilozeni kot del druzinske opreme pri pokopu neke pokojnice. Pokop umrlih je v antièni Istri, kot v drugih kontekstih takratnega obdobja, predstavijal sestavni del duhovne kulture in religiozne razlage. Tako kot polaganje pepela umrlega v grob (upepelitev) kot pokopavanje pokojnih, je bilo tesno povezano s posebnim obredom, ki se je skoraj vedno zgledoval po starih obiéajih in tradicijah, ki se v svojih najznadilnejsih manifestacijah odrazajo in dokumentirajo tudi v istrskem kontekstu. Posebno pozornost je v tem tradicionalnem svetu potrebno nameniti polaganju predmetov v grob oziroma na grob med obredom Zalovanja za umrlimi. Ti predmeti so bili v resnici last umrlega ali darila sorodnikov in prijateljev, pa tudi kulti umrlih in Zrtvovana darila bogovom. Polaganje zlatega nakita v 9 grobov nekropole v Burlah prita o verovanju v posmrtno Zivljenje, kamor naj bi pokojnice odnesle s seboj del svoje dragocene dediséine. V zvezi s primerom zlatega okrasja nekropole v Burlah gre pripomniti, da je od izdelave nakita do njegove poloZitve v grob preteklo okrog 200 let. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol XXXIV, 2004, p.51-126 51 DALLA SERENISSIMA AGLI ASBURGO: AGRICOLTURA E PROPRIETA FONDIARIA NEL BUIESE (SECOLI XVI-XIX)* DENIS VISINTIN CDU: 332.2+631(091)(497.5Buie)” 15/18” Buie Sintesi Novembre 2000) Riassunto - L’autore analizza le forme dell’economia agricola attraverso i rapporti sociali, contrattuali e familiari esistenti nell’agro del Buiese, e le peculiarità della proprietà fondiaria. Questo testo rappresenta la sintesi di una fase di ricerca iniziata con lo studio pubblicato nel volume XXVII degli Atti sugli aspetti del “Paesag- gio agrario e organizzazione produttiva nelle campagne del Buiese nel primo Ottocento”! e proseguita con altre pubblicazioni aventi quale tema principale la storia economica e sociale del territorio in questione. Nel corso degli anni ho avuto modo di raccogliere una vasta documen- tazione, custodita soprattutto presso gli archivi di Trieste e di Pisino. Mi riferisco in primo luogo ai ben noti Elaborati del catasto franceschino con le allegate mappe catastali, ed al fondo Esonero del suolo di Trieste, i cui complessi e vasti materiali documentari sono serviti per individuare alcuni aspetti essenziali dell'economia e della società istriana. Tutto ciò è stato favorito anche dall’esame casuale di alcuni documenti sparsi custoditi presso l’Archivio diplomatico custodito presso il Comune di Trieste. L’esame dei Protocolli notarili consultabili presso l’ Archivio di stato di Pisino si è reso necessario per comprendere le relazioni contrattuali e sociali in vigore all’epoca. L’accesso alla documentazione custodita presso * Questo saggio è dedicato alla memoria del prof. Arduino Agnelli, che mi ha stimolato ad approfondire queste tematiche. ! D. VISINTIN, «Paesaggio agrario e organizzazione produttiva nelle campagne del Buiese nel primo Ottocento», Atti del Centro diricerche storiche di Rovigno» (=ACRSR), Trieste-Rovigno, vol. XXVII (1997), p. 581-626. 52 D.VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 51-126 alcuni archivi parrocchiali, mi ha consentito di circoscrivere le relazioni familiari esistenti all’interno di alcune comunità. Sfruttando tutto questo materiale, si è voluto innanzitutto analizzare le caratteristiche dell'economia agricola di quest’area istriana settentrio- nale, individuando per quanto possibile la partitura del paesaggio agrario, l’organizzazione produttiva, i sistemi di conduzione, le tecniche colturali, le relazioni intercorrenti tra proprietari e lavoratori agricoli nella condu- zione dei fondi, i rapporti contrattuali in vigore per l’affidamento degli animali, il costo della terra in valori monetari, le transazioni nella circola- zione del suplus produttivo. Tematiche queste fra l’altro già affrontate nel sopraccitato saggio, seppur limitate all’ordine di tempo allora interessato. Si aggiungono qui altre tematiche relative alla circolazione della ricchezza, alle strategie familiari ed alla ricostruzione della proprietà fondiaria. Uno spazio è stato ritagliato anche alla proprietà ecclesiastica ed a quella delle confraternite, finora scarsamente considerata, ma di considerevole entità. Il Buiese, nel suo corso storico”, ha conosciuto vicende simili a quelle di altre realtà sociali istriane sia di terra che di mare, in cui la vita era regolata da consuetudini e tradizioni antiche, entrate a far parte dei vari statuti comunali, formatesi sotto l’influenza delle varie dominazioni. La terra era la principale fonte di sostentamento della popolazione, affiancata dalla pastorizia, la lavorazione dei prodotti caserecci, il lavoro a domicilio, varie attività artigianali e mercantili, e sulla costa la pesca e l’attività di piccolo cabotaggio. Da accennare ancora alla presenza, all’interno delle mura cittadine di nobili, medici, farmacisti, notai, avvocati, periti pubblici e stimatori, maestri di scuola, ecclesiastici, ecc., che costituivano buona parte della popolazione abbiente. Alcuni di loro riscuotevano pure i fitti delle terre venute a loro in possesso quale compenso per le prestazioni pattuite. Le famiglie benestanti e di antica residenza avevano i loro rappresen- tanti nei consigli comunitari. In seguito vi entreranno a far parte anche i popolani e gli immigrati. 2 Segnaliamo alcunititoli relativi all'argomento: Bujstina — Il Buiese, Buie, 1985; Acta Bullearum (=AB), vol. I Contributi storico-artistici per il quinto centenario della Chiesa della Madre della Miseri- cordia di Buie, Buie, 1999; Buie e il suo territorio. Itinerari storico-artistici, geografici, Buie, 1999; A. BENEDETTI, Umago d'Istria nei secoli, Collana di studi istriani del Centro culturale «Gian Rinaldo Carli», Trieste, vol. I, 1973, vol. II, 1975, vol. III, 1996; {comune di Umago e la sua gente, Trieste, 2000); Il comune di Umagoe il suo territorio, Trieste, 20)4; B. BAISSERO-R. BARTOLI, Buie tra storia e fede, Trieste 1984; R. CIGUI, Umago araldica, Umago, 1995; IDEM, «Nomi e luoghi del territorio di S. Lorenzo di Daila», ACRSR, 1996, p. 279-311. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 53 La parte benestante della popolazione, quella dei proprietari non coltivatori diretti della terra, viveva, salvo eccezioni legate ai grandi feudi ed al possesso di case o ville di campagna per il soggiorno temporaneo, all’interno delle mura cittadine, come pure buona parte dei coltivatori diretti e dei lavoratori salariati, che si recavano giornalmente a lavorare i campi. Il resto degli abitanti, genti slave o slavizzate, nonché gli altri immigrati portati ripetutamente da Venezia, viveva nelle ville circostanti, dove avevano pure delle proprietà. La proprietà terriera Nel territorio esaminato, la ricchezza consisteva nel possesso degli im- mobili. La terra era la fonte principale di sostentamento della popolazione, legata alla produttività del suolo sia per quanto concerne la produzione alimentare, sia per quanto concerne la commercializzazione delle eccedenze. La proprietà fondiaria era caratterizzata da un estremo frazionamen- to, vista la distribuzione della terra che veniva a trovarsi non soltanto nelle mani dei contadini, ma anche in quelle dei mestieranti o commercianti vari che riscuotevano 1 fitti delle terre venute in loro possesso quale compenso per le prestazioni pattuite. Si era dunque in presenza di una proprietà terriera che lavorava personalmente la terra, e di un’altra non coltivatrice la quale affidava i fondi ad altri affinché li lavorino. A seconda dell’estensione delle proprietà — prevalente era la piccola proprietà terriera — alcune famiglie tenevano presso di se una o due famigli, o almeno il pastore delle mandrie. È difficile ricostruire il regime di proprietà, vista la mancanza di studi che elaborino anche per aree circoscritte, le rilevazioni catastali in nostro possesso. Si sa, per quanto concerne l’area istriana nel suo complesso, delle grandi estensioni assunte dalle zattiche (zatke), ampi territori allo stato brado riservati per lo più ai nobili con l’impegno di popolarli e migliorarli, nella contea di Pisino”. Sono note pure alcune estensioni nobiliari nell’area veneta!. 3 S. ZALIN, Economia e produzione olearia nell’Istria del secondo Settecento, Economia e storia 2, Torino 1976, p. 181. 4 Cfr. D. MILOTTI, «Le campagne del Buiese nella prima metà del Seicento», ACRSR, vol. XI 54 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atri, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 Come ben si sa, nell’Istria veneta una buona parte del territorio, secondo alcuni la quinta parte, era divisa in undici feudi, appartenenti ad altrettante famiglie. Ricorderemo i Gravisi di Pietrapelosa, i Verzi a S. Giovanni della Cornetta, i Borisi a Fontane, i Rota a Momiano, ecc. tutte con giurisdizione e decime?. Soffermandoci sul Buiese, a parte i già citati Verzi a S. Giovanni della Cornetta ed i Rota a Momiano, da rilevare la Signoria dei Contarini a Piemonte, le proprietà dei citati conti Rota e dei Bratti a Zambrattia, dei Borisi a Salvore, dei Sabini prima e dei Grisoni dopo a Daila, dei Furegoni a Castelvenere, dei Gravisi a Ceppi di Sterna ed a Stridone. Ricorderemo pure i De Franceschi di Umago e di Seghetto, i Manzin, che riscuotevano le decime a Villanova del Quieto, i Vlastò, titolari di alcuni diritti feudali. Quindi i Manzutto, i Ghira, i Trento, i Venier, i Zattera nell’umaghese, ed alcune famiglie capodistriane che avevano possessi al di qua del fiume Dragogna. Infine i Busin, titolari di alcuni beni a Cittanova, a Buie e a Verteneglio, comprensori compresi. Un’importante documento per la ricostruzione della proprietà fon- diaria del Castello di Momiano, è il Capitolare di Momiano, del 1521. Si tratta di una sorta di statuto, imposto dal podestà di Pirano, che regola alcuni aspetti di vita e gli obblighi del castellano, e dei suoi sudditi. Esso è stato redatto all’epoca in cui Momiano apparteneva al comune di Pirano, e di conseguenza alla Serenissima, che lo tolse nel 1508 ai Raunicher, che amministravano questo loro possesso per lo più dalla loro residenza ger- manica. La sentenza tridentina del 1535, essendo i Raunicher ricorsi ad arbitrato, restituirà loro il maniero momianese con i suoi possessi. Questo, come si vedrà in seguito, sarà venduto ai bergamaschi conti Rota nel 1548°, Sul documento, relativamente alle parti che interessano questo studio, (1980-81), p.243-293; D. VISINTIN, op. cit., p. 581-626; R. CIGUI, Catastici, rendite e livelli annui delle confraternite di Momiano (1782-1788), ACRSR, vol. XXVI (1997), p. 423-470; R. CIGUI-D.VISIN- TIN, «Nota di quelli che tengono beni stabeli in raggion della mag.ca città di Buie e della chiesa di S. Servolo», ACRSR, vol. XXIX (1999), p. 445-468. 5 B. BENUSSI, Manuale di geografia, storia e statistica del Litorale, Parenzo, 1903, p. 225-226; «Rapporto sull’Istria presentato il 17 Ottobre 1806 al Vicerè d’Italia dal consigliere di stato Bargnani», p. 12-13 e S1, n. 6; G. DE TOTTO, «Feudi e feudatari nell’Istria veneta», Atti e Memorie della Società istriana di archeologia e storia patria (=AMSI), vol. LI-LII (1939-40), p. 161-166. 6 Il documento è custodito tuttora presso l'Archivio regionale di Capodistria-Sezione di Pirano (in seguito: AP). Ringrazio l’amico Kristijan Knez per avermi aiutato a rintracciarlo. Per un approfon- dimento della storia locale, si rimanda a E. ZINATO, Momiano e il suo castello, Trieste, 1966. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 55 ritorneremo ancora più avanti. Per il momento, ci limitiamo a riportare la proprietà fondiaria appartenente al Castellano: “El Castelano die poseder sora la La fossa del Castello uerso sol a monte tinto di piglia da una porta a l’altra della tana del Castello fin allo aquare corrente niun ha da far in ditto Loco e Terre: Campi sette aratiui a uersuri ouer piuine n° 6 per campo In li quali son nogare n° 27 sono del Castella’. Campi tre posti in mumià quali sono del Castella’ sono castagnare n° 247. Pradi cinque posti In Mumia’ e berda del castella affitta l'hanno qual cinque Liuelli dar a capo, qual pagano lire undese de picoli... Beni stabili del castella’ posti sotto Capodistria. Masi 208 posti in Sorbera a pradi e terre aratiue, e pascoli pagano de fitto lire sie l'hanno galline paro uno persunale dar per maso Beni posti in berda apettanti in supra. Una uigna posta in berda qual se da alla mita al Castellà.... Beni stabili del Castella’ posti in bereniga... El Castella’ hainbereniga campi di terra aratiua n° vintisette: vigne e baredi da far vigne n° XXti... Sopra il territorio di Piemonte il Castellano ha 209 pradi pertinenti al castello”. In quanto ai possessi dei Rota, da una successione ereditaria del 1610, veniamo a sapere che essi, per sommi capi, possedevano beni a Berda, a Tribano, a Pirano, nonché la stantia di Siparo”. Da ricordare ancora, nella penisola, le Signorie dei vescovi di Cittano- va, Capodistria, Parenzo e Pola”, e quelle ad esempio dei Comuni di Capodistria, Trieste, Parenzo, Umago, Buie, e del Monastero delle dame di S. Maria fuori le mura di Aquileia”. Vanno sottolineati pure i numerosi titoli di marchese e conte concessi dalla Serenissima a parecchie altre famiglie!0, ? Archivio diplomatico (in seguito: AD), Processo compromissorio fra l’Illmi si. Conti Horacio et Gio. Paulo Fratelli Rota del castello di Momiano (Momiano, 12-22 ottobre 1610). 8 B. BENUSSI, op. cit., p. 226; G. DE TOTTO, op. cit., p. 99-100. ° B. BENUSSI, op. cit., p. 226; G. DE TOTTO, op. cit., p. 99-100; D. VISINTIN, op. cit., p. 591; IDEM, «Alcuni modi di circolazione della ricchezza a Buie nel XVIII sec.», 48, vol. I (1999), p. 251; IDEM, «Cenni storici sulle vicende dell’agricoltura umaghese», in // comune di Umago e la sua gente, cit., p. 30; IDEM, «Umago d'Istria nel secolo dei grandi mutamenti», in Zf comune di Umago e il suo territorio, cit., p. 105; R. CIGUI-D.VISINTIN, op. cit., p. 448. 10 B. BENUSSI, op. cit., p. 226. 56 D.VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Arti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 È noto che la Chiesa favoriva la devoluzione a suo favore di ricchezze patrimoniali, talvolta consistenti. In questo contesto, erano le vedove le maggiori benefattrici ecclesiastiche. Motivo per cui le autorità religiose non avevano alcun interesse a favorire un loro secondo matrimonio, che di fatto toglieva alla loro autorità una consistente fetta di ricchezze. Infatti, mantenendo le donne la vedovanza, in buona parte dei casi tutta o quasi la loro eredità poteva passare nelle mani delle strutture ecclesiastiche o da esse controllate: chiese, altari, abbazie, confraternite. Si sa poi che fin dall’età medievale, tutta questa ricchezza, come pure i beni di proprietà privata, dei monasteri e delle confraternite, vennero registrati in pergamene, cartolari vari, libri censuari, catastici, registri notarili, ecc. Una serie di documentazioni interessanti che, se rinvenuta, rende l’idea, almeno approssimativa, dell’assetto patrimoniale dei vari possessi!!. Circa la proprietà ecclesiastica, un cenno particolare merita quella buiese, di cui informano sia il Valier che il Tommasini in particolare!?, C'erano, all’epoca del vescovo emoniese- siamo alla metà del XVII secolo — la Collegiata di S. Servolo con proprietà, le chiese della SS Trinità, S. Croce, con possedimenti a S. Eufemia, e S. Leonardo. La chiesa di S. Servolo merita un discorso particolare.Le funzioni religio- se venivano officiate dal pievano, coadiuvato da due canonici, eletti congiun- tamente dal Consiglio comunale e dal popolo. C'era pure un mansionario ballottato dal Consiglio solamente conforme il jus lasciatogli dall’istitutore Bernardi, con entrate separate derivanti da vigne, prati, campi olivati, una casa. Le entrate del pievano e dei canonici venivano sottratte dal cumulo del quartese e delle decime del vescovo e della chiesa: biava, vini ed animali minuti, primizie dei formaggi, pochi beni, ed incerti!!. Dal Valier — siamo nel 1580 — risulta che a Buie “la Chiesa (parroc- chiale, n.d.a.) ha ancora la metà dell’utile che si cava dalle acque dei torchi delle olive, l’altra metà è della comunità.Tutto si vuole affittare per sessan- ta-settanta e più ducati secondo gli anni”!“. !! P CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma, 1996, p. 181-184, 226-230, 243. !? Cfr. A. MICULIAN, «Agostino Valier: chiese e confraternite di Buie del XVI secolo», AB, vol. I (1999), p. 156-157; G. F. TOMMASINI, De’ commentarj storici-geografici della Provincia dell’Istria, Trieste, 1837 (Archeografo Triestino, vol. IV), p. 197-202. 13 D. MILOTTI, op. cit., p. 258; G.F.TOMMASINI, op. cit., p. 199. 14 A. MICULIAN, op. cit., p. 156. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atri, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 57 Agli inizi del XVII secolo, nella Nota di quelli che tengono beni stabeli in raggion della mag.ca città di Buie et della chiesa di S. Servolo (1603-1604), si ricordano “roueri signati de trauerso et brazzadura n. 20” di proprietà della parrocchiale. Contemporaneamente, si citano le terre delle chiese di S. Pietro, S. Elena, S. Maria Maddalena, e S. Stefano!”. Nella prima metà del secolo , tale chiesa possedeva dei terreni nella vicina Crassizza!?. Fuori le mura, ricorderemo fra l’altro la chiesa della Madonna della Misericordia, con cappellano eletto da chi ne aveva lojusin vita, ed il quale disponeva di entrate particolari in beni stabili!”. La cappella anteriore a tale chiesa venne eretta nel 1498, nel luogo in cui Paolo Racizza — i cui eredi vengono fra l’altro citati quali possidenti pure nella sopracitata Nota all’inizio del XVII secolo — posò la sacra immagine lignea della Madonna col bambino, forse opera di Paolo Cam- psa da Boboti, tuttora venerata dai Buiesi. Il Racizza si rivolse al vescovo di Cittanova, per ottenere il permesso di costruire una chiesa in loco. Il presule di allora, tale Marc’ Antonio Foscarini, autorizzò allora la costru- zione del sacro edificio, successivamente più volte ampliato, con l’obbligo di beneficiarlo con tanti beni mobili e stabili, “acciocché nella stessa chiesa e colle dette entrate possa e valga vivere agiatamente un Sacerdote seco- lare o regolare in perpetuo, a condizione però che la stessa Chiesa e le entrate della medesima sieno ed abbiano ad essere mantenute considerate di jus-Patronato, a favore dello stesso Messer Paolo fondatore, de’ suoi eredi e progenitori, in qualunque modo, purché dallo stesso principale e de’ suoi eredi e discendenti non venga disposto ed ordinato altramente e di avere e mantenere in essa quel Sacerdote secolare o regolare che a te (Racizza, n.d.a.)piacerà, purchè sia stato riconosciuto capace ed idoneo a questo officio e ciò quand’anche per l’avvenire avrai dotata dei tuoi beni mobili ed immobili la detta Chiesa o Cappella...” La chiesa verrà successivamente dotata dal Racizza di case, campi e vigne, ed il cappellano si vide pure assegnare i beni necessari all’autosuffi- 5 R. CIGUI-D.VISINTIN, op. cit., p. 452 e segg. 16 D. MILOTTI, op. cit., p. 258-259. !7 G. F. TOMMASINI, op. cit., p. 201. 18 G. URIZIO, Relazione storica della chiesa della B. V. Misericordiosa di Buie in Istria intitolata Madre della Misericordia con gli atti della traslazione del corpo di S. Diodato Martire, la serie dei vescovi emoniesi, le vite dei santi Servolo, martire triestino, e Massimo e Pelagio, martiri di Cittanova, Trieste, 1867, p. 11-12. 58. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XITX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 cienza. L’atto di dotazione è andato perduto, ma dal posteriore testamen- to e dai successivi codicilli si può ricostruire almeno una parte del patri- monio di cui egli dotò la chiesa. Un campo di terra arativa in contrada Casel, un campo grande di terra arativa con casa e certa crosaria a Berda, un orto presso la chiesa della Beata Vergine, un campo a S. Eufemia, una vigna vecchia in Vignarese, una casetta in Villa, appressa la sua casa dominicale, tutta l’argenteria che al momento della sua morte si sarebbe trovata in casa sua'. Il Racizza aveva dotato pure la chiesa campestre di S. Caterina, il cui governo ed inerenti beni furono lasciati agli eredi?°. Segnaliamo pure altre chiese campestri?!, governate dalle rispettive confraternite, e dotate di beni propri: S. Orsola, con annesso beneficio, S. Cristoforo, S. Margherita, S. Antonio Abate, Madonna delle Vigne, S. Bartolomeo, S. Canciano, Madonna di Gradigne, S. Stefano, S. Elena, S. Nicolò, S. Eufemia, S.Maria Maddalena, S. Pelagio nel Carso, S. Andrea, S. Michela Arcangelo, S. Eliseo, dotata quest’ultima di prati e vigne, e di cui si riscontra la concessione del patriarca aquileiese Bertoldo a Gerardo, vescovo di Emonia, con sentenza di Castelvenere del 1224, e nel 1279 del patriarca Raimondo a Simone, diacono della chiesa emoniese, “suo cum juribus et pertinentias”??, S. Sebastiano e S Giacomo, tutte filiali della parrocchiale??. La chiesa di S. Gerolamo di Castelvenere possedeva dei campi in contrada Vignarese”. Da ritagliare uno spazio pure alla proprietà monastica. Infatti nell’area operava il “Monasterium S. Petri in Carso”, di nascita a quanto pare carolin- gia, ossia monastero di S. Pietro in Carso, oggi Fratria, o di Montrino. Nel 1125 esso venne in possesso di un mulino nel Pinguentino, donato dal patriarca Gerardo. Il successore Pellegrino lo sottometterà invece al mona- stero di S. Nicolò del Lido. Nel 1205 il patriarca Volchero confermerà le donazioni fatte dai suoi predecessori al monastero di S. Nicolò del Lido, compresa la “canonica donazione del monastero di S. Pietro del Carso coi molini de arno et piuuento”, comprese le terre ed i diritti ad esso inerenti??. 1° IBIDEM, p. 23-24. Si veda pure la nota in fondo alla pagina. 20 IBIDEM, p. 24. 2! G. F. TOMMASINI, op. cit., p. 201, n. 1. 22 P. KANDLER, Codice Diplomatico Istriano (= CDI), p. 184. 23 G. F. TOMMASINI, op. cit., p. 101-102. 24 D. MILOTTI, op. cit., p. 259. 25 F. BABUDRI, «Catasticum Histriae. Regesto di documenti riguardanti i beni di S. Nicolò del Lido di Venezia in Istria», AMSI, vol. XXV (1910), p. 335. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 59 A seguito di donazioni private, esso venne in possesso di una vigna e di un allodio in Schloche (o Scholcha), in data 25 ottobre 1214. Esso riscuoteva affittanze varie. Allo stesso tempo, sia singoli che la comunità di Buie riscuotevano delle affittanze dal cenobio”. Il cenobio carsolino venne successivamente posto alle dirette dipen- denze della Congregazione cassinese di S. Giustina. Maestri delle tecniche agrarie, i frati si resero utili in varie migliorie ai campi, diffusero la bachicoltura, introdussero la coltivazione delle “vigne a piantade alte”, la patata, il mais, e coltivavano pure gli ulive?”, Nel 1533 vennero erette le cappellanie di Carsette e di Tribano, la prima comprendente pure il monastero di Fratria. Va distinta, all’interno della proprietà ecclesiastica, la proprietà delle chiese, talvolta degli stessi altari interni, da quella personale dei pievani e dei mansionari, i quali spesso e volentieri si inserivano nel complesso meccanismo della circolazione della ricchezza fondiaria acquistando o vendendo essi stessi possessi terrieri non soltanto entro le rispettive loca- lità di residenza. Succedeva così che il pievano di Carsette acquistasse proprietà in quel di Tribano, che il mansionario di Buie fosse possidente nel Momianese, ecc.’8, Troviamo pure parroci, mansionari e canonici a riscuotere capitali di livello, che spesso e volentieri nascondevano dei prestiti ad interesse??, Un capitolo a parte meritano le confraternite. Queste, per quanto laiche si definivano, adducevano nei loro statuti finalità religiose. Il parro- co, di regola presidente delle stesse impersonava l’autorità religiosa ed il controllo ecclesiastico su di esse. Egli, come pure il gastaldo, il direttore, il cassiere il segretario, e qualsiasi altro dirigente di confraternita, apparte- nevano di regola a famiglie agiate, che in questo modo si assicuravano il controllo del patrimonio ecclesiastico e di quello delle confraternite, dell’attività e degli introiti che potevano venir indirizzati a seconda dei loro interessi. Le confraternite quindi si configuravano da un lato quali organi- smi dalle finalità spirituali ed assistenziali, dall’altro mostravano sempre 26 IBIDEM, p. 238, 335-337. 27 L. PARENTIN, Incontri con l’Istria, la sua storia e la sua gente, vol. I, Trieste, 1987, p.31. 28 D. MILOTTI, op. cit., p. 259. 29 Archivio di stato di Pisino (in seguito ASP), Protocolli Notarili Domino Sebastian Barbo, b. 55, fasc. 206. Processetto di carte scritte n. ventidue nel quale si contiene un inventario della Facoltà tutta di ragione del q. D.no Bernardin d’Ambrosi, con notte distinte delli debiti e crediti, nonche la division e seguitta, e come meglio delle carte in questo esistenti il tutto agl’anni 1786-87, c. 14 e 15. 60 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 51-126 più interesse verso gli aspetti economici e finanziari, incassando affitti?” ed erogando cospicui crediti con le dovute garanzie, gli interessi ed assicura- zioni varie, ai soci economicamente più attivi ed impegnati nell’espansione dei loro possessi patrimoniali e della loro ascesa sociale e politica e realizzare così un connubio economico-politico e religioso, talvolta intriso di malversazioni, in cui le autorità civili preposte cercarono di mettere ordine con vari controlli, ed imponendo l’elaborazione dei catastici per verificarne la loro effettiva consistenza patrimoniale, e le conseguenti rendite”. Sono sintomatici a proposito il Catastico de’ Beni della Veneranda Scuola di San. Martino del Castello di Momiano, il Catastico de’ beni della Scuola di S. Mauro, il Catastico de’ Beni della Scuola di S. Pietro, il Catastico de’ Beni della Scuola di San. Girolamo, nonché il Catastico de’ beni della Scuola di San Ruffo. Il loro esame indica chiaramente il consistente brano territoriale di proprietà delle confraternite momianesi alla fine del XVIII secolo sull’area compresa tra il fiume Dragogna e la valle di Cremegne. Contemporaneamente, esso è espressione delle loro cospicue entrate finanziarie, ma anche delle transazioni a scopo di lucro??, Un tentativo a proposito, volto alla conoscenza dello stato economico delle confraternite, fu portato avanti nel 1675 dal Podestà e Capitano di Capodistria Lorenzo Donato. Le confraternite elencate presentano tutte un andamento più che positivo, in quanto ad entrate ed uscite”. Cosa che in linea di massima verrà evidenziata pure da Tomaso Luciani nel suo Prospetto delle scuole laiche dell'Istria e della loro rendita nel 1741*, ed alla caduta della Serenissima”. Già il Valier, coma sopra rilevato ha indicato i loro beni, e nella Nota di quelli che tengono beni stabeli indica i possessi della confraternita di S. 30 IBIDEM, c. 10 e 12. 31 R.CIGUI-D, VISINTIN, «Condizioni economico-patrimoniali delle confraternite istriane alla cadute della Repubblica di Venezia», ACRSR, vol. XXXI (2001), p. 75-135; IDEM, «Beni stabili e rendite delle scuole laiche di Isola alla fine del Settecento», ACRSR, vol. XXXII (2002), p. 471-514. 32 R. CIGUI, «Catastici, rendite e livelli annui delle Confraternite di Momiano (1782-1788)», ACRSR, vol. XXVII (1997), p. 423-470. 33 La Provincia dell'Istria, Capodistria, 1876, n. 3, p. 1875. 3 I. ERCEG, «Broj i financijsko stanje bratovstina u Istri (1741)» /Numero e situazione finanziaria delle confraternite dell’Istria (1741)/ Vjesnik historijskih arhiva Rijeke i Pazina /Bollettino degli Archivi storici di Fiume e di Pisino/, Fiume-Pisino, vol. XXVI (1983), p. 103-123. 35 R. CIGUI-D.VISINTIN, «Condizioni economico-patrimoniali delle confraternite istriane», cit., p. 108-109. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 61 Margherita a Carsette, mentre in “val de Castiò à S. Margarita tien la fradaia roueri signati da uolta de trauerso n. 30”, D. Milotti?” ha rilevato pure delle confraternite buiesi, con rendite a cavallo tra XVII e XVIII secolo, proprietarie di immobili: S. Cancian, con una vigna a S. Margherita, S. Catarina, intestataria di terre Sotto Lama, S. Eufemia, con possessi in Mozian, S. Stefano, avente proprietà a Madonna di Gradina. La confraternita di S. Croce aveva terre a S. Eufemia, quella del SS Sacramento a S. Giacomo. La confraternita di S. Margherita aveva delle vigne a S. Eufemia. Alcune terre in contrada S. Antonio erano di proprietà della confraternita di S. Antonio Abate. A Madonna delle vigne si trovavano | possessi della confraternita di S. Michele. La confraternita del SS. Sacramento aveva possedimenti in Piuvalman ed a S. Giacomo; quella di S. Pietro in Monzian ed in Scolca. Alcune terre a Castagnari erano di facoltà della confraternita di S. Rocco, mentre in Vignarese erano site alcune pertinenze della Scuola di S. Lucia. Ancora in Monzian, alcuni appezzamenti appartenevano alla confraternita di S. Eliseo. La Beata Vergine di Tribano possedeva terre a Crassizza. La confraternita della Beata Vergine Granda Madonna di Gradisca disponeva infine di terre in Bresaz. Studi recenti hanno riportato alla luce anche le proprietà terriere delle confraternite di altre località dell’area, pur senza approfondire l’ar- gomento®8. La circolazione della ricchezza Per avere valore giuridico, tutti i contratti aventi quale tema il passag- gio di proprietà, dovevano essere redatti da un notaio — istituzione pubbli- ca d’antica origine- ed alla presenza di testimoni. Il tutto veniva quindi protocollato negli appositiregistri, pena le severissime leggi che minaccia- vano gli abusivi. La pubblicazione dei documenti mediante la strida del “Comandador di comun” era necessaria per evitare qualsiasi azione noci- 36 A. MICULIAN, op. cit., p. 156, R. CIGUI - D. VISINTIN, «Beni stabili», cit., p. 452 e segg. 37 D. MILOTTI, op. cit., p. 292. 38 D. BRHAN, «Le confraternite di Cittanova (Storia religiosa e economica delle dinamiche sociali di una micro-città)», ACRSR, vol. XXXI (2000), p. 259-277. 62. D.VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 va. A Buie, tutte le contrattazioni venivano proclamate sopra la “piera del comun di Buie”®, Gli atti notarili ci consentono di valutare le quantità di beni venduti ed alienati, la rispettiva collocazione geografica, i confini, la data e il luogo dove il documento è stato redatto e depositato, e la ripetitività. Le parti contraenti si impegnavano a titolo personale e dei rispettivi eredi e succes- sori a rispettare quanto sottoscritto. Considerando le strategie familiari, è evidente l’importanza assunta, anche a livello locale, del cosiddetto girotondo della terra. Infatti, nel corso delle varie epoche storiche, le famiglie contadine europee si sono trovate costrette ad accumulare, cedere o ipotecare costantemente i rispettivi immobili. Ed erano soprattutto le famiglie nobili europee a basare, fino alla fine del XVIII secolo, le loro strategie in primo luogo sulla forte immobilizzazione terriera delle loro fortune, nonché su di una struttura rigidamente patriarcale ed autoritaria dei rapporti familiari, in cui testa- menti, fidecommessi e maggiorascati, sistemi successori patrilineari per eccellenza, e molto efficaci nella conservazione del patrimonio familiare, limitavano la circolazione della terra sul mercato”. Ed anche le normative istriane erano molto rigide a proposito. Nell’Istria interna ad esempio, la pratica del maggiorascato era molto diffusa. E ad ogni modo, come si vedrà nell'esame delle modalità princi- pali di circolazione dei fondi, questi rimanevano quanto più legati alla cerchia familiare, o delle clientele. Vale la pena, a questo punto, fare qualche riferimento alla patria potestà, con riferimento soltanto ai suoi effetti patrimoniali. Si nota in primo luogo la precaria situazione dei figli ad essa soggetti. Gli statuti di Grisignana e di Cittanova ad esempio, riferiscono che tutto quanto veniva acquistato dal figlio soggetto a tale istituto, era di proprietà del padre, eccetto i beni testamentari e le eredità‘. A Buie lo statuto stabiliva soltanto la tutela e la protezione dei figli e dei loro beni da parte del padre, 39 P. KANDLER, «Statuti municipali di Buie», cap. 127, L’Istria, anno V, Trieste 1850, p. 283-284. Per un approfondimento circa l’istituzione notarile cfr. PP CAMMAROSANO, op. cit., p. 267-316. 40 A. M. BANTI, «I proprietari terrieri dell’Italia centro-settentrionale», in Storia dell’agricoltura italiana dell’ età contemporanea. Uomini e classi, Venezia, 1990, p. 55-56; G. DELILLE, «La famiglia contadina nell’Italia moderna», in Storia dell'agricoltura italiana dell’ età contemporanea. Uomini e classi, cit., p. 531-532. 4L. MARGETIC, Histrica et adriatica, Trieste-Rovigno, 1983 (Collana degli ACRSR, n. 6), p. 73. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 63 se premoriva la madre*. Mancando ambedue i genitori, interveniva l’au- torità politica a scegliere un tutore o tutrice nell’ambito della parentela ristretta‘. Vivendo la madre, a Cittanova, e vedovando ella castamente, spettava a lei la tutela dei figli ed a governare i beni familiari. Si presume in questo caso la presenza di atto testamentario. Essendo la madre impos- sibilitata a farlo, si prospettava l’intervento dell’autorità pubblica, che le affiancava un tutore. Essendo la madre forestiera, oppure nata a Cittanova e non volendo abitare in questa città,essa non poteva governare i figli e la proprietà‘. Esplicativa, a tale proposito, la vicenda che vide coinvolti gli eredi di Bartolomeo Busin, negli anni 1700 e 1701. Orazio era figlio di primo letto, Maddalena, la pupilla, era stata concepita con il successivo matrimonio con Laura, nata Scrini, da Capodistria, quest’ultima senza alcuna voglia d’abitare nella casa padronale di Cittanova. Per cui sia Laura che Orazio miravano alla tutela della giovane, ed al controllo della parte di proprietà che spettava ad essa. La vertenza che vedrà Orazio e Laura contendenti di fronte al Podestà di Buie, dove Laura e Maddalena risiedevano, finirà pari e patta: essa avrà la tutela della Pupilla, lui ne governerà gli immobi- N°. Ottenere la completa indipendenza economica era abbastanza facile mediante l'emancipazione. A questa in Istria si arrivava percorrendo strade diverse. Stando ai diritti medievali europei, germanici e bizantini, spesso bastava la sola separazione economica. A Trieste necessitava il solo matrimonio; a Muggia, Duecastelli, Pinguente, Dignano e Buie, allo spo- salizio si affiancava la consegna della dote‘. Qualche volta bastava il solo atto notarile. Così lo statuto di Grisigna- na‘, ma anche numerosi atti notarili buiesi*. Oppure la raggiunta maggio- re età. L’interessato poteva non essere del tutto soddisfatto da quanto rice- 4 P. KANDLER, «Statuti municipali di Buie», cit., cap. 93, p. 77. 4 IBIDEM, cap. 90, p. 276. 4 AD, Legge statutaria di Città Noua in materia de Tuttori trata dal Libro secondo de Statutti Municipalli di Città Noua Comò se die dar Tuttori à Pupilli, e de imperfetta ettade Cap.® 28, Buie, famiglia Busin, carte Sig. Busin, 1700. 4 IBIDEM. 46 P. KANDLER, «Statuti municipali di Buie», cit, cap. 82, p. 274-275; LL. MARGETIC, op. cit., p. 74-75. 47 L MARGETIC, op. cit., p. 75. 48 D. VISINTIN, «Alcuni modi», cit., 254. 64 D.VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 vuto dal padre al momento dell’emancipazione: infatti i beni potevano avere un valore inferiore rispetto alla parte che egli avrebbe potuto rice- vere al momento della divisione ereditaria, alla quale poteva accedere soltanto se conferiva tutto ciò che aveva ricevuto con la conseguita indi- pendenza economica. Così a Buie ed a Pinguente, dove l’emancipato non aveva diritto ai beni acquisiti dai genitori dopo l’emancipazione o succes- sivamente al suo maritaggio*. A Trieste, così gli Statuti del 1315 e del 1350, spettava ai due parenti più stretti decidere la parte che andava all’emancipato con atto notarile, mentre a Parenzo e a Pola non si consi- derava la figlia dotata. A Cittanova l’emancipato a propria richiesta non aveva alcun diritto sui beni paterni”, In altre parti, esso poteva venir escluso dalla successione con atto testamentario o essere incluso in una piccola parte ereditaria con la formula dell’aliquid in contentu et benedictione. A Trieste ed a Rovigno questa consisteva nella consegna di una piccolissima somma di denaro. A Pola ed a Parenzo si dava un moggio di frumento ed uno di orzo”. È evidente la scarsa salvaguardia dei diritti dell’emancipato rispetto al patrimonio familiare. Non era migliore nemmeno la situazione dei figli non emancipati. A Parenzo essi pure potevano venir liquidati con la medesima formula, mentre gli acquisti dei soggetti alla patria potestà, eccetto testamenti ed eredità, erano di proprietà dei padri e dei tutori, 0 posti sotto loro tutela. Vanno comunque notate le comunità che in un certo qualmodo veni- vano incontro alle esigenze dei non emancipati. A Pola si stabilì il diritto dei figli alla legittima consistente nel terzo di ciò che gli spetterebbe con la successione ereditaria. Ad Umago si divideva la terza parte se i figli erano tre, a metà se ce n’erano di più. Si notano qui le influenze del diritto giustinianeo?”?. Le accumulazioni e le dispersioni dei fondi avvenivano con le compra- vendite, talvolta effettuate all’interno dello stesso gruppo familiare, o delle clientele, ma anche attraverso il controllo delle doti da incamerare o da 49 P. KANDLER, «Statuti municipali di Buie», cit., n. 82, p. 275; G.RADOSSI, «Lo statuto del comune di Pinguente», ACRSR, vol. IX (1978-1979), p. 55. 50 L. MARGETTÒ, op. cit., p. 81. 51 IBIDEM, p. 76-77. La misura del moggio è di 333,268800 litri. Cfr. A. MARTINI, Manuale di metrologia, ossia misure, pesi e monete in uso attualmente ed anticamente presso tutti i popoli, Torino, 1884, p. 818. 52 L. MARGETIC, op. cit., p. 82. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nelBuiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 65 cedere — e si procedeva quindi ad una minuta valutazione delle stesse — e delle eredità. I motivi che determinavano i trasferimenti di proprietà erano diversi: l'ampliamento ed accentramento dei possessi, l’acquisto di appezzamenti necessari all’autosussistenza familiare, la svincolo dai fondi improduttivi, difficili da lavorare o lontani dalla residenza padronale, l’entrata in pos- sesso di abitazioni in cambio di suoli eccedenti, la necessità di procurarsi del denaro liquido, il mancato pagamento dei debiti, la necessità di dotare le figlie, ecc. Per favorire questi trasferimenti, occorreva definire il valore delle proprietà. Perciò ci si rivolgeva ai pubblici stimatori o periti, uno per ogni parte in causa. In caso di disaccordo interveniva un terzo perito arbitro. Nello stimare le proprietà, si consideravano tutti gli elementi utili all’uopo: il tipo di colture presenti sui fondi, la fertilità dei suoli, il numero delle piante arboree, la distanza dal centro abitato, la condizione dei singoli vani, mura, scalinate, finestre comprese, la posizione ed altri elementi utili per stimare le abitazioni. Il prezzo della terra veniva determinato anche dall’equilibrio familia- re consistente tra la forza lavoro disponibile e la quantità di terra in possesso, per cui le aziende familiari che disponevano di una considerevo- le quantità di terra ed erano in grado di utilizzare per bene la manodopera disponibile lavorando intensamente i fondi, non avevano bisogno di com- prarne o affittarne altri, contrariamente a coloro che disponevano di scarsi appezzamenti ed erano disposti a sostenere costi eccessivi. Ancora, il costo della terra dipendeva dalla crescita demografica della popolazione essen- do, in un’economia solo parzialmente mercantilizzata, obiettivo primario l’autoconsumo e la sussistenza. In tal caso erano i bisogni a determinarne il costo. Tra i trasferimenti, le compravendite erano molto diffuse. Gli accordi esaminati ad Umago riguardavano soprattutto gli arativi vitati, i vitati olivati, questi ultimi includenti talvolta alberi da frutto, le vigne, ecc.. Queste, molto spesso, unite ad un contratto di livello affrancabile, nascon- devano un accordo creditizio”. Presente in epoca romana ed innestatosi sopra le consuetudini feudali, il livello, originariamente prevedeva che il 53 ASP, Minutario testamenti domino Marco Marcovich, libro I, fasc. 571-579, a. 1808; Minutario istrumenti domino Francesco Balanza, a. 1803. 5 G. GIORGETTI, Contadini e proprietari nell’ Italia moderna, Torino, 1974, p. 97-98. 66 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV,2004, p.51-126 proprietario di un fondo conceda all’affittuario il dominio utile dietro la corresponsione di una somma di denaro, talvolta con l’obbligo della ridu- zione a coltura e miglioramento del campo facendo dunque parte dei cosiddetti contratti ad meliorandum. Progressivamente tale istituto per- dette progressivamente tale peculiarità. Molto spesso esso veniva alterna- to all’enfiteusi, anch’esso contratto miglioratario, considerato nella sua veste classica sulla divisione del dominio utile. Compravendite e livelli vedevano di regola competere famiglie inte- ressate all’ascesa economica e sociale locale. Vedi ad esempio la famiglia Guarnieri, i cui membri erano molto impegnati nel mercato della terra nella prima metà del secolo”. Tra gli eredi, Antonio sarà condannato in un processo per stupro nel 1771°°, Livelli ed enfiteusi erano legati a fasi di popolamento e di colonialismi, seguiti alle crisi economiche, alla svalutazione monetaria ed al notevole accrescimento della produzione sui terreni interessati. Così in un accordo matrimoniale, in cui si ricorda il q. Leopoldo Trivisan, “reso collono perpe- tuo del nobile sig. Piero Alessandri, e della nobile signora Antonia vedova Caldana, sopra certi loro beni sopra il territorio di Umago nella contrà ò sia col nome di Cervisich, come appare d’istromento d’enfiteusi perpetua dell’anno 1722 negli atti del sig. Barbo D’Ambrosi Pubblico nodaro, colle ationi sopra il dimidio de miglioramenti sopra essi beni, e di qualsiasi altro mobile, e semovente fino il presente, e di quello che fosse per accrescervi in avenire...”°”. Ancora due secoli prima, il castellano di Momiano inca- merava i livelli sopra alcuni prati a Berda ed a Momiano®. Accordi di compravendite, preceduti da livelli affrancabili, interessa- vano anche la Terra di Buie®°. Talvolta la cosa vedeva implicate le confra- ternite, come già sopra constatato®, o gli stessi parroci. Vedi ad esempio i capitali di livello a credito dei reverendi sig. canonici don Barbo Barbo 55 ASP, Protocollo di me Francesco Papo di Francesco nodaro publico degli anni 1729, 1730, 1731, b. 7. 56 C. POVOLO, Il processo Guarnieri (Buie-Capodistria 1771), Capodistria, 1997. 5? ASP, Protocollo di me Francesco Papo di Francesco nodaro publico degli anni 1729, 1730, 1731, b. 7, fasc. 43, c. 170 verso. 58 AP, Capitolare... cit. 59 D. MILOTTI, op. cit., p. 260; D. VISINTIN, « Paesaggio agrario», cit, p. 616. 60 ASP, Protocolli Notarili Domino Sebastian Barbo, b. 55, fasc. 206. Processetto di carte scritte n. ventidue nel quale si contiene un inventario della Facoltà tutta di ragione del q. D.no Bernardin d’Ambrosi, con notte distinte delli debiti e crediti, nonche la division e seguitta, e come meglio delle. carte in questo esistenti il tutto agl’anni 1786-87, c. 14 e 15. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI- XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 67 (100 lire di debito e 102:100 lire d’interesse) e Sion (lire 170, più 20 d’interesse), segnalati nella suddivisione ereditaria del q. Bortolamio d’Ambrosi, del 1788. Qualche anno più tardi, a Villanova, Zuanne Dubaz, stipulerà un contratto di vendita di terra arativa, con “piantade”, in quel di Portole, per 100 lire al 6% d’interesse. In tal caso, il venditore, volendo procurarsi del denaro liquido, proce- deva alla vendita di un immobile al prezzo inferiore a quello di mercato, col diritto di riacquistarlo entro un periodo di tempo stabilito, allo stesso prezzo, accresciuto però delle spese notarili e da altri eventuali oneri. Nel frattempo, l’acquirente, cioè coluiche prestava il denaro liquido, concede- va questo stesso immobile a livello per un canone non commisurato tanto al reddito del bene, quanto all'ammontare dell’interesse pattuito per il denaro prestato, di solito pari al 6%. Venditore e livellario potevano essere la stessa persona. S'aggiravano in questo modo le prescrizioni ecclesiastiche contro l’usura. In casi del genere il livello era sempre francabile, perché seguito dal contratto di francatio, con il quale si certificava la restituzione della somma prestata. Mancando la restituzione, quest’ultimo sarebbe divenuto proprietario del bene posto in garanzia, mediante un contratto di datio in solutum, o pagamento, ossia una sorta d’atto di vendita. Alcune località, vedi ad esempio Umago, obbligavano l’acquirentesub poena soldorum pro libra precii rei venditae a notificare l’acquisto entro quindici giorni dall’avvenuto acquisto. Ciò doveva avvenire di domenica, tra le due messe, ad opera del banditore. Si dava quindi possibilità ai parenti dei venditori, ed al venditore stesso, di recuperare la proprietà entro 31 giorni previsti, versando l’importo per il quale essa è stata in precedenza venduta. Avevano allora la precedenza i parenti più prossimi di linea maschile, quindi quelli di linea femminile. In caso fosse un’ammogliata a vendere qualche sua possessione ereditata dal padre e dalla madre, il diritto di riscatto spettava innanzitutto ai parenti paterni, quindi ai materni, infine ai confinanti, con preferenza per colui che aveva una linea di confine maggio- re con la proprietà in questione. Se si trattava di una casa la preferenza andava anche a coloro che abitavano sotto lo stesso tetto. Lo stesso vendi- tore poteva rientrare in possesso dei suoi beni entro 31 giorni, rifondendo le spese e giurando di recuperarlo per se stesso. Se si trattava di cessione di una sola parte di proprietà, il diritto di riscatto non era valevole dovendo 68 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 avvenire la vendita verso coloro che detenevano le altre parti di proprietà. Passati i termini, nessuno poteva più vantare tali diritti?!. A questo punto è opportuno soffermarci sul diritto di prelazione e di retratto, sul quale i vari autori si sono dilettati circa l'origine, propendendo i più verso una compenetrazione del diritto greco-romano e germanico”. A Trieste, così gli statuti del 1315, prelazione e retratto venivano concessi al parente più prossimo. Si preferiva il comproprietario se la sua parte era maggiore di due terzi, mentre il diritto di prelazione del parente in caso di permuta non era ammesso se il valore dell’immobile era minore di quello conseguito”. Lo statuto piranese del 1307 dava la preferenza ai parenti maschi e concedeva il diritto di prelazione anche agli acquisiti, dopo che i primi non avevano realizzato il loro entro 31 giorni entro il termine fissato”. A Muggia, Isola, Pinguente e Buie si cita soltanto il diritto dei parenti”. Ad Umago non si concedeva, contrariamente a Buie, il diritto di prelazione in caso di vendita, Il diritto dei vicini e dei confinanti, è riscontrato in numerose località istriane!”. La trasmissione dei beni immobili agli eredi avveniva principalmente attraverso il testamento e il matrimonio in caso di dote, o per eredità, al momento della morte del capofamiglia della famiglia d’origine, vale a dire quando ormai quella ereditaria era già formata e viveva autonomamente. La divisione ereditaria, se da un lato garantiva e tutelava la proprietà da possibili abusi e fraudolenze nocive all’interesse familiare, dall’altro favoriva il suo frazionamento. Questo lo si poteva evitare procedendo un singolo erede all’acquisto delle parti passate agli altri parenti. Così nell’Istria interna, dove vigeva il maggiorascato. Con tale istituto il primo- genito ereditava la metà dei beni patrimoniali, il resto veniva diviso tra gli altri fratelli che di solito venivano liquidati in denaro per mantenere intatta la facoltà®*. 61 A. BENEDETTI, op. cit., p. 23-24. 621. MARGETTG, op. cit., p. 3-40. 63 IBIDEM, p. 40. 6 IBIDEM, p. 40-41. 65 IBIDEM, p. 41-42; P.KANDLER, «Statuti municipali di Buie», cit., cap. 95-96, p. 277-278. 8 L. MARGETIC, op. cit., p. 45. 67 IBIDEM, p. 41. 68 N. DEL BELLO, La Provincia dell'Istria. Studi economici, Capodistria, 1890, p. 99-100; R. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 69 Generalmente in Istria, dopo i figli, ereditavano per eccellenza i nipoti ed i consanguinei, il padre e la madre se l’intestato era privo di discendenti e di fratelli e sorelle per parte paterna, rispettivamente mater- na. Seguivano quindi gli altri parenti collaterali delle due linee di ascen- denza in mancanza di tutti gli altri, secondo il principio consuetudinario, paterna paternis, materna maternis, con divisione e devoluzione dei beni tra di loro. In conseguenza di ciò, ai parenti paterni spettava tutto ciò che il defunto aveva ottenuto dal padre e dai parenti paterni. I parenti materni ricevevano quanto esso aveva ereditato dalla madre e dalla sua discenden- za. Si dividevano invece in parti uguali gli acquisti successivi al matrimo- nio”, A Buie, un documento notarile del 1760 ci dimostra come la facoltà paterna e materna venne suddivisa in tre parti uguali tra i fratelli Marco, Valentino e Francesco Urizio q. Maurizio. Spettava ai tre fratelli estingue- re pure i debiti lasciati dai defunti genitori. Questi erano superiori al valore complessivo della facoltà. A pagarli fu Francesco, al quale andava la parte d’eredità di uno dei fratelli, come da successivo atto del 1774 redatto a Venezia, e sottoscritto dal fratello Marco, il quale rinunciava a titolo personale e dei suoi eredi alla sua porzione, visti pure gli altri oneri rimasti in sospeso tra i due”0, Esplicativo anche un documento redatto a Carsette nel 1788, nella casa Cigui. La contesa vede protagonisti Mattio q. Zuanne prima e Anto- nio Cigui dopo da un lato, e Sime Martincic marito della fu Antonia nata Cigui”. Esaminata la documentazione presentata dalle parti in causa, come pure le stime eseguite da D.no Cristofolo Cappeller q. Michiel, essi “anno unanimi concordi deciso, computando ogni suo stabille, casa mobigliare e niente eccettuato, ancora animali che presentemente si trovino”, come segue. Spettava ai Cigui versare al Martincich 900 lire, uno staio di grano- turco, cinque botti di cui “una di misura cioè pesole”. Il tutto, eccetto il versamento liquido, da attuarsi nelle prossime venture stagioni. STAREC, Mondo popolare in Istria. Cultura materiale e vita quotidiana dal Cinquecento al Novecento, Trieste-Rovigno, 1997 (Collana degli ACRSR, n. 13), p. 179. 69, MARGETIC, op. cit., p.90-91; P.KANDLER, «Statuti municipali di Buie», cit., cap. 86, p. 275-276. 70 ASP, Istromenti del notaio Sebastian Barbo, b. 200, protocollo II. 7 IBIDEM. Cfr. pure R. CIGUI-D. VISINTIN, «Il processo Cigui-Martincic: una divisione ereditaria nella Carsette di fine ’700», ACRSR, vol. XX X (2000), p. 561-577. 70 D.VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Att, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 Venne inoltre stimata una casa, postisie comprese, sita a Verteneglio, e di cui la madre, trattandosi evidentemente di un bene di sua proprietà, anche se la documentazione non lo chiarisce, aveva dato in precedenza ampia e libera disponibilità al figlio Antonio, del valore di lire 219:10, che dovevano essere versate al Martincic. A quest’ultimo spettavano pure ulteriori 640 lire, pagabili entro un anno senza alcuna contraddizione, essendovi state ancora altre divergenze tra i due. L’autorizzazione della donna all’alienazione del bene avviene per atto notarile, ed a titolo di “pagamento delle suddette divisioni (ereditarie, n.d.a.), a Sime Martincic q. Sime”. Nella divisione non c’è alcuna differenza tra i sessi: tuttavia quello femminile, ossia la defunta moglie del Martincic, è rappresentato dal marito. Sostanzialmente i Cigui dovevano al Martincic versamenti in denaro ed in natura, pure sopra alcune affittanze e botti. La loro proprietà, escludendo la sopraccitata casa venduta a terzi, è rimasta intatta. Con i sopraccitati versamenti essi ne hanno evitato il frazionamento. Il testamento, nuncupativo di regola nelle campagne, veniva redatto dal notaio in presenza dei testimoni, di regola cinque. Va ricordato ancora che negli ambienti aristocratici spesso si ricorreva al testamento solenne, con i testimoni ad apporvi firma e sigillo, sia che il documento fosse stato segreto, cioè consegnato in busta chiusa al notaio, o a lui dettato, sempre in presenza di testimoni. A differenza del nuncupativo, il testamento solenne non era insignito immediatamente dei requisiti giuridici che l’avrebbero reso subito esecutivo alla morte del testatore. La sua apertura avveniva in forma solenne con l’apertura della busta alla presenza dell’au- torità politica e di almeno uno dei testimoni firmatari, che doveva ricono- scere le firme edi sigilli. Ad Umago, chi sapeva scrivere poteva testare di propria mano e far sottoscrivere il testamento dal podestà, tenerlo a casa propria o depositar- lo presso un notaio in busta chiusa, con sigillo dell’autorità politica e del testatore stesso, quindi reso pubblico ad otto giorni dalla morte dell’inte- ressato, o con uno spazio di tempo maggiore, in assenza del notaio dalla località. Contrariamente, il notaio doveva versare una pena di 25 lire a favore del comune — 20 a Buie — e subire la sospensione d’ufficio per cinque anni. Mancando il notaio o qualsiasi altra persona in grado di saper leggere e scrivere, il testamento poteva venir fatto oralmente alla presenza D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec.XVI-XIX), Arti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 71 minima di tre testimoni i quali entro quindici giorni dalla morte del testatore, se questa avveniva ad Umago, o passati i quindici giorni dal rientro se essa avveniva altrove, dovevano recarsi dal podestà e sotto giuramento dettare le ultime volontà del defunto. Se il testamento indica- va la presenza dei commissari o tutori, che seguendo la tradizione romana, erano chiamati ad eseguire i legati testamentari, questi allora venivano chiamati a giurare di fronte al podestà. In presenza di più testamenti, ci si affidava all’ultimo in ordine di tempo”. Essi venivano di regola scelti internamente alla famiglia o tra le alleanze familiari. Mancando il testamento e gli eredi, i beni passavano all’autorità politica, e dopo un certo periodo di tempo una parte veniva spesa in messe per l’anima del defunto”. La donna maritata poteva testare in presenza del marito, e di almeno uno dei parenti più prossimi. In assenza del marito, il podestà inviava allora un suo rappresentante”. Gli atti testamentari, che vedono impegnati famiglie nobili, benestan- ti, proprietari terrieri, anche se non sempre la residenti, e nuclei famigliari impegnati nell’ascesa sociale, economica e politica, erano numerosi. Da rilevare ancora la possibilità di aggiungere, con le stesse modalità testamentarie, i cosiddetti codicilli, ossia la possibilità di testare con la cedola alla veneta, che acquisiva la formalità del testamento segreto dal momento in cui la consegna al notaio avveniva alla presenza dei testimoni. Con i codicilli si poteva mutare in parte o del tutto il testamento. Stando al diritto romano, l’istituto dell’erede universale costituiva l’essenza del testamento, prevedendo la trasmissione universale del patri- monio familiare all’erede designato. Esso perse successivamente molto del suo significato originario, a vantaggio della successione legittima nella conservazione dei beni della casata, garantendo questa una maggiore coesione economica e politica della famiglia contro eventuali intemperan- ze o abusi dei suoi membri. Il testamento allora non si rese più necessario per istituire un’erede, ma a regolare tutta una serie di legati e di disposi- zioni varie, che potevano subire delle modifiche o aggiustamenti con i 72 A. BENEDETTI, op. cit., p. 26; P. KANDLER, «Statuti municipali di Buie», cit., cap. 81 e 86; L’Istria, anno V, Trieste, 1850, n. 39, p. 274-276. 3 A. BENEDETTI, op. cit., p. 27; P. KANDLER, «Statuti municipali di Buie», cit , cap. 83, p. 275. 74 P. KANDLER, «Statuti municipali di Buie», cir., cap. 80, p. 275. 72 D.VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 cosiddetti codicilli successivi, con cui si poteva addirittura annullare l’isti- tuto dell’erede universale. Gli inventari talvolta allegati, ci consentono di identificare la tipologia delle abitazioni d’epoca, arredi, corredi ed oggetti d’uso quotidiano, la consistenza patrimoniale, le caratteristiche geografiche territoriali, ecc. Questi erano compilati dai commissari testamentari o dai tutori, alla morte del testatore, ed i beni di conseguenza venivano conservati”. I testamenti stabilivano pure la devoluzione di tutto o di parte del patrimonio in opere di beneficenza, alla chiesa, alle confraternite, al pagamento delle messe per la salvezza dell’anima del defunto e dei paren- ti, il saldo dei debiti, ecc.”°. Diamo di seguito alcuni esempi, che risalgono alla seconda metà del XVIII secolo, ed agli inizi del successivo”. Da notare la ripetitività dei nomi, si trattava in tal caso di nomi pescati dal lignaggio paterno. Va sottolineata l’indicazione della Casa, intesa come lignaggio, per cui al nome dei figli si affiancava quello proprio del padre, alla moglie si affiancava quello del marito. Così nel testamento di Anna Catterina moglie di Nicolò de Papo q. Antonio, i figli, eredi univer- sali, vengono indicati con il nome del nonno paterno e del padre, quest’ul- timo erede usufruttuario vita naturale durante. Nel documento di Leonar- do Acquavita q. Pietro Antonio, sono i nipoti, Leonardo figlio di Pietro Marussich, l'omonimo cugino figlio di Nicolò e Catarina a portare i nomi del lignaggio. Va rilevata la profonda fede religiosa dei testatori, vista la raccoman- dazione dell’anima al regno dei cieli e particolarmente alla Vergine, fra l’altro particolarmente venerata a Buie, le spese in cere, ciò soprattutto a Buie e tra le famiglie benestanti, il numero delle messe ordinate nel giorno dell’obito, ne/ settimo della scomparsa e nel corso degli anni successivi. Anna Catterina ha ordinato per il giorno dell’obito una messa cantata e deo basse, per un totale di 24 lire, spese in cere ed officiatura comprese. Ordinate pure una messa cantata nel settimo giorno della scomparsa, e venti basse per i successivi tre anni. Leonardo Acquavita ha lasciato libertà 75 IBIDEM, cap. 91, p. 276. 76 R. CIGUI, «Le confraternite di Buie e del suo territorio. Una manifestazione della religiosità popolare in Istria», AB, vol. I (1999), p. 163-164; D. DURISSINI, «Introduzione allo studio dei testamenti triestini», AMSI, 1990, p. 181-190; D. MILOTTI, op. cit., p. 258-259; G. URIZIO, op. cit., p.11-12. 77 AST, Protocollo n. 1 testamenti di Domino Sebastian Barbo, b. 252, c 7 recto e 482 verso, b. 40, c. 57 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 73 di manovra all’erede universale, esigendo una messa cantata per un totale di lire 6 nel giorno dell’obito, otto funzioni religiose in suffragio dell'anima sua e di quella della defunta moglie da tenersi nel corso di quattro anni, e tredici messe annuali da tenersi entro tredici anni, pagabili con quanto l’erede riscuoterà dagli eredi del q. Bortolamio d’Ambrosi. Donna Vicen- za, moglie del q. mr. Biagio Antonin, ordina una spesa in cere pari a 4 ducati per lire 6a ducato, una messa cantata nel giorno della morte, un’altra in occasione del settimo giorno dalla sua dipartita, dando per ciò alla chiesa in cambio un quarto di farina di frumento per dispensare i poveri, ed ordinando all’erede universale, suo marito, la celebrazione di cento messe annue a suffragio dell’anima sua. Ordinati pure i luoghi di sepoltura, nel cimitero di S. Martino a Buie, o meglio a S. Martino sopra l’ossa degli antenati, per quanto concerne i testatori buiesi esaminati, a significare così un duraturo legame familiare con la terra d’origine e con coloro che li hanno originati e preceduti, mentre Gregorio Lalovich, della villa di Tribano, che lascia solamente i/ corpo a S. Giorgio, nella terra che li ha generati, non citando in alcun modo gli avi”. Comune a diversi documenti in esame, l’interrogativo verso un’even- tuale lascito a favore del riscatto dei poveri schiavi, o catecumeni, agli ospitali ed ai luoghi pii di Venezia, giuste le leggi, o ad altri luoghi privile- giati, ecc. E mentre si può da un lato notare un diffuso diniego per il lascito di capitali verso la Dominante, d’altra parte c’è l’assenza di lasciti caritativi in diversi testamenti cittadini. Si rifiutano di farlo Anna Caterina de Papo e l'erede Acquavita, mentre Donna Vicenza Antonin lascia “per una volta tanto lire due di soldo” agli altari della beata Vergine del Rosario e di S. Francesco, ed un quarto di farina a disposizione del clero per la devoluzio- ne del pane e del vino ai bisognosi, evidenziando un attaccamento ai luoghi sacri in cul essa si riconosce ed al clero buiese. Si può notare una tendenza all’assistenza ed un sostegno alle istituzioni assistenziali pubbliche ai po- veri tra gli abitanti del contado. Il signor Zorzi Antonio Tonin q. Carlo lascia “per una volta tanto due ducati da lire sei” ai catecumeni”, il tribanese Gregorio Lalovich devolve loro una lira e mezza®°. Lucia nata 78 AST, Protocollo testamenti Domenico Crevato, carte scritte 1-100, comincia il 4 aprile 1770, termina il 19 agosto 1771. 79 IBIDEM, c.1 verso. 80 IBIDEM, c. 2 recto. 74 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 51-126 Marussich, moglie di Michula Gordos di Crassizza dispone ad essi una lira8!, Venendo ora ai lasciti agli eredi, Anna Caterina de Papo lascia al figlio Antonio un anello d’oro con l’immagine di S. Carlo, la casa e la gioielleria alla figlia Nicolosa, il tutto però stimato e consegnato per conto di dote e perciò conseguito al momento del matrimonio, e parte del vestiario alla madre. Mancando uno degli eredi universali e rimanendo senza diretta discendenza, era l’altra parte ad ereditare il tutto. Morendo tutt'e due senza eredi, ereditavano equamente i nipoti per parte materna, figli di Gasparo Posar. Commissari testamentari sono nominati il cognato Papo de Papo e Francesco Marzari q. Orazio. Si nota la tutela del patrimonio: scomparsa l’intestataria, passa agli eredi; mancando la discendenza diretta esso rientra alla famiglia di provenienza e passa ad altri rami discendenti della stessa. Anche nel testamento di Leonardo Acquavita c'è una trasmissione per via femminile degli indumenti e della gioielleria, passando la cassa di noghera che era delle defunta moglie Catarina con chiavi ed il contenuto all’omonima nipote. È prestata attenzione anche a Leonardo, figlio di Piero Marussich, fuggito senza dare notizie di se, con l’avvertenza “che sia ben tenuto e guardato nonché mantenuto” fino alla raggiunta maggiore età, fissata a Buie a 15 anni per i maschi ed a 13 per le femmine. Volendo l'erede universale allontanarlo da casa prima del tempo stabilito, aveva l'obbligo di fornirlo di una campagna, a libera scelta dell’erede, e di roba da casa. Il tutto per un valore complessivo di cento ducati da sei lire. Il testatore ordina pure la vendita dell’anello d’oro appartenente alla defun- ta moglie per sopperire alle spese funebri. Gli immobili, ragioni et azioni, e quanto di diritto gli spettava, passavano in proprietà al figlio Nicolò, suo erede universale. Il testamento verrà ad ogni modo modificato in alcune sue parti da un successivo codicillo. Commissari testamentari furono no- minati lo stesso Nicolò e m. Luca Potleca, in sua assenza M.o Francesco Urizio. Leonardo e Pietro Marussich, così il codicillo, sono nipote, rispettiva- mente genero del testatore, ed il lascito di cui sopra al primo è fatto anche in nome della defunta moglie di quest’ultimo, Caterina, a titolo di benedi- tione e contento. Ciò a condizione che venendo a mancare l’erede, o spo- 81 AST, Protocollo testamenti Domino Crevato pubblico nodaro di Buie dal n. 101 usque 112, comincia 10 settembre 1803 e termina col 2 ottobre dello stesso anno, c. 102 verso. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 75 sandosi egli e non avendo prole, il tutto passi in mano a Nicolò ed alla sua linea di discendenza maschile, radicando in tal modo il patrimonio alla famiglia d’origine. Vengono quindi annullate le disposizioni relative alle celebrazioni delle tredici messe annue peri successivi tredici anni a suffragio dell'anima sua, e la vendita dell’anello appartenuto alla defunta moglie. Spunta a questo punto l’altro Leonardo, o Leonardino, figlio di Nico- lò, a cui vanno “li mestalli che esistono in contrà Bomarchese cioè atti, che confinano in sera con m. Marzio Moreser”, ed appare qui chiaramente l’indicazione di un confine di proprietà, nonché la posizione geografica dei fondi, ed un fucile, conservato però fino alla morte del testatore, dal padre. Tutto il resto viene confermato. Si possono ricostruire pure le alleanze familiari tessute con i matrimo- ni, molto importanti nel sistema di vita della locale società, ed i quali giocavano un ruolo molto importante nell’ascesa sociale ed economica, nonché nel consolidamento delle posizioni sociali delle singole famiglie, con riferimento ai documenti fin qui esaminati. Anna Catterina de Papo era figlia di Marco Posar, e Nicolò suo defunto marito di Antonio de Papo, ambedue figli di agiati proprietari terrieri buiesi. Papo de Papo si unirà in matrimonio con Zuanella fu Pietro D’Ambrosi. Antonio de Papo lo tro- viamo in seguito unito in matrimonio con Maria figlia di Antonio Baissero, e nel censimento compilato dall’arciprete Francesco Loy nel 1787 è collo- cato nella terza classe dei possidenti, quella dei nullatenenti, a cui appar- tenevano anche i Baissero. Nicolosa si sposerà con Giuseppe Trevisan q. Mattio, di condizione media. Ed ambedue avranno figli legittimi. Il docu- mento del Loy riserva a Papo de Papo, della classe dei possidenti, ed al figlio Antonio, una posizione sociale alquanto migliore rispetto a quella dei nipoti e dei cugini. Tra i possidenti anche Francesco Marzari q. Orazio. Tra i possidenti e gli appartenenti al ceto medio pure i testimoni®”, In quanto alla famiglia Acquavita, non sappiamo null’altro del matri- monio del testatore con Caterina , mentre il figlio Nicolò convolerà a nozze con Elisabetta, figlia di m.o Francesco Urizio, commissario testa- mentario83, 82 Archivio parrocchiale di Buie (APB), Liber copulatorum 1731-1796, c. 19, 29, 112. Si ringrazia il parroco, don Mladen Milohani6, per la gentile disponibilità. B. BAISSERO-R.BARTOLI, op. cit., p. 114-128. 83 APB, Liber copulatorum 1731-1796, c. 71. 76 D.VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 51-126 Dei citati, si sa che Leonardo Acquavita era di condizione media, e Francesco Urizio possidente, ranghi a cui appartenevano pure i testimo- me, Interessante anche il testamento di Marina, del 1735, vedova del q. Luca Crevatin, redatto a Tribano. Essa fra l’altro nomina più eredi univer- sali: Zuanne Dresina, suo nipote, la figlia Maarta, maritata con tale Mattio Zeneuva, i figli del q. Zuanne Magiao, e di sua figlia q. Catta di Vertene- glio, e Lucia maritata col q. Francesco Servola dello Stato austriaco a Galignan. Il testamento è detto sine scriptis, dettato cioè alla presenza dei testimoni, in lingua illirica®. La dote, caratteristica delle società euroasiatiche fin dall’età del bron- zo, era uno degli elementi distintivi del matrimonio fino alla fine del XVIII secolo*. Nelle società regolate dal diritto romano, non si poteva celebrare alcun matrimonio senza la dote. Stando al diritto comune, la dote veniva lasciata soltanto da chi era nelle possibilità di farlo. Tale istituto va consi- derato come un atto di valorizzazione della donna, ed un acconto sulla facoltà ereditaria dei genitori viventi?” In assenza dei genitori, la dote poteva venir preparata dai fratelli. Essa indica una trasmissione per via femminile del patrimonio familiare, dal momento in cui ci si preparava a creare una nuova famiglia*. Questi beni non potevano essere sottoposti ad alienazione senza il consenso della donna. La funzione della famiglia e del matrimonio era determinante nella strutturazione del mercato della terra. Come anche nelle eredità, questo processo variava in due fasi. Nella prima, ci si avviava alla produzione di cereali e del necessario alla sussistenza economica. Possiamo perciò in questo modo interpretare la dotazione delle figlie con case ed arativi. Successivamente si aumentavano le colture diverse dall’aratorio, man mano che crescevano le dimensioni dell’azienda. Tutto ciò significava per l’azienda familiare a ricorrere moto spesso al mercato, onde creare nuove doti. 8 B. BAISSERO-R. BARTOLI, op. cit., p. 114-128. 85 ASP, Minutario testamenti Domino Francesco Papo (1729-1740), fasc. 40), c. 83 recto. 86 D. VISINTIN, «Alcuni modi di circolazione», cit., p. 257. 87 L. UGUSSI, «Il matrimonio a comunione dei beni nella Terra di Buie dal XVI al XIX secolo», Antologia delle opere premiate del XVII concorso d’arte e di cultura «Istria nobilissima», Trieste-Fiume 1984, p. 260. 88 A. CIUFFARDI, «Il matrimonio a Buie nel XVIII sec. Due nozze Crevato a confronto», AB, vol. I (1999), p. 227-240. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 77 La dote consisteva in gioielli, arredi, abiti, attrezzi, che alla morte di uno dei coniugi prendevano altre vie, finendo in mano a parenti ed amici, secondo una consuetudine legata all’appartenenza sessuale. Attrezzi di lavoro quotidiano, armi e simili spettavano ai maschi, abiti, gioielli ed attrezzi da cucina alle donne. Al momento in cui la donna entrava a far parte della nuova famiglia, il tutto veniva ceduto in amministrazione al marito o al capofamiglia. Successivamente, in base a diritti ereditari e testamenti, tutta questa ricchezza passava in mano agli eredi o, mancando essi, rientrava in posses- so della famiglia originaria, se premoriva la donna. In caso di vedovanza, questa poteva sfruttare la dote per una nuova unione matrimoniale. I beni dotali non si potevano alienare senza il consenso della donna. L'istituto della dote è altresì legato alle differenze sociali non soltanto esistenziali, ma anche alla posizione della donna nell’ambito dell’unione matrimoniale e nel caso di vedovanza, quando rientravano in pieno pos- sesso della dote — così nel matrimonio dotale dell’inclita città di Venezia — che in epoche remote veniva spesso lasciata alla Chiesa. Motivo per cui essa ostacolava un secondo matrimonio della donna rimasta vedova’. Dovendosi celebrare il matrimonio tra Ambrosio D’Ambrosi q. An- drea con Catta, figlia del Signor Domenico Mazzucchi”, con l’assenso della madre Sig. Zuanna, fu assegnata ad essa la dote, pari ad un valore di 600 ducati. Ossia, la madre assegnava ad essa beni stabili, mobili, gioielli dorati e biancheria, il tutto registrato e stimato. Di questa somma, il sig. Ambrosio, suo futuro sposo poteva avvalersi di 100 per le sue eventuali urgenze. Questa porzione, con il consenso di Zuanna, poteva esser aliena- to ed impegnato. L’altra parte della dote, venne assegnata dal fratello, don Gasparo Mazzucchi. Tale assegnazione dotale “sub obligatione omnime Donavit morem presentirem futurumque, va intesa secondo l’uso dell’inclita città di Venezia, renonciando a quella del Paese, che si dice ‘a fratello e sorella’ et all'incontro esso sig. Ambrosio qui presente promette in controdotte alla sunnominata s. Catta sua ventura sposa in pegno ducati 100 e la quarendatione della dotte con che resa più lordo migliorarla che peggio- 89 Jack GOODY, Famiglia e matrimonio in Europa. Origini e sviluppi dei modelli famigliari dell'Occidente, Milano, 1984, p. 151-172. 9% ASP, Protocollo di me Francesco Papo di Francesco nodaro publico degli anni 1729, 1730, 1731, b. 7, fasc. 41, c. 3 verso. 78. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 rarla sotto una solenne generale et invidiabile obbligazione d’ogni e ca- dauno dei suoi beni immobili, come stabili indi e futuri in amplificazione e nobilissima fama”. Testimoni furono Andrea Bonetti q. Nadal e Pasqua- lin Battaglia de Zuanne. Va qui segnalata la controdote, che maggiorava i beni della vedova, permettendole così di vivere ancor meglio se non si risposava, o di aumen- tare la dote se procedeva ad un nuovo matrimonio. Anch’essa se promessa, come la dote, veniva ricevuta dopo la morte del capofamiglia. Vedasi l'esempio di Elisabetta Marzari, relicta del q. Bortolamio D’ Ambrosi, a cui spettava sia la dote —con annesso degrado-che la controdote?. I matrimoni venivano talvolta preceduti dai contratti matrimoniali, in cui si stabilivano diritti e doveri dei coniugi e delle rispettive famiglie d’appartenenza, compresa la dote da assegnare. Il 13 maggio fu sottoscritto a Buie, nella casa del nobile Pietro Ales- sandri ed alla presenza di testimoni, un contratto matrimoniale tra Anto- nio Scoccinella q. Innocenzo da Buia del Friuli, ed Andriana, figlia del q. m. Biasio Salveo, e già moglie del q. m. Leopoldo Trivisan, anch'essa friulana. Dal precedente matrimonio essa ha avuto una figlia. Leopoldo, come già riportato in altra parte, era stato reso colono perpetuo dal citato Alessandri, e dalla nobildonna Antonia dei conti Caldana, con accordo datato 1722. Questo accordo prevedeva fra l’altro la possibilità d’una separazione causa mortis, rimanendo superstite il marito senza figli. Con- trariamente, i diritti conseguiti passavano alla moglie. In virtù di ciò, gli obblighi enfiteutici del defunto Trivisan, spettavano ora al Scoccinella. Testimoni furono il canonico don Giacomo Ferrarese, e don Giovanni Davolo”?, Da rilevare pure le permutazioni, anch’esse di origine romana, che sancivano lo scambio di beni tra le parti interessate, nascondendo talvolta dei mutui ad interesse, e le donazioni inter vivos, che prevedeva la donazio- ne di beni mobili ed immobili. Alcuni statuti istriani prevedevano un dono in genere non superiore della metà delle proprietà in mano al donatore. In un documento relativo a Buie, del 1629, la donazione è attinente a tutta la proprietà”. 9 ASP, Protocolli Notarili Domino Sebastian Barbo, b. 55, fasc. 206, cit., c.7,11 e 14. 92 ASP, Protocollo di me Francesco Papo di Francesco... cit., b. 7, fasc. 43, c. 170 verso 9 D. MILOTTI, op. cit., p. 292. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 79 Le locazioni agrarie In Istria il sistema di locazione aveva una tradizione lunghissima. Nelle aree più interne e meno produttive, sopravvivevano molti usi civici con una diffusione della media e piccola proprietà coltivatrice. Le regioni pedemontane, litoranee e quarnerine, la proprietà non era sempre in mano ai coltivatori. Spesso questi affidavano ne affidavano la lavorazione ad altri, seguendo varie forme di locazione: affitto in denaro, in natura 0 misto, affittanze parziarie, livelli, ecc. La dove la terra era tenuta generalmente in propria economia, nel nostro caso a Buie, Berda, Crassizza, Piemonte, Castagna, Tribano, S. Lorenzo, Carsette ed Umago, c'erano famiglie con proprietà abbastanza estese, al punto che tenevano presso di se una o due famiglie lavoratrici, a seconda dell’estensione dei possessi. I proprietari non coltivatori diretti dei fondi, erano costretti ad entra- re in relazioni di tipo contrattuale con contadini formalmente liberi, senza o con poca terra, dotati più o meno di scorte proprie”. I protocolli e le carte sciolte dei notai risultano ricchi di notizie a proposito”. Dalla loro analisi, è emerso un quadro di rapporti tra proprietari e contadini che ha moltissime analogie con quelli vigenti nelle vicine terre friulane e venete. L’esito incerto dei raccolti ed il sistema agricolo precario, spingevano i proprietari di quasi tutta la provincia a cercare nell’allevamento animale i redditi che l’agricoltura non era in grado di assicurare loro, valorizzando le varie estensioni pascolive e boschive. In queste aziende il lavoro veniva svolto da famiglie o coloni, o direttamente dai proprietari. Nel primo caso, si stipulava con gli interessati un contratto di locazione d’opera, con salari in natura, in denaro o misti, affiancati spesso da una concessione tenuta a mezzadria. Locazione e mezzadria si rifanno ad usi e consuetudini antiche. In conseguenza di ciò, spettava al famiglio la cura e la custodia del bestiame e la sorveglianza delle mandrie e delle greggi. Con il colono si stipulava un contratto di mezzadria per i terreni coltivati, ed un altro di soccida per la custodia animale. Le caratteristiche della mezzadria variavano a seconda della fertilità dei suoli. Nella regione pedemontana questo contratto, che prevedeva la °4G. GIORGETTI, op. cit., p. 6. 95 ASP, b. 101, Protocollo III (1774-92), protocollo IV (1792-1803), protocollo IV (1803-20), instrumenti di Giovanni Pietro Castagna; b. 200, Protocollo II, instrumenti di Sebastian Barbo. 80 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XITX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 divisione a metà dei prodotti tra proprietario e contadino, veniva applicato interamente. Nel quarnerino esso assumeva le caratteristiche dela terzia- ria. Due terzi del prodotto spettavano in questo caso al colono, il resto al proprietario. Esso rifletteva quasi sempre le caratteristiche dei piccoli appezzamen- ti, e trae la sua origine dalla distanza di alcuni terreni dalla residenza padronale, nonché dalla scarsità di manodopera. Quasi tutti i mezzadri-af- fittavoli erano proprietari di alcuni fondi, e spesso pure degli animali da lavoro. Abitando nelle vicinanze, questi potevano esercitare una sorve- glianza più attiva ed assicurare la produzione nei luoghi dove in caso contrario la si perdeva del tutto. Gli accordi contrattuali, almeno fino al XIX secolo non hanno favori- to molto lo sviluppo agricolo dell’Istria, e non hanno raggiunto se non che raramente la perfezione economica. Ciò perché l’agricoltura istriana difet- tava di prati, di animali e di manodopera. In tutta la provincia, il capitale d’esercizio del colono era limitato a pochi arnesi rurali, rare volte gli animali, i carri e gli aratri. Nella regione pedemontana a questi rapporti contrattuali si aggiunge- va l’affitto, che prevedeva una ripartizione a metà dei prodotti del sopra- suolo, ed una quota fissa per i cereali”. L’affittuale, al pari del mezzadro, abitava nel villaggio, all’interno di un’organizzazione disposta per nuclei accentrati. Generalmente, anch’esso era possessore di alcuni fondi e spesso pure degli animali da lavoro. Diffuso pure il contratto di colonìa: in alcuni comuni censuari sovra- stanti il golfo di Trieste lo si può trovare molto vicino al concetto di associazione tra capitale e lavoro, e della proletarizzazione dei contadini. Questi non avevano alcuna libertà di gestione, ma si prestavano ad introdurre nelle coltivazioni delle migliorie suggerite dal padrone anche per quanto riguarda la scelta delle piante. Nel lavoro venivano occupati i membri del nucleo familiare, gli operai fissi (famigli), ed in alcune circo- stanze lavoratori avventizi da essi stessi retribuiti. Questo sistema colturale richiedeva al proprietario forti anticipazioni. Questo tipo di locazione constava di un prevalente canone parziario. Le corresponsioni produttive coloniche oscillavano da metà per i terreni meno fertili, a due terzi per quelli particolarmente fertili. Molti di questi % N. DEL BELLO, op. cit., p. 109. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 81 contratti prevedevano l’obbligo di concimare e letamare i terreni e miglio- rie varie. Talvolta si prevedeva l’obbligo di versamento della decima ecclesiastica, e la necessità d’avvisare il padrone prima del raccolto, per evitare abusi e problemi d’ogni sorta”. Un altro contratto diffuso era il cosiddetto patto colonico, che ha facilitato la coltura ed il frazionamento del suolo. Si tratta di una locazione migliorataria e con contenuti che rimandano ai patti ad meliorandum, in quanto vengono stipulati quando si vuole da un fondo improduttivo, senza capitali ed anticipazioni, ottenere dei redditi. Il proprietario affidava allora un fondo al colono, per un periodo di tempo stabilito, con l’obbligo di intraprendere le stabilite migliorie, prestando all’uopo tutti i capitali d'esercizio. Scaduto il termine, esso veniva suddiviso secondo i termini stabiliti, ed il padrone aveva diritto di scelta della porzione che si era riservato, mentre la rimanente diventava di proprietà del colono, oppure poteva essere riscattata dal padrone versando il valore degli impianti e delle bonifiche realizzate. Questi ultimi contratti rimandano agli affitti perpetui, alle enfiteusi e ad altri contratti del genere, in cui il proprietario di un fondo incolto non possedeva i capitali necessari alla realizzazione delle varie migliorie, per cui affidava la terra ad un colono affinché la valorizzi”. Essi hanno pure analogie con il dominio congedabile, esteso in altre parti d’Europa, e caratterizzato per lo più da una capitalizzazione della forza lavoro”. La durata dell’affitto poteva raggiungere persino gli otto anni, con divisione degli utili che andava da metà ai due ai due terzi. In tal caso le sementi erano di proprietà dell’affittuale. Diffusi pure gli affitti annuali, e quelli con pagamento del canone parte in natura e parte in denaro, o con pagamento anticipato. In alcune aree i proprietari erano costretti ad anticipare le sementi, o ad affittare alle famiglie coloniche che ne erano prive sia animali che attrezzi agricoli, che il contadino era tenuto a restituire cessata la locazio- ne, pagando la conseguente perdita di valore del bestiame, dovuta al 9? D. VISINTIN, «Paesaggio agrario», cit., p. 614. % Cfr. D. MILOTTI, op. cit., p. 264-265. % IBIDEM, p. 112-113. 82. D.VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XTX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 deprezzamento per l’età valutata sulla base delle stime fatte al momento della consegna e della successiva riconsegna. Nell’area interna e pedemontana, era diffuso il contratto di società fra due o più proprietari terrieri i quali riunivano assieme i loro boschi ed i pascoli. Esso non ha i connotati precisi di un contratto agrario. Trae origine dagli usi antichi di quelle popolazioni, allo scopo di valorizzare collettivamente terra e lavoro!. Di notevole diffusione anche il contratto di livello, che subiva delle alternanze con l’enfiteusi, ed ambedue erano legati a fasi di popolamento e di colonialismi, seguite alle crisi economiche, alla svalutazione moneta- ria ed al notevole accrescimento della produzione sui terreni interessati!”!. I suoi caratteri, come già è stato detto sopra, si confondono spesso con delle forme di credito, contribuendo a migliorare la terra in un insieme di gravami e di vincoli che ne limitarono la sua libera circolazione sul merca- to!. Così il terratico, o piccolo affitto, impiegato soprattutto nella cerea- licoltura, e l’erbatico, riservato ai pascoli, esteso in modo particolare lungo le vaste distese dal bacino del Quieto al meridione istriano. Diffusi pure i contratti di soccida, relativi all’affidamento degli anima- li, con divisione a metà degli stessi, nati compresi (soccida di ferro). Nel caso in cui essi venivano portati al macello, o venivano venduti prima di tre anni, il guadagno del contadino si riduceva ad un terzo. Se l’animale moriva per inadempienze del soccidante, esso doveva contribuire al paga- mento con la sua metà La soccida, originata in epoca romana, faceva riferimento agli affida- menti delle bestie da frutto, soprattutto nelle zone dove il conferimento delle scorte vive spettava ai lavoratori della terra. Lo stesso schema contrattuale in uso per l’affidamento degli animali grossi è rintracciabile in riferimento a quelli minuti. Talvolta gli animali venivano affittati, in primo luogo quelli da lavoro, spettando probabilmente al colono il conferimento delle scorte vive! !00 IBIDEM, p. 114. 101 G. GIORGETTI, op. cit., p. 97. 102 IBIDEM, p. 114-115. 103 D. MILOTTI, op. cit., p. 263. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec.XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 83 Il paesaggio agrario Il paesaggio in esame, nella sua parte interna, è caratterizzato da frequenti colli che toccano i due-trecento metri di altezza, intercalati da espressioni vallive, attraversate spesso da torrenti e corsi d’acqua, un tempo molto più fitti e cospicui. Quest'area collinosa, arenaceo-marnosa, vede la presenza delle vallate tortuose vallate del Dragogna, del Quieto, e del Brazzana. Il versante nordoccidentale, meglio noto come Carso di Buie è il meno fertile e sprovvisto di acque correnti. L’area vicina ai fiumi, molto fertile, è spesso soggetta alle inondazioni, i versanti collinari. I dilavamenti. Da questi, i piai, ossia i pendii collinari più dolci, sono meno soggetti al dilavamento. Man mano che ci si avvicina all’area marittimo- costiera, il territorio assume un’espressione pianeggiante nel cui mezzo si trovano qua e la delle amene collinette. La siccità estiva e le inclemenze meteorologiche invernali ci mettevano pure lo zampino per rovinare i raccolti. La geografia del paesaggio agrario ha risentito profondamente delle forme impresse dal regime di proprietà, dalle relazioni intercorrenti tra proprietari e coltivatori, delle caratteristiche geomorfologiche, della ferti- lità dei terreni. I sistemi colturali adottati, l’organizzazione del lavoro agricolo, le colture impiantate, hanno influenzato acutamente l’organizza- zione del paesaggio agrario. La sua partitura ha risentito intensamente dell’attività di generazioni di contadini che sulla base di tecniche tradizio- nali dello sfruttamento dei terreni hanno trovato le basi della propria sussistenza e la possibilità di corrispondere rendite, oneri e balzelli a privati o ad istituzioni laiche o religiose. Da ciò la particolare fisionomia del territorio, il cui paesaggio agrario è poco mutato nei secoli. Prevaleva- no le coltivazioni promiscue. Qua e là si poteva trovare qualche impianto specializzato di vigneti ed uliveti. Estesi i pascoli, mentre scarseggiavano prati e boschi. Un retaggio comunque che bene o male resiste tuttora. La disposizione degli insediamenti è caratterizzata da una tipologia accentrata e dalla collocazione su aree di antica colonizzazione, oltre che strategico-militare. Vedi ad esempio Buie, la sentinella dell’Istria, Grisi- gnana, già sede del Capitano del Pasenatico, o Piemonte. Attorno ai villaggi si disponevano i terreni cerealicoli e vitivinicoli, allungati in profondità lungo tutto il circuito perimetrale su aree fertili, su pendii soleggiati o di facile accesso, terreni coltivati su cui si fondava la 84 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XITX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 sussistenza agricola e la rendita padronale. In posizione più eccentrica, su aree meno fertili ed accessibili, si estendevano i pascoli e le brughiere, in gran parte di proprietà collettiva, sfruttati dalla popolazione che beneficia- va a vario titolo dei diritti di pascolo e di legnatico, voci importanti nelle entrate familiari. Quindi pascoli e boschi, che rivestivano pure un’importan- za fondamentale nell’organizzazione produttiva. Così pure gli orti, che i rilevamenti cartografici indicano immediatamente vicini alle mura cittadine collinari, e ad ogni modo appresso le case degli insediamenti pianeggianti. Del tutto secondari gli insediamenti sparsi, risultato di colonizzazioni e appoderamenti recenti, o legati prevalentemente ad attività secondarie, oppure si trattava di aggregati di più comunioni familiari, che coltivavano un territorio di proprietà collettiva. Va rilevato che l’area in esame, riflette le caratteristiche essenziali dell’agricoltura tradizionale istriana, ed era pur sempre tra le meglio coltivate in Istria. coltura promiscua. I campi coltivati, i boschi, i prati ed i pascoli, rappresentavano gran parte delle superfici comunali. Il resto era occupato da aree sterili, incolti, acque, strade ed edifici. La coltura promiscua prevaleva per esigenze economiche e sussisten- ziali, talvolta per la mancanza di spazio. Questo tipo di coltura comunque proteggeva le colture dalle inclemenze meteorologiche, di modo che se esse colpivano una coltura, d’altro canto danneggiavano di meno o per niente la vicina, meno esposta. Vite ed olivo, anche se generalmente coltivati a promiscuo, erano le colture di maggior vanto e pregio, e di conseguenza le più curate, anche se spesso erano quelle più colpite dagli eventi meteorologici. Assieme al gelso, prevalente nel Buiese e nel Montonese, rappresentavano le colture di maggior guadagno per le famiglie. Tra le colture promiscue, gli arativi olivati raggiungevano la loro massima espansione a Berda (Collalto), ossia in prossimità della sponda sinistra del Dragogna, e sui colli di Buie. Scarsa la loro presenza nelle altre aree. Gli arativi vitati erano generalmente molto diffusi in tutto il territo- rio, ma Berda ne era priva. Presenti, anche se scarsamente, gli arativi vitati olivati, eccetto ad Umago ed a Tribano. Notate le vigne olivate invece a Buie, Crassizza e Grisignana. Gli arativi vitati alberati avevano le viti piantate a gruppi in filari simmetricamente disposti, ed appoggiati ad un albero vivo, generalmente D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec.XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 85 di acero o di pioppo, o, in casi particolari, si ricorreva ai pali morti, più dispendiosi, anche perché, a differenza degli “alberi vivi”, non davano alcun utile. Ogni gruppo conteneva da sei ad otto tralci con un albero. Di solito se ne potevano trovare cento gruppi per ogni iugero di superficie. Negli arativi olivati, gli ulivi venivano generalmente piantati lungo i filari delle viti, in mezzo ai gruppi tra i filari senza alcuna simmetria né proporzionale distanza. Quasi irrilevante la presenza degli impianti specializzati: a Buie si potevano trovare dei vigneti; pochissimi pure gli oliveti. Questi ultimi popolavano particelle di terreno fittamente piantate, non permettendo così la loro utilizzazione ad altri fini. Mentre le vigne semplici si dispone- vano piantate a tralci isolati distanti l’un dall’altro due piedi e sostenuti da un palo morto o da un “albero vivo”. Nel ripiano costiero prevalevano gli arativi nudi, presenti invece di- scretamente nell’area collinare Scarsi e scadenti pure i pascoli, nonostante una loro presenza in tutta l’area. Una loro maggiore presenza va rilevata nell’area collinare. Qui primeggiavano Piemonte e Grisignana, vista pure la presenza di pascoli boscati. Nella stagione invernale, diversi di questi pascoli venivano affittati ai pastori del Cragno, che vi si fermavano dai primi di dicembre alla fine di maggio. Ed anche questa voce rappresentava un’utile voce d’entrata ai bilanci familiari. E d’altra parte s’otteneva un’utile dal concime animale lasciato sui pascoli dalle greggi, sia di proprietà familiare che di quella straniera, sotto forma d’escrementi. Tutto ciò a ricompensa, seppur talvol- ta con magra consolazione, dei danni che gli animali apportavano col calpestio e con il morso di alberi e di viti, quando s’introducevano abusi- vamente nei campi coltivati. I prati erano molto diffusi a Tribano. Qui occupavano quasi la metà del territorio, e ciò favoriva la tenuta a stalla degli animali, a differenza delle altre località, in cui per ovvie ragioni soltanto i buoi da tiro ed i cavalli erano tenuti a stallaggio, mentre tutti gli altri animali erano custoditi al pascolo. Ciò comportava la perdita del prezioso concime naturale per le coltivazioni. i In quanto ai boschi, l’area da essi occupata diminuiva man mano che ci si allontanava dal mare verso l’interno. Rilevabili i boschi di Cornaria in quel di Grisignana, Cavalier presso Verteneglio e Fernè vicino a Buie. 86 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 L'agricoltura Il settore primario, come abbiamo visto, era largamente diffuso. La coltura dei cereali minori era ampiamente generalizzata. Orzo, avena, grano saraceno, ecc. panificati in varie misture, erano parte integrante dell’alimentazione contadina! L’alimentazione veniva comunque inte- grata, a seconda delle aree, dai prodotti della pesca e della caccia. A Buie si primeggiava nell’uccellagione: un’arte questa che meriterebbe un ap- profondimento a parte!”%. “Arano la terra non molto profondo e malamente, nella quale a suo tempo gettano li grani, e la fanno eguale con romper i zopponi di essa Per li formenti la voltano due, o tre volte ...” scriveva alla metà del secolo il vescovo Tommasini, Le colture granarie erano diffuse soprattutto nel Montonese e nei territori di Buie!”, Il frumento prodotto, generalmente coltivato a promi- scuo, non era sufficiente ai fabbisogni interni — del resto lo aveva già annotato il Tommasini! — per cui si procedeva alla sua importazione dalle aree vicine, in primo luogo dal Friuli e dal Pinguentino!®”, Nelle poche aree istriane in cui essoveniva prodotto in sovrabbondan- za, esso veniva esportato nelle aree in cui risultava carente, o a Trieste, come documentato agli inizi del XIX secolo!!°. Che comunque la situazio- ne granaria non era fiorente, anzi in alcuni periodi era addirittura insuffi- ciente, lo testimonia il fatto che a partire dal 1764, il senato veneto è venuto più volte in soccorso della provincia istriana!!'. Il granoturco lo si coltivava in poche aree!!?. Anche se abbondante- mente diffuso nel Settecento, le rese erano scadenti, risentendo la coltura delle difficoltà di adattamento al suolo!. Nonostante ciò, i contadini 104 S.ZALIN, op. cit., p. 187. 105 Cfr. a tale proposito D. MILOTTI, op. cit., p. 273, e G. F. TOMMASINI, op. cit., p. 270. 106 IBIDEM, p. 96. !07 C. DE FRANCESCHI, Descrizione del Margraviato d'Istria, Parenzo, 1879, p. 103, 115 e 137. 108 G. F. TOMMASINI, op. cit., p. 306. 109 D. MILOTTI, op. cit., p. 270. 110 Rapporto sull’Istria presentato il 17 Ottobre 1806 al Vicerè d’Italia dal consilgliere di stato Bargnani, Capodistria, 1890, p. 24. Il testo integrale del Rapporto del Bargnani è stato pubblicato, a cura di E. APIH, anche negli Atti del Centro di ricerche storiche, vol. XII (1981-82), p. 203-335. 111 «Intorno alle condizioni dell’Istria nella seconda metà del secolo XVIII, scrittura del Savio Battaglia, L'/stria 1846-1852, Trieste, 1983, p. VI-71. 12 S. ZALIN, op. cit., p. 187. !!3 IBIDEM, p. 187. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol XXXIV,2004, p.51-126 87 continuarono a riservare ad essa i terreni migliori'!. La coltura avrà un notevole impulso dopo la fame e la carestia degli anni 1816-17, quando si sperimenterà la diffusione di una nuova coltura: la patata, la cui espansio- ne procedette a rilento e senza grossi successi nel corso dell’Ottocento!"5. I prodotti principali, come già detto, erano il vino e l’olio d’oliva. Ed crano queste, assieme al gelso, le colture principali su cui si puntava maggiormente in questa parte della penisola istriana. Come già rilevato dalla Milotti, ancora alla metà del XVI secolo, ben 28 dei 38 contratti da essa esaminati, si riferiscono a compravendite o permute di vigne!!°. Una situazione quasi analoga verrà riscontrata successivamente!!”, Due erano le modalità di coltivazione della vite: le vigne basse, e quelle alte, a piantade, o in braida. Nelle prime, di antica tradizione, si coltivavano essenzialmente uve bianche, — pelosa, ribolla, pirella!!8 — e le viti erano basse e folte. Le seconde sono pure di antica affermazione, ma nel buiese furono introdotte dai monaci cassineni di S. Pietro in Montrino, come già sopra riferito Il loro fusto era più elevato, i filari maggiormente distanziati. Primeggiavano le uve nere — refosco o terrano grande, uba cropella, chervatizza rossa — e tra i filari si seminavano cereali!!°. Presenti qui anche le uve bianche, quali il cividin ed il tribiano, ma pure il moscato, le malvasie!”. In quanto alle modalità di lavorazione, esse venivano zappate due volte all’anno. Nel Buiese invece le vigne basse venivano zappate tre volte. Una prima zappatura seguiva nella stagione invernale, a dicembre. Quindi si proseguiva in aprile. La terza zappatura avveniva agli inizi di luglio. Così pure nel Piranese. Questa terza zappatura a Buie la si chiama tuttora ocar, e serve alla crescita dei tralci ed all’ingrossamento degli acini. Le vigne alte, di regola, seminate a promiscuo, venivano zappate soltanto a marzo, prima della semina primaverile a cui erano riservati gli spazi interfilari!?’. li C. HUGUES, L'economia agraria dell'Istria settentrionale, Parenzo, 1889, p. 46-47. 115 P. PREDONZANI, Discorso ed istruzione agro-economica peruso de parrochi e de proprietari dell’Istria, Trieste, 1820, p. 203; IBIDEM, Appendice, p. 10-11 e 33; E. APIH, «Contributo alla storia dell'agricoltura istriana (1750-1830)», ACRSR, vol. IV (1973), p. 126-127. 116 D. MILOTTI op. cit., p. 267. !!? p. VISINTIN, «Paesaggio agrario», cit., p. 614-615. 1!8 G. F. TOMMASINI, op. cit., p. 98-99; S. ZALIN, op. cit., p. 194. 119 S. ZALIN, op. cit., p. 194. Si rimanda pure alla nota 100. 120 G. F. TOMMASINI, op. cit., p. 98-99. S. ZALIN, op. cit., p. 194. 12! D. MILOTTI, op. cit., p. 268; G.F. TOM MASINI, op. cit., p. 97-98; V. VITOLOVIÒ, «Iz 88. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiarianel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 Le vigne a palo secco erano un’esclusiva dell’interno collinoso, in altre parti generalmente si usavano gli alberi da frutto a sostegno dei filari!?2, A Cittanova ad esempio, si usavano gli “alberi cotoniari dai quali ricavano frutti, onde è bellissimo vedere piantate intere cariche d’uva, e gli alberi di cotoni”!?3, Il prodotto veniva in prevalenza destinato all’autoconsumo. Perciò si mirava non tanto alla qualità, quanto alla quantità. Come già rilevato dal Tommasini, nel XVI secolo si producevano fino a 6.000 orne di vino (circa 3.500 ettolitri), che costituiva pure una rilevante voce commerciale: “Ven- gono li Cranzi a portarli (i vini, n.d.a.) verso Lubiana, e nel Cragno ... se ne porta a Venezia, e un luogo lo comunica all’altro; ma tanto ne bevono questi poveri, e ne fanno bevere, che la maggior parte si consuma nella provincia”! Fin dall’Antichità il vino istriano era molto rinomato, ed ammesso alle tavole reali e principesche d’Europa'. Durante le loro annuali discese in Istria, i sudditi austriaci prelevavano tra l’altro il moscato di Capodistria, i refoschi ed i terrani di S. Vincenti. La stessa famiglia imperiale austriaca ordinava annualmente l’acquisto di vini istriani sulle piazze di Trieste e di Capodistria'?°. Erano stimati i vini neri e bianchi di Umago, i vini bianchi di Buie. “A Momiano si fa coppia di vini, e buonissimi; il simile a Grisigna- na, Piemonte, Montona”!?7. Il resto veniva indirizzato nel Friuli o a Vene- zia. Nella capitale della Serenissima nel 1620 si versava un dazio di 10 soldi “per ogni orna di vino per terre aliene”!°8, Altre fonti rilevano però che l’entrata a Venezia ne veniva ostacolata!”’. Oppure ne veniva ostacolata l’esportazione. Così in una supplica del 1608 che qui riportiamo, inviata al Senato veneziano!°; proslosti poljoprivrede Istre od antike do XVIII stoljeéa» /L’agricoltura dell’ Istria dall'antichità al XVIII secolo/ Zbomik Porestine [Miscellanea del Parentino/, Parenzo, p. 239. 122 D.VISINTIN, «Paesaggio agrario», cit., p. 609. 123 G. F.TOMMASINI, op. cit., p. 97-98. 124 IBIDEM, p. 102-103. 1 orna = 56,589000 lit. Cfr. A. MARTINI, op. cit., p. 827. 125 S. ZALIN, op. cit., p. 194. 126 V. VITOLOVIG, op. cit., p. 229. 127 G.F. TOMMASINI, op. cit., p. 102-103 128 D. MILOTTI, op. cit., p. 268. 129 B. BENUSSI, Manuale di geografia, storia e statistica del Litorale, Parenzo, 1903, p. 271; N. DEL BELLO, op. cit., p. 160. 130 AD, Documenti Buie, XIV-XVIII sec. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 89 “Ser.mo Principe Nel territorio di Bugie Terra uostra d’Istria si ha fatto questo ano un grandissimo racolto di uini e si fara ancho gran quandoli oglio si che se ne auanzara di gran lunga al bisogno di questo populo uolendo portar in questa Città di Venezia vino, et oglio che li sopravanza per poter trarne dinar socorer à suoi bisogni, poiche di queste due entrate sostenta et acrese li dati) di Vostra serenità, et gienera lomtia in questa città pare che le terre che hanno par(sic) che sono vicine cioè Citta Noua, Piran et Umago doue son costretti egli di Buggie imbarcar li vini et ogli per condur a quella città li uietino il poter imbarcarli si de portar quella città et li suoi datij et rouina quel pouero popolo onde ha preso parte nel suo consiglio li mandar me Zuane Barbo a Piedi di Vostra serenità a suplicarla che uoglia coneter ali Retori delle Terre predette se noi possiamo nelli loro porti imbarcar li uini et ogli nostri per condur in uostra citta et che uiuemo sicuri di ottenere noi che il transito si conciede anco i nemici ne” de i fidelissimi suditi di Vostra Ser.ta che uogliono condur le uituarie cogli utili, et cogli necessarie in questa su inclita et dominante citta”. Non è tardata a farsi sentire la risposta, a tratti furibonda dell’autorità veneziana, indirizzata ai podestà di Pirano, Umago e Cittanova! Infatti la per essi incredula vicenda è stata sentita con “uolta molestia all’animo nostro”. Per cui ’dobiate far dar alli popolli soprascritti di Buie in quel porto di vostra giurdicione ogni conuogliera di vaselli, et altro ciò che possano condure in questa città nostra vini ogli, et altre loro entrate ne mancarete di fare che questo ordine nostro habbia la sua intiera esecuzio- ne ne ci uenga intorno altro richiamo... et di far conoser il dispiacer che habbiamo preso di questo termine indebito senato ed li populli di Buie...” Cè tutta una serie di lettere interessanti che trattano delle difficoltà che i Buiesi avevano nello smerciare sia ad Umago che a Pirano o a Cittanova i vini da trasportare a Venezia, in primo luogo perché le legisla- zioni locali tutelavano e favorivano la produzione ed il commercio interni alle singole località. A questo diffuso protezionismo dei secoli XVI e XVII, Venezia rispondeva “che tutti li porti, et lochi nostri sono liberi à tutti li nostri sudditi per condur le robbe a questa nostra città”. Ancora, per evitare il contrabbando, s’introdussero delle bollette ordinarie, o let- tere di carico, sulle quali si annotava la quantità di vino — e di altri prodotti 13! IBIDEM. 90. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 - da inviare a Venezia, e questo soltanto poteva transitare per il territorio umaghese. I vini e tutti gli altri prodotti privi di tale documentazione, venivano tacciati di contrabbando. Così in una corrispondenza inviata nel 1534 al podestà di Umago Antonio Venerio!. Tale documentazione veniva rilasciata dal podestà con l’obbligo di esibire le relative controlette- re rilasciate a Venezia entro un mese. Tali obbligatorie disposizioni del senato erano in atto anche nelle altre località!**. I vini istriani avevano il vantaggio di sopportare molto bene il traspor- to marittimo. Ancora agli inizi dell'Ottocento a Venezia li si usava come vini da taglio per elevare la scadente gradazione dei vini locali. Qualche piccola quantità raggiungeva pure le lontane sponde olandesi!*. Verso la metà del XIX secolo si era tentata un’esportazione anche su altre piazze di mercato, per mezzo di una ditta che doveva venire istituita a Trieste, di modo che si superasse ed abbandonasse l’iniqua cifra di 40) carantani per un fassino di Vienna, fissata da ormai alcuni anni. Ma non se ne fece niente! Nel 1875 si tenterà | ‘esportazione in Francia!?, Bene o male, i prodotti enologici istriani mantennero una certa impor- tanza fino al 1852, quando 1 vigneti istriani, come pure quelli vicini friulani e veneti, furono colpiti dalla crittogama della vite, riducendo ad un quinto, un ottavo, un decimo ed anche a meno il prodotto, a seconda delle zone. Più della metà delle viti venne distrutta. L’attacco di maggiore intensità pare sia stato quello del 1859!” Ventuno anni dopo, sarà la filossera a compromettere la produzione vitivinicola, colpendo prima di tutto la valle di Sicciole, nel territorio di Pirano, e poi via via tutte le altre aree istriane!*8, 132 IBIDEM. 133 B. BENUSSI, op. cil., p. 272. 134 6. ZALIN, op. cit., p. 194. 135 B. STULLI, Istarsko okruzje 1825-69. /Il circolo d'Istria 1825-69/, Pisino-Fiume, 1984, p. 63. | fassino di Vienna = 56,589000) lit.; cfr. A. MARTINI, op. cit., p. 827. 156 p. VISINTIN, «NaGin gledanja: austrijska poljoprivredna politika» /Punto di vista: la politica agraria austriaca/, Istra: razliciti pogledi. Etnografske zbirke Istre kroz austrijsko-hrvatski dijalog /Istria: angolature diverse. Le collezioni etnografiche istriane attraverso il dialogo austriaco-croato/, Pisino, 2001, p. 84. 137 IBIDEM, p. 62; C. DE FRANCESCHI, op. cit., p. 224-225. 138 A.STEFANUTTI, «Najvedi neprijatelj naih vinogradah-filoksera u Istri» /Il maggior nemico dei nostri vigneti-la fillossera in Istria/ Stoljete vina 1901-2001. Doprinos kulturi vina u Istri /Il secolo del vino 1901-2001. Contributo alla cultura del vino in Istria/, Pisino, 2001, p. 70-71; D. VISINTIN, «Naéin gledanja», cit., p.85; IDEM, «Kratki osvrt na povijesni razvoj vinarskih podruma potetkom XX. st.» /Breve contrubuto allo sviluppo storico delle cantine vinicole in Istria/, Stoljece vina 1901-2001. Doprinos kulturi vina u Istri, cit., p. 63. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec.XVIXI X), Atri, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 91 Con le nuove piantagioni che si eseguirono per rimettere le viti perdute, ma anche per estendere i vigneti, complice pure l’elevato prezzo dei prodotti enologici, si introdusse il metodo della scelta e della selezione dei vitigni migliori, nonché i prodotti chimici per la lotta anticrittogamica. La scadente istruzione agraria, la difficoltà di reperimento di questi pro- dotti, la scarsa credibilità degli esperti, furono alcuni dei fattori per cui la lotta contro questa malattia non diede risultati immediati!*, Questi sono soltanto alcuni degli aspetti che rivoluzioneranno non sol- tanto l’agricoltura istriana dell’epoca, ma complessivamente intaccheranno tutto il settore primario europeo. Si svilupperanno la meccanizzazione agra- ria e la scienza agronomica, si diffonderanno le scuole agrarie, si organizze- ranno vari seminari e tavole rotonde, si stamperanno libri e periodici d’agri- coltura. Dei problemi agricoli si discuterà nelle varie associazioni e nelle accademie. Si svilupperà e si diffonderà il capitalismo agrario. Nella penisola, la situazione era tutt'altro che soddisfacente. I verbali delle sedute del Consiglio agrario provinciale nella seconda metà del XIX secolo indicano a chiare lettere che le dotazioni capitali all'agricoltura istriana erano scarne. Il sostegno politico pure. Questa situazione insoste- nibile viene chiaramente descritta dall’ex consigliere aulico del Ministero dell’agricoltura Mach nel 1895, durante un suo viaggio in Istria. Per moder- nizzare la produzione, diffondere il capitalismo agrario e far fronte alla concorrenza, i piccoli o medi proprietari terrieri erano costretti ad associar- si. Soltanto i maggiori proprietari terrieri, quali i De Franceschi di Seghet- to e di Umago ad esempio, i Gironcoli di Cittanova, o i benedettini di Daila, potevano far fronte a queste novità senza associarsi!‘°, Sono gli anni in cui a Parenzo si costituirà l’Istituto agrario provinciale, la Scuola agra- ria, la Società istriana di agricoltura, la banca agraria, e si diffondono nuove e più moderne tecniche di vinificazione, grazie all’opera di Carlo Hugues!*!, 139 B. STULLI, op. cit., p. 65. 140 p. VISINTIN, «Kratki osvrt», cif., p. 64. !4! p, VISINTIN, «Naéin gledanja», cit, p. 85. Cito inoltre M. ZANINI, «Istituto agrario provinciale dell’Istria-Parenzo. Centenario della Scuola agraria 1881-1981», contributo pubblicato nel periodico degli esuli di Parenzo che si stampa a Trieste, /n strada granda, 1982, alle pagine 29-36, e distribuito ai partecipanti all'incontro conviviale degli ex allievi dell’ Istituto tecnico agrario di Parenzo avvenuto a Cervignano del Friuli il 27 giugno 1982. Per gentile concessione del dott. Enrico Neami, a memoria dell’amicizia che mi legava al nonno, Enea Marin, nel cui archivio privato è stata rinvenuta la copia. 92. D.VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 51-126 La tecnica di vinificazione era rudimentale e scadente, come del resto in tutta la campagna veneta. La vendemmia era precoce. Le uve venivano perciò raccolte ancora acerbe ed immature, quasi sempre nella prima metà di settembre. Inizialmente, la si lasciava nei canestri per produrre un primo mosto mediante la compressione effettuata dagli strati superiori su quelli inferiori. Oppure la si lasciava esposta al sole per assorbire l’umidità della rugiada e della pioggia. Si conferiva così al vino rosso una più giusta colorazione. Tale operazione poteva venire effettuata soltanto nelle azien- de che disponevano di manodopera sufficiente, e di un’area estesa e sorvegliata dai furti campestri. “Alcuni, levata l’uva dalle vigne l’ottobre, la lasciano nei tinazzi, che cavicchi chiamano, una notte con le raspe, e la mattina cavano il mosto e questo pongono nelle botti; sovra le raspe gettano dell’acqua, e fanno il secondo vino, detto zonta da loro. Altri l’istesso mosto l’imbottano, come fanno a Momiano; ed in altri luoghi lo fanno ollire sette ovvero otto giorni, come a Piemonte, e Portole, e questi non fanno altre zonte, ma per le famiglie fanno vini con acqua, che chiamano scavezini, che sono buonissi- mi, e riescono dolci, e ciò al presente da molti si usa, chiamandoli vini alla lombarda, ma questi d’estate non durano; in alcuni luoghi come a Buie, diventando acetosi fan le zonte”!*. Queste zonte, vinello diluito, ottenuto utilizzando le vinacce frammiste ad acqua, era indirizzato ai lavoratori delle campagne, si inacidivano a primavera, e soprattutto a Buie ed a primavera, diventavano buonissimo aceto, probabilmente a causa dell’ac- qua. Caratteristica la produzione del cosiddetto moscato gentile, per la cui produzione l’uva veniva seccata per qualche giorno sulla tavola o sulla paglia. Seguiva la spremitura. Il mosto veniva lasciato a bollire coperto dai raspi per un giorno e mezzo. Il vino acquistava così l’odore e la soavità del moscato. A Buie se ne produceva una barilla su ogni dodici barille di vino!*. Il metodo della fermentazione non lo si conosceva a fondo. Essa veniva effettuata senza l’estrazione delle vinacce e terminava a primavera. Vista la mancata copertura dei recipienti, essa generava in tutti i vini veneti una forte acidità. Ciò soprattutto nell’Istria interna, nelle cui vigne 142 G. F. TOMMASINI, op. cit., p. 100. 143 IBIDEM, p. 100. D. VISINTIN, Agricolturae proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol XXXIV, 2004, p.51-126 93 si mescolavano diverse qualità di viti: buone e cattive, precoci e tardive. In tempi ancora più lontani si preferivano le uve di bassa e scadente qualità, purché dessero quantità al prodotto. La diffusione dei torchi era molto modesta, di solito si procedeva alla pigiatura con i piedi. Il vino veniva travasato a gennaio: così il Tommasini, nella fase di luna vecchia, il che permetteva una sua maggior conservazione nella stagione estiva. I vini venivano lasciati così allo stato genuino, in quanto non s’usava toccarli con alcuna conciatura. In quanto alle botti adoperate, erano tutte di legno, e secondo il presule emoniese venivano importate da Los Castello!*. Tutto il vino destinato al mercato spettava al padrone. I coloni e coloro che lavoravano i vigneti padronali non avevano altro diritto che di produrre le zonte. Le piante olearie punteggiavano fittamente i campi delle terre prossi- me al mare e di alcune aree particolari, soprattutto la Polesana, il Piranese, il Capoditriano, l’Isolano ed il Buiese. L’acclimatamento di questa coltura in Istria risale ad epoche remote. Salvo eccezioni, gli olivicoltori istriani non si sono molto allontanati dalla regola che voleva l’impianto di olivi a contatto con il clima mite marino, o al riparo dai venti lungo i declivi collinari, oppure in prossimità dei corsi d’acqua o di qualche laghetto. L’impianto specializzato sembrava sconosciuto, tranne forse in qual- che azienda signorile, ad esempio quelle dei conti Gravisi o dei nobili Verzi. Come rilevato già dalla Milotti, in grossa parte dei contratti da essa analizzati essi accompagnano la coltura della vite, oppure si trattava di ulivi soli! Così in alcuni accordi contrattuali da me esaminati. Talvolta esso appariva a promiscuo (biave e olivi, ad esempio). Nel Settecento comunque la pianta dell’olivo era parte integrante del paesaggio agrario e dell’organizzazione produttiva in cui prevaleva la coltura promiscua, fun- gendo il suo fusto anche da palo di sostegno delle viti. Gli alberi venivano scarsamente curati, vista la poca conoscenza non- ché istruzione in materia dei coloni o dei piccoli conduttori, ai quali veniva affidato il podere. Così il Tommasini: “Quanto alli olivari vengono gover- nati da questi popoli a questo modo. Si levano i rami secchi, e si tagliano i rami più folti, poi si curano dalle polle sin al piede, e si cavano quei solchi 144 IBIDEM, p. 100. 145 D. MILOTTI, op. cit., p. 268. 146 D. VISINTIN, «Paesaggio agrario», cit., p. 614. 94. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 vecchi dalle radici, e scoperto pongono un poco di letame, ovver terra nuova in alcuni luoghi magri. Li zappano intorno da febbraio sino maggio, e poi arano tutto il luogo, ove sono piantati. In alcune parti, e da diligenti, come Piranesi, Buiesi, e Capresani, la seconda volta li zappano; il tutto fanno con mediocre spesa e legger fatica... così resi in buona coltura fanno olio in abbondanza, ma un anno più dell’altro, talvolta due anni, e il terzo si riposano”! Di norma, la raccolta avveniva da S. Caterina (25 di novembre) a Natale. Se la quantità eccelleva, si proseguiva la raccolta anche fino a primavera. Le olive venivano raccolte in alcuni tinazzi affinché si maceri- no. Tale operazione veniva favorita dall’aggiunta di sale per spurgarle della morchia. Una volta trasportate negli oleifici pubblici, esse venivano poste nel bacile. Seguiva la frantumazione, per mezzo di una ruota mossa a traino d’animale!*. Questi i metodi di raccolta: la brucatura a mano, la scuotitura, la bacchiatura. Puliti e macerati i frutti, liberati pure della morchia, si passava alla torchiatura, effettuata sia nei torchi privati che in quelli pubblici, presenti in ogni comune e nelle ville. Era nelle intenzioni di Venezia dotare di torchi ogni podesteria. Va considerato che, vista l’importanza che la pianta e la produzione olearia andavano assumendo, le magistrature centrali dello Stato marcia- no tentarono di conoscere l’entità attraverso le obbligatorie notifiche, mediante le quali i titolari degli oleifici erano obbligati a registrare la quantità di olio lavorata ed ottenuta dalle singole imprese. A questo obbligo si sottraevano nel termine ultimo stabilito — il 31 di agosto di ogni anno — buona parte dei privati e delle comunità, nonché dei monasteri, causa la presenza di torchi abusivi. Venivano pure escluse dal conteggio le quantità di prodotto inferiori ad un certo livello, e quanto riservato ai consumi familiari. I dati sopra riportati peccano quindi per difetto. La legislazione veneta, così in un proclama del 6 febbraio 1766, compresa una missiva del Magistrato agli olii inviata a quello dei deputati, si proponeva due finalità fondamentali: l’ottima qualità ed il suo totale invio a Venezia. Da qui tutta la serie di pedanterie e normative tese al controllo della produzione e del commercio estero - il che comportava un 147 G. F. TOMMASINI, op. cit., p. 98. 148 IBIDEM, p. 103. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XTX), Arti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 95 aumento degli introiti dovuti al dazio del consumo - all’introduzione di nuovi impianti!‘ A tale scopo era stato istituito a Capodistria il Deputato sopra gli olii dell’Istria, che di comune accordo col Podestà e capitano giustinopolitano sovrintendeva in materia. Il numero degli oleifici attivi nell’Istria veneta variava a seconda delle stagioni e delle necessità. Erano complessivamente 134 nel 1779, dieci in più l’anno seguente, 149 nel 1781, 108 nel 1782, 90 nel 1784, 95 quello dopo, 17 nel 1787, 102 nel 1788, 122 nel 1796. Ad Umago negli anni 1779-80 di torchi ce n’erano 3, 5 l’anno seguente, nuovamente 3 dal 1784 al 1788 e nel 1796. Dal 1779 al 1782 a Buie erano attivi 5 oleifici. Ridotti a 4 unità due anni dopo ed a 3 nel 1785. Saranno nuovamente S dal 1786 al 1788, e 6 nel 1796. I torchi operanti a Grisignana nel 1779 erano 6, uno in più l’anno successivo, 5 negli anni 1781-82, nuovamente 7 due anni dopo, 5 nel 1785, 7 due anni più tardi e ben 8 nel 1796!°. Nella Nota dei torchi e torcoli da oliva ch’esistevano negli ultimi decenni del secolo XVIII nelle infrascritte città, terre, castella, contrade e ville della provincia dell’Istria, vengono elencati complessivamente 188 oleifici, di cui 62 nelle Città, Terre e Castella, e 126 nei rispettivi territori, ville, contrade. Nell’osservazione in fondo al documento si specifica che i torchi macina- vano al massimo 12 brente d’oliva alla volta, ossia qualcosa come 180-200 kg scarsi di frutta, da cui si otteneva una barilla d’olio, cioè circa 64 litri. I torcoli lavoravano con minore intensità, vale a dire da mezza a due brente alla volta, quindi avevano una capacità lavorativa che si aggirava sui valori grossolani che variavano dai 7 ai 30) chilogrammi circa. Non conosciamo la resa!!, La manutenzione dei torchi era costosa, e poteva esser affrontata soltanto da privato in possesso di grandi aziende o attraverso una compar- tecipazione delle comunità, che si addossavano in tal modo una parte dei costi. Per poter meglio comprendere l’andamento della produzione olearia e le oscillazioni soprattutto nell’ultima parte del XVIII secolo, bisogna 149 Intorno alle condizioni dell'Istria, cit, p. VI-72. 150 8. ZALIN, op. cit., p. 203-204. ISI «JI prodotto dell’olio d’oliva durante la seconda metà del secolo XVIII, e notizie relative», La Provincia dell'Istria, Capodistria, anno (sic.), p. 1040. Ringrazio il prof. Cigui, per la gentile concessione della copia. 1 brenta = ca. 14 - I6lit.; cfr. D. VISINTIN, «Contributo all'antica metrologia del Buiese», ACRSR, vol. XXVIII (1998), p. 618 e 628; 1 barilla veneta = 64, 385 900 lit. Cfr. A. MARTINI, op. cit., p. 818. 96 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 tener presente che nell’ambito dello stato veneziano le fasce olearie erano collocate ad una latitudine superiore ai 45°, al limite consentito per la diffusione di questa pianta. Perciò le flessioni climatiche potevano avere delle conseguenze traumatiche sulla coltura. In questo contesto si può ricordare la terribile moria del 1709, dovuta al grande gelo, le identiche difficoltà del 1715 e della metà del secolo. Seguì la ripresa ed il balzo in avanti della produzione fino agli inizi degli anni Ottanta. La ripresa comunque non fu costante, visto che si ebbero delle oscillazioni negli anni 1763, 1765, e le altalenanti basse produzioni dal 1765 al 1770. Ci fu allora il disastroso inverno del 1782, certamente il responsabile maggiore della ricaduta riscontrata l’anno seguente, ed una lenta ripresa fino alla fine del 1788 ed ai primi mesi del 1789, quando si presentò un’altra grossa gelata!” Il danno apportato da questa gelata era ingente, come risulta da una lettera del Deputato capodistriano sopra gli olii, del 15 luglio 1789: “L’orrido gelo della scorsa invernale stagione cagionò in Istria un riflessibile danno agli olivari.... Che negli anni precedenti, per una minor causa, sofferti avevano dei discapiti...in questo territorio (di Capodistria, n.d.a.) in alcuni luoghi interni della provincia e nella terra di Muggia per le osservazioni fatte e per le avute notizie sì fatta perdita si riduce a circa la metà delle piante. Nel restante poi dove il clima è meno rigido, le male influenze furono assai più moderate...”!, In una missiva del 17 novembre, Nicolò Balbi, futuro Podestà di Dignano, scriverà che “vi furono nove continui anni di siccità in Istria”! Il colpo era stato molto duro, visto che il veneziano Zuanne Totto fu incaricato a rifornire di olio d’oliva tutta la penisola, mentre a Rovigno numerosi proprietari di torchi chiesero degli storni nelle imposte o mino- razioni di dazio. Entrò in crisi anche il sistema delle notifiche, perciò fino al 1794 scarseggiarono le notizie sulla produzione olearia. In quell’anno si registrò un prodotto scarsissimo e di pessima qualità: complice pure la mosca olearia, poi combattuta dalla nascente scienza agronomica!. Riportiamo di seguito qualche esempio circa la produzione olearia nella prima metà del secolo in Istria. Nel 1739 i Rovignesi avevano dichia- rato un produzione complessiva pari a 550 orne di olio d’oliva, cosa a cui 152 S. ZALIN, op. cit., p. 205-206, E. APIH, op. cit., p. 124. 153 11 prodotto dell’olio d'oliva, cit., p. 1052. 154 IBIDEM. 155 S. ZALIN, op. cit, p. 206; E. APIH, op. cit., p. 124. D. VISINTIN, Agricolturae proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 97 non ci credeva molto il Podestà e Capitano di Capodistria, secondo la cui indagine “ne aveva fatto infallibilmente più di 3000, tremila!99. Stando agli scarni dati raccolti, nella seconda metà del Settecento la produzione olearia si aggirava sui 20.000 barili, (circa 12.800 ettolitri), ovviamente nelle annate di buona oppure ottima resa, con qualche punta- ta massima superiore. Negli anni Cinquanta del XVIII secolo si andava da un minimo di 7.591 ad un massimo di 18.257 orne. 24.438 le orne nel 1762. Seguì il brusco calo l’anno seguente, quando se ne produssero soltanto 1.033, per superare le 14 mila l’anno seguente. Fino al 1770 si produsse da un minimo di 4.315 orne nel 1778 ad un massimo di 11.622 l’anno dopo. La produzione supererà le 20 mila orne negli anni 1771, 1773 e 1778, ed era solida negli anni di mezzo. Nel 1789 si toccò il tetto dei 23.221,63 barili, per scendere nei due anni successivi ai 16.443,05, rispettivamente 15.523,94 barili. Seguirà una nuova impennata nel 1781, quando si produr- ranno 23.184,20 e ‘4 orne. Quindi altri anni di crisi, con soli 845,11 e mezzo barili l’anno seguente e 7.929 barili prodotti nel 1783. La lentissima ripresa proseguirà l’anno dopo, con gli 11.020,11 orne prodotte e le 11.403, 6 del 1785. Lievi scatti pure nel biennio 1786-87: 17.850, 51 e mezzo, rispettiva- mente 16.441,18 e mezzo le orne prodotti. Seguono nuovi anni di crisi. Nel 1788 si produrranno 5.636,95 orne. Più che dimezzata invece la produzio- ne nel 1789, con 2.321,4 orne indicate. Dopo un’ abbozzo di ripresa nel 1790, con 7.256,78 orne, la produzione rasenta il fondo nel 1791 con magre 1.050,88 orne e mezzo. Produzione soddisfacente negli anni 1792-93, pari a 10.215,32 e 14.798,70 orne. Seguirà un brusco calo nel 1794, viste le 3.068,12 orne ed una nuova ripresa nel 1795-96, quando la produzione toccherà le 15.316, 31 e mezzo!”. A Buie, territorio compreso, i dati risultavano come segue: 465 le orne prodotte nel 1758. Negli anni Sessanta la produzione andava da un mini- mo di 110 orne indicato per il 1763, ad un massimo di 1.105 segnalato l’anno prima. Nel decennio 1770-80 l’anno di minor produzione è stato il 1775, con 311 orne indicate, mentre quelli di massima sono stati il 1774 e il 1779, con 1.242 e 1.265 orne d'olio segnalate dalle fonti. Nell’ottavo decennio del secolo si segnalano le 1.468, 30 orne registrate per il 1781, 6,78 nel 1782, 209,76 nel 1783, 635,33 nel 1784, 684,77 nel 1785, 687,17 e 156 [j prodotto dell’olio d’oliva, cit., p. 1040. 157 IBIDEM, p. 1027-28 e 1052; S. ZALIN, op. cit., p. 195. 98. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atri, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 mezzo nel 1788, 714,69 nel 1788, 189,28 nel 1789, 500,52 l’anno seguente. Bassa la produzione nei primi anni novanta. Il decennio si apre con le sole 67,47 e mezzo orne del 1791. Seguono le altalenanti produzioni del trien- nio seguente: 550,56 e mezzo orne nel 1792, 875,11 nel 1793, e 306,44 e mezzo l’anno dopo. Nel 1795 si produrranno 1.112,67 orne e mezzo!” Nel 1758 nel Grisignanese si produssero 127,41 orne. La produzione aumenterà nel biennio 1761-62 rispettivamente con 214,95 e 359,84 orne. Dopo un ribasso nel 1763, quando si produrranno 31,70 orne, nel qua- driennio seguente, la produzione varierà dalle 100,20 alle 192,32 orne. Il triennio successivo è quello di massima: 806,43 le orne prodotte nel 1768 e 687,30 due anni dopo. In mezzo, le 234,26 orne del 1769. In seguito, la produzione varierà dalle 339,75 orne del 1771 alle 106,84 del 1780. Quindi si andava dalle 323,98 orne del 1781. Si registrerà un calo l’anno seguente con soli 3,37 barili prodotti contro i 129,47 del 1783 ed i 134,15 del 1784. 131,23 invece i barili prodotti nel 1785, 229,61 nel 1786, 197,42 e mezzo nel 1787, 189,90 nel 1788, 51,92 nel 1789 e 141,6 nel 1790. Risulterà più che dimezzata quella dell’anno seguente con 57,13 orne. Nel biennio successi- vo si supereranno abbondantemente le 200 orne. 121,4 e mezzo saranno le orne prodotte nel 1794, 312,16 nel 179519, Ad Umago si produssero nel 1758 210, 50 orne di olio d’oliva. Nel decennio 1761-70 la produzione si era mantenuta tra le 112 e le 187 orne, con qualche puntata minima inferiore, come nel 1763, quando si produs- sero soltanto 56,49 orne. Nel decennio seguente la produzione rivela una certa incostanza. Negli anni 1771 e 1773 le orne prodotte erano più o meno 200. Seguirà un ribasso l’anno seguente, con sole 86,6 orne prodotte, quindi un incremento con puntata massima nel 1779 quando si evidenzie- ranno 416,86 orne. L’anno seguente inizierà un nuovo calo, con 285,86 orne. Soltanto 11, 77 invece le orne prodotte nel 1782. Nel 1783 la produ- zione ammontava a 153,71 e ‘4 barili, contro i 249,64 dell’anno seguente, ed i 276,04 del 1785. Lieve calo nel 1787, viste le 210,71 orne registrate. Nuova impennata nel 1787, quando si toccherà il numero di 305,77 orne prodotte. Ulteriore calo negli anni seguenti: 130,41 orne nel 1788, 86,94 e mezzo, rispettivamente 88,39 nei due anni successivi. Si toccherà il fondo nel 1791 quando le orne annotate saranno soltanto 31,69. Dopodiché 158 IBIDEM. 159 IBIDEM. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol XXXIV, 2004, p.51-126 99 seguiranno due anni produttivi di tutto rispetto. Infatti nel 1792 si produr- ranno 274,54 orne, e l’anno dopo 301,54 e mezzo. Brusco calo nel 1794, visto che le orne allora prodotte erano soltanto 41,37 e mezzo. Ottima comunque la ripresa, visto che nel 1795 la produzione aumenterà di ben undici volte, raggiungendo il tetto delle 546,42 e mezzo orne prodotte!?. Come ben si nota, il numero degli oleifici attivi, e di conseguenza probabilmente anche quello della manodopera impiegata, variava a secon- da della produzione di olive da lavorare. Probabilmente variava pure la loro capacità lavorativa. Buie negli anni di massima vedeva aperti non più di sei oleifici, a Grisignana ce n’erano otto al massimo. Il numero degli oleifici aperti si riduceva negli anni di crisi a tre o quattro a Buie, mentre a Grisignana non ce n’erano mai meno di sei. In epoca veneziana, l’olio d’oliva istriano da esportare doveva neces- sariamente fare scalo al porto di Venezia, dove si pagava un diritto d’introduzione e consumo per lo Stato. Abbiamo già visto sopra delle difficoltà che i produttori buiesi dovevano superare quando si trattava di imbarcare il loro prodotto ad Umago, Cittanova ed a Pirano. L’olio di maggior consumo a Venezia era comunque quello pugliese: i Buiesi perciò preferivano esportare il loro prodotto nelle piazze friulane ed austriache. A questo proposito, il 20 marzo 1637, “vista l’istanza dei poveri sudditi di Buie di poter vendere vino ed olio ai Cranzi”, le autorità marciane conce- devano loro l’opportunità di vendere sia vino che olio ai confinanti vicini, previo versamento del dazio pari a due soldi per lira!. Che questo comunque non era poi tanto da considerarsi come un privilegio, lo dimo- strano anche alcune successive testimonianze. Nel 1729 l’olio istriano smerciato nel vicino Friuli sottostava al dazio di 8 soldi per libbra, ossia 15 per orna!’?, Tanto per avere qualche idea circa l'entità delle esportazioni in terra friulana, riportiamo qualche dato. Furono inviate 994 orne (circa 56 ton- nellate) pari a libbre tra il 19 novembre 1732 e il 18 novembre successivo. Entro l’aprile 1734 si smerciarono 540 orne (circa 30 tonnellate), ed entro il mese di ottobre dello stesso anno ulteriori 990 orne. Fino al successivo mese di maggio si spediranno ancora 564 orne da Capodistria (circa 31 160 Vedi nota 149. !6! D. MILOTTI, op. cit., p. 269. 162 11 prodotto dell'olio d'oliva, cit, p. 1041. 1 libbra grossa (in uso per l’olio d'oliva) = 0,476 999 kg. Cfr. A. MARTINI, op. cit., p. 818. 100 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 tonnellate), 368 (circa 21 tonnellate) da Pirano, e 894 (circa 50 tonnellate)!f3, Va ricordato ancora, che i produttori d’olio d’oliva dovevano versare il dazio alle autorità locali. Lo statuto di Buie, ad esempio, stabilisce che ogni produttore d’olio d’oliva “sia tenuto e debbi pagar al Daciario del Torchio per ogni centenaro, e lire otto d’oglio, dieci lire d’oglio, e le spese alli Forchieri..:?!% Il governo austriaco, succeduto alla Repubblica, non si attenne alla regola di cui sopra, che tuttavia sussisteva ancora a Venezia, perciò il prodotto venne deviato indirizzato alla piazza triestina, la più vicina ed in grado di distribuire l’olio in città e su altri mercati!95. Agli inizi del XIX secolo i barili prodotti erano 10.000'9. Nel 1842 circa la quinta parte della produzione olearia istriana era sufficiente al fabbisogno interno. Così le autorità circondariali istriane, stando alle quali il resto poteva liberamente essere destinato al mercato estero. Nel 1844 la produzione olearia istriana ammontava a 13.093 centinaia di olio (circa 740 tonnellate), per un utile totale di 247.676 fiorini!?”. Va rilevato che nel corso della prima metà del secolo erano riservati a tale coltura 7.625 iugeri di oliveti, il che significa che l’impianto specia- lizzato si stava lentamente ampliando, 5.932 iugeri di arativi olivati, e 6.837 iugeri di arativi vitati olivati!?8, Si darà inoltre spazio alle iniziative promozionali, tese alla diffusione della coltura olearia, ed all’incremento della produzione dell’olio da tavola. Ultima grande coltura storica in ordine di apparizione, la gelsicoltura rivestì grande importanza nel mondo dell’agricoltura istriana, soprattutto lungo il suo versante costiero occidentale. Essa fu iniziata durante il dominio veneziano. Alla metà del XVII secolo gli accenni ai morari, ma pure agli alberi da frutto, sono rarissimi!°”. Nei primi tre decenni del XIX secolo, soprattutto tra gli anni 1825-30, specialmente nei comprensori di Capodistria, Pirano, Parenzo, Rovigno, Montona e Buie!”, 163 IBIDEM. !64 IBIDEM; P.KANDLER, «Statuti municipali di Buie», cit., cap. 64; L’/stria, anno V, Trieste 1850, n. 39, p. 273. 165 Rapporto sull’Istria, cit, p. 23. 166 B. STULLI, op. cit., p. 66 167 IBIDEM. 1 centinaio viennese = 56,006000 kg. Cfr. A. MARTINI, op. cit., p. 827. 168 IBIDEM. 1 iugero = 5754,6437 mq. Cfr. A. MARTINI, op. cit., p. 827. 169 D. MILOTTI, op. cit., p. 271. 170 Rapporto sull’Istria, cit., p. 59, n. 26; D. VISINTIN, op. cit., p. 590. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 101 Agli inizi del XIX secolo il setificio era l'industria di maggiore incre- mento produttivo. Stando alle statistiche ufficiali, all’epoca del regno d’Italia la Provincia produceva 120.000 libbre grosse di bozzoli di seta (circa 60 quintali). Sessanta erano i fornelli in attività, di cui 28 nella fabbrica dei Baseggio a Capodistria!”!, Le modalità di allevamento dei bachi da seta erano comunque erro- nee'!”2. Già in epoca veneziana si era andati incontro a delle difficoltà. Allora non si era riusciti ad avviare l’allevamento bacologico, per cui le filatrici capodistriane e piranesi ad esempio, si riversavano sulla piazza triestina per l’acquisto del necessario. L’atrofia dei bachi da seta, a partire dal 1852, con ripetute ondate bloccherà l’espansione della coltura dei gelsi!?3, Strettamente connesse all’agricoltura ed all’allevamento erano la pa- storizia e l’allevamento, soprattutto nel Polese. A sud del Quieto vaste distese soggiacevano al dominio dell’erbatico!”. Come già sopra riferito, la mancanza di prati comportava la tenuta al pascolo di gran parte degli animali, salvo quelli da tiro. Unica eccezione Tribano, le cui vaste estese prative favorivano la tenuta di stalla. La pastorizia avrebbe dovuto compensare alla mancanza di altri gene- ri di prima necessità e favorire con la disponibilità di letami la crescita delle rese dei campi coltivati. Invece, l’allevamento non costituì una voce d’entrata rilevante nei bilanci economici della provincia!”. D’irrilevante importanza economica pure l’allevamento di altri ani- mali. Gli avvicendamenti colturali Per lungo tempo gli avvicendamenti colturali continuarono ad essere del tipo tradizionale e nel complesso depauperati, determinando un rista- gno produttivo. “Lavorano la terra con li bovi uniti ad un legno rozzo, che serve per 171 Rapporto sull’Istria, cit, p. 65, n. 39. !2 IBIDEM, p. 28. 173 C. DE FRANCESCHI, op. cit., p. 228. 174 S. ZALIN, op. cit., p. 184. !5 IBIDEM. 102 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 giogo, qual ha un legno lungo detto mangolino col ferro di un’ala sola per rivoglier li terreni”, scriveva il Tommasini. “Li bovi non hanno alla testa correggie o corde per essere guidati dal bifolco, ma così sciolti col giogo solo, vengono, gridandoli in slavo. Hanno li versuri, le ruote come in Lombardia, solo è diverso che il vomere ha un’ala sola”, L’aratura non era molto profonda, e per preparare i terreni ai semi- nativi si eseguivano fino a tre arature. Se le notizie sulla preparazione del suolo sono abbastanza minute, quelle sugli avvicendamenti colturali pec- cano. Nello studio della Milotti, si accenna all’affitto di un manzo in cui in cambio il contadino deve “far maggiadighe, seminare”!”. Il metodo a maggese a cui si accenna, consisteva nel far riposare i campi dopo l’anno del raccolto. È noto da queste parti anche come metodo dei novali'!?8. Ed era probabilmente l’unico metodo di conoscenza dei contadini, che per- metteva un uso razionale dei campi da semina. Il metodo dei novali era preferito anche perché i campi a riposo amministravano l’opportuno foraggio al bestiame. Con l’introduzione dei campi artificiali, si poteva supplire abbondantemente al foraggio necessa- rio, senza lasciare necessariamente i campi privi di seminagione nell’anno del riposo. Agli inizi del secolo XIX pareva invece prevalere il metodo della coltivazione alternativa delle colture, o rotazione agraria pluriennale. Ciò consisteva per esempio nella semina di frumento in autunno in un anno, e di sorgo rosso o di granoturco nella primavera di quello successivo. Il catasto L’amministrazione veneziana rimarcò a lungo la necessità di compila- re un catasto dei beni in Istria. Nonostante le numerose sollecitazioni del Senato, i funzionari veneziani nella penisola non riuscirono nell’intento. Così nel 1585 il provveditore Giacomo Renier afferma di esser riuscito a eseguire soltanto parzialmente l’ordinanza. Analoga fu la risposta del provveditore Nicolò Salamon, tre anni dopo. La soluzione venne quindi demandata al Capitano di Raspo e negli anni 1613-14 si era riusciti a 176 G. F. TOMMASINI, op. cif., p. 96. 17? D. MILOTTI, op. cit.,p. 270. 178 p. PREDONZANI, op. cit., p. 148. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atri, vol. XXXIV, 2004,p.51-126 103 provvedere alla catasticazione dei beni di Umago e di Cittanova. Dopodi- ché per oltre un secolo, a parte sporadici tentativi di successo, si ripropose inutilmente l’iniziativa!”?. I vecchi sistemi tributari seguivano la suddivisione dell’imposta per carati, contraddistinta da quote fisse attribuite a singoli enti territoriali: province, giurisdizioni feudali, comunità di villaggio, ecc. essi poi le ripar- tivano tra i contribuenti. Da un lato si attuava una sorta di decentralizza- zione del lavoro, sollevando le autorità centrali di alcuni incarichi, dall’al- tra erano inevitabili gli abusi delle oligarchie locali, le evasioni fiscali e la perequazione tributaria tra i singoli contribuenti. Dall’accertamento si esclusero quasi tutti i terreni comunali ed i fondi sterili. Inoltre nel catasto veneto c’era una netta distinzione tra fuochi veneti e fuochi esteri. I possessi erano intestati al direttario del fondo. I primi includevano i beni apparte- nenti ai veneziani, i secondi agli abitanti di Terraferma. I veneziani erano soggetti all'imposta detta campatico, quelli di Terraferma versavano pure le gravezze de mandato domini, ossia dadie, alloggi di cavalleria, ecc. C'erano poi altre imposte dirette di minore incidenza!90, L’Impero austriaco, con la pubblicazione del catasto teresiano nel 1752, si avvalse delle misurazioni dei pubblici periti, ed intestò i possessi all’utilista. Venivano misurati solo quei terreni che garantivano una certa rendita. Sia le rilevazioni catastali venete che quelle austriache avevano un carattere puramente descrittivo. Mancavano i rilevamenti catastali, ed erano possibili gli abusi!*!, Con la caduta della Repubblica, iniziò una nuova fase nella distribu- zione dell’imposta fondiaria. Si tentò, infatti, di uniformare il sistema tributario. Si tentò un nuovo censimento, rimasto incompiuto per le diffi- coltà opposte dai proprietari. Furono compilate soltanto le notifiche dei beni fondiari, anch’esse di carattere parziale, non essendo state raccolte tutte. Cessò il dualismo tra fuochi veneti e fuochi esteri, ed i terreni furono intestati al possessore. La riforma tributaria fu applicata anche dal successivo Regno italico. Nel 1806 esso predispose un primo estimo provvisorio. Si doveva da un 179 M. BERTOSA, «I catastici di Umago e di Cittanova (1613-1614). La modesta realizzazione di un grandioso disegno nell’Istria veneta XVI-XVII secolo)», ACRSR, vol. IX (1978-79), p. 413-487. 188 M. BERENGO, L ‘agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all'unità, Milano, 1963, p. 26 18! IBIDEM, p. 26-27; N. DEL BELLO, op. cit., p. 39-40. 104 D.VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 lato rispondere quanto prima alle esigenze finanziarie statali, dall’altro arrivare ad una maggiore perequazione fiscale. Tutto ciò fu concluso in meno di un anno, ma si arrivò soltanto al calcolo d’estimo del Regno, in base al quale ogni dipartimento doveva versare una parte del gettito complessivo della prediale, precedentemente stabilito. Le resistenze dei possidenti locali, le insufficienze degli antichi estimi, l’incompletezza delle notifiche austriache, il poco tempo a disposizione, non permisero una ripartizione proporzionale della quota fondiaria!*”. Si procedette allora alla realizzazione di un nuovo estimo catastale. Si rilevarono anche i terreni sterili, i beni demaniali e comunali, quelli dei superstiti enti ecclesiastici. Spariva l’indicazione poca terra. Le mappe vennero suddivise in particelle con numeri progressivi per i possessi e lettere per i luoghi pubblici inclusi nel cosiddetto sommarione. Nelle Province illiriche ammontare dei gravami rimase invariato per tutto il periodo della loro esistenza! Ciò provocò un enorme deficit delle entrate, che non fu del tutto colmato nemmeno con il versamento degli arretrati, inventati anche là dove non ce n’erano. A seguito di controlli e verifiche varie, si notò l’ineguale distribuzione tributaria. Seguì la soppressione di alcune imposte. In via del tutto provvi- soria furono mantenute soltanto quelle sulla carne, sui cavalli di lusso, e sui diritti ereditari. Abolite pure le decime del clero. Le difficoltà rimasero, e le autorità furono costrette a chiedere ai proprietari più ricchi un prestito forzoso per procedere al versamento delle pensioni e degli altri trattamenti, al quale non sottostavano coloro che avevano un reddito inferiore ai 6.000 fiorini. Con l’entrata in vigore delle nuove imposte, nel 1811, s’iniziarono pure le riforme. A seguito di numerosi ricorsi, causa l’ineguale ripartizione dell’imposta fondiaria, si ne decise una nuova, basata sul catasto degli anni 1785-86, o sugli elenchi del 1810, dove esso mancava, oppure, in assenza di entrambi, su basi fissate dalle commissioni!84. Si andava ormai verso una nuova concezione della ricchezza fondia- ria, anche se gran parte del lavoro restava ancora da svolgere. Mancava il classamento, la classificazione dei terreni, le tariffe d’estimo, la perequa- 182 M. BERENGO, 0p. cit., p. 27. 183 M. PIVEC-STELE?, La vie economique del Provinces illyriennes (1809-1813), Parigi, 1930, p. 221. 184 IBIDEM, p. 223. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 105 zione fondiaria. Sarà questa la via seguita dal governo austriaco. Con la patente imperiale del 23 dicembre 1817, l’imperatore dispose la realizza- zione di un nuovo sistema fiscale. Gli estimi provvisori, tenuti in vita dagli austriaci, continuarono a provocare ritardi nell’esenzione delle imposte, con reclami e ricorsi dovuti alla sperequazione nella distribuzione del carico tributario!*5. Furono sottoposte all’imposta fondiaria tutte le superfici produttive e gli edifici. Il territorio venne suddiviso in dipartimenti economici capeggiati dai commissari d’estimo, a loro volta soggetti all’autorità di un ispettore. Quest'ultimo era soggetto all’I.R. Commissione provinciale per la rettifi- cazione delle imposte nel Litorale. Furono misurati i terreni, portato a termine il rilevamento cartografi- co, compilati i Questionari in base alle istruzioni governative degli anni 1826-29. Conclusa la compilazione degli Operati d’estimo, la Commissione provinciale venne soppressa!*°. Alla fine del 1830 si emanarono la Circolare e le Istruzioni, necessarie al calcolo dei prezzi di tariffa, indispensabili al calcolo della rendita lorda in denaro!!”, Per calcolare la produzione media dei terreni in un’annata mediocre, era necessario analizzare tutte le circostanze, favorevoli e non, che avreb- bero potuto esercitare qualche influenza sui raccolti. Perciò le rappresen- tanze comunali e il commissario d’estimo dovevano indicare tutti i dati circa la produzione per un elevato numero di anni. Rilevato il prodotto lordo, il commissario doveva esporre i risultati finali delle ricerche compiute in ogni singolo comune del proprio circondario economico nell’Operato d’estimo catastale, alla presenza dell’ispettore cen- suario. Si allegava pure il protocollo di classamento. Il fascicolo riassuntivo veniva introdotto da una descrizione topografica e statistica del comune!*, La prima parte dell’ Operato d’estimo ricalca la struttura del Questio- nario, espressione degli intendimenti del ceto possidente locale, sottoli- neando gli aspetti negativi dell’agricoltura locale. 185 M. BERENGO, 0p. cit., p. 42. 186 IBIDEM, p. 43; F. BIANCO, «Agricoltura e proprietà fondiaria nel Territorio di Monfalcone (1740-1840)», Contributo perla storia del paesaggio rurale nel Friuli-Venezia Giulia, Udine, 1981, p. 466. 187 F. BIANCO, op. cit., p. 496. 188 AST, Elaborati del catasto franceschino, distretto di Buie. 106 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XTX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 Definito il prodotto lordo in denaro per unità di superficie, si detras- sero le spese di coltivazione di comune impiego, riservate alle semine ed ai lavori agricoli, le spese straordinarie ed i maggiori profitti che alcuni possidenti avrebbero ricavato, i costi sostenuti per l’acquisto dei concimi, gli obblighi verso terzi, ecc. Perciò era necessario utilizzare le indicazioni ed i dati contabili rela- tivi ai rapporti economici, alle forme di utilizzazione del suolo, al regime contrattuale in vigore, e al costo della manodopera, raccolti in precedenza. Lo scopo era anche quello di giungere ad elaborare valori uguali per tutto il circondario economico ed amministrativo. I risultati si conclusero nel 1838, con la pubblicazione dei Prospetti dei generi di coliura e classi rettificate. Fu così compiuto un deciso passo avanti con la definizione delle classi in cui ogni tipo di coltura doveva essere suddivisa a seconda della fertilità e produttività dei terreni (classificazione). Alcune particelle campione per ogni classe di qualità di coltura vennero scelte per passare al classamento — ovvero l’attribuzione di una classe a tutti i mappali del comune - tramite il confronto con gli appezzamenti tipo. Si voleva così evitare la stima dei singoli appezzamenti ed attribuirne una a ciascuna classe, mediante l’esa- me di alcuni campioni, fino a giungere alla tariffa d’estimo o rendita netta espressa in fiorini per ogni iugero di ciascuna qualità e classe del terreno. Per giungere a ciò era necessario un grande lavoro preparatorio. Si doveva raccogliere, per ogni singolo comune, tutta una serie di notizie riguardanti la situazione economica, le pratiche agricole, i contratti in uso. Venne perciò incaricata ogni singola Deputazione comunale a rispondere al Questionario, suddiviso in due inchieste. La prima, le Nozioni generali territoriali, era suddivisa in ventotto punti: monete, pesi e misure (1-7), clima e natura del terreno (8-9), prodotti principali (10), stato degli agri- coltori (11), bestiame, foraggi e concimi (12-13), pascoli e diritti di pascolo (14), boschi (15), decime, quartesi ed altri oneri (16), acqua (17), strade (18), case coloniche (19), appoderamento (20), contratti agrari (21-26), conduzione diretta (27), valore capitale dei fondi (28). Le Nozioni agrarie di dettaglio erano incentrate sulle tecniche agricole, esaminate secondo la qualifica dei terreni. Era compito delle delegazioni comunali portare a termine i prelimi- nari per l’estimo censuario, ovvero la determinazione dei generi di coltura, la classificazione, il classamento dei terreni ed ilrilevamento deiprezzi dei D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 107 generi del 1824, individuato precedentemente attraverso i mercuriali degli ultimi cinquant'anni, come periodo di massima caduta dei prezzi. Le risposte al Questionario erano puramente indicative, e significava- no un primo sondaggio sulla condizione economica e produttiva di ogni singolo comune. Con l’entrata in vigore del nuovo catasto, si modificò radicalmente la struttura del prelievo fiscale fondato sull’imposta fondiaria. Venne risolta l’annosa questione relativa all’intestazione della proprietà assoluta dei beni fondiari, intestati al percettore del reddito agricolo, mentre successi- vamente, con l’emanazione delle Leggi sull’esonero del suolo (1848), ven- nero derogati i diritti feudali che ancora gravavano sui terreni. Il lungo iter catastale metteva a disposizione degli uffici competenti l’eterogeneo e variegato materiale documentario, di notevole interesse storico ed econo- mico. La produttività dei terreni Per poter capire l'ammontare rendita delle superfici agrarie, almeno sommariamente, in mancanza d’altro, ci siamo rifatti a quanto riportato dai funzionari del Catasto franceschino. Il censimento delle piante, l’analisi della produzione ed il calcolo della rendita fondiaria possono essere fatti sulla base dello spoglio della contabilità aziendale, oltre che sulla base delle analisi dei terreni e dell'indagine sul campo. La dove ciò non è stato possibile, si era preso atto delle dichiarazioni delle rappresentanze comunali. Evidentemente i rappresentanti comunali sia nelle risposte al Questionario sia nei loro reclami susseguenti alla prima definizione dell’estimo, cercarono di amplificare i fattori negativi dell’econo- mia agricola e di minimizzare quelli positivi proponendo coefficienti di rendita in alcuni casi palesemente infondati. Tutto ciò al fine di ridurre l’imposta esatta per ogni genere di coltura e per ogni classe. Di conseguenza, gli ufficiali del catasto, per confutare le dichiarazioni dei proprietari, e per stabilire criteri uniformi nella valutazione della produttività dei terreni e nell’individuazione della rendita, operarono da un lato assumendo come elementi base le dichiarazioni dei coltivatori diretti peri risultati delle loro operazioni sul campo. Dall’altro compararono i risultati finali di tutti i comuni censuari appartenenti al medesimo distretto che presentavano 108 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 caratteristiche simili sia per quanto concerne la situazione geomorfologica e la fertilità dei terreni, sia per quanto atteneva i sistemi di coltivazione. Elemento base da cui partire era quello di stabilire nello specifico i metodi colturali, l'ampiezza delle rotazioni agrarie, la sistematicità o meno delle letamazioni e gli strumenti impiegati, nonché la successione delle colture in una unità di superficie assunta come modello per ogni genere colturale e per ogni classe, aratorio nudo, aratorio arborato vitato, arato- rio arborato olivato, vigneti, vigne olivate, oliveti, prati. Ottenuti i valori medi annuali della produzione, stabilito un prezzo medio dei prodotti agricoli calcolato in riferimento ai valori medi del 1824 (in realtà era stata considerata la mercuriale del 1827), venne individuata la rendita lorda da cui, operate le detrazioni per le spese di coltivazione e per quanto era stabilito dalla patente imperiale, veniva fissata la rendita netta su cui agiva la tassa fondiaria. Un primo elemento su cui basare le analisi era costituito dall’assun- zione come parametri per le prime indagini istruttorie erano gli avvicen- damenti colturali. Fra le rotazioni colturali, vennero considerate quelle che prevedevano un ciclo di due, quattro, sei oppure otto anni. Erano le più diffuse. La letamazione dei campi avveniva ogni due, quattro, sei oppure otto anni. Essendo quella seiennale la rotazione maggiormente diffusa, ci avvalleremo di essa per capire come avveniva questa operazione, per la quale ogni comune usava quantità diverse di letame. A Grisignana si consumavano due cento centinaia di letame per iugero, a Petrovia ed a S. Lorenzo 160!%°, C'erano poi dei campi che non erano interessati dalla concimazione. Ad esempio, alcuni terreni di Petrovia soggetti alla rotazione biennale, e di Grisignana. In quanto a provenienza del concime, si trattava di escrementi anima- li, di strame delle paglie e di cereali, del foraggio rifiutato dagli animali. Già da questi elementi si può dedurre che la produttività dei terreni, la successione dei cereali e, conseguentemente la rendita, non erano uguali dappertutto. Se i grani prevalevano in pianura, in collina e nella regione marittimo- costiera, tuttavia delle differenze esistevano all’interno delle singole aree. 189 IBIDEM, b. 276, comune di Grisignana; b. 428, comune di Petrovia; b. 551, comune di S. Lorenzo. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 109 Così ad esempio nella zona collinare Grisignana prevaleva con una pro- duttività per iugero di dieci metzen di granoturco e di frumento negli arativi su Buie, che presentava una quantità di cinque, rispettivamente sei metzen per iugero di dette colture, e Piemonte, con quattro metzen e mezzo su ogni iugero!”, In pianura, Matterada produceva nove metzen su ogni iugero di arati- vo nudo di frumento e undici di granoturco, Petrovia quattro iugeri e mezzo della prima e cinque iugeri e mezzo della seconda coltura!”. A S. Lorenzo, sul mare, si registra la produzione più bassa, con quattro metzen per ogni iugero di arativo nudo di ambedue le colture. Così se consideriamo soltanto la produzione media!” Se però ci limitiamo a considerare la rotazione con letamazione ogni sel-otto anni e con la successione colturale frumento-granoturco per tutto l'arco di tempo, mentre si consolida la prevalenza dell’area collinare interna sulle altre due, si possono notare delle differenze interne. Così a Buie si trova una rendita naturale totale di quaranta metzen di granoturco, con una produzione delle due colture che va lentamente diminuendo nel corso degli anni. A Grisignana il rendimento dei terreni è pari a ventuno metzen nel corso dei sei anni per ambedue le colture, maggiore nei primi due, minore alla fine della rotazione!*3. Molto equilibrata invece la produzione delle due colture nella fascia pianeggiante. A Matterada e Petrovia, il totale della produzione nel corso dei sei anni è di ventiquattro metzen per ambedue le colture. Lo stesso discorso vale per S. Lorenzo!. Evidentemente le differenze di classificazione delle medesime colture comportavano una variazione nei rendimenti e nelle produzioni, anche consistenti. Così ad esempio a Grisignana, per quanto concerne gli arativi nudi in collina la produzione di frumento dei terreni di prima classe era superiore rispetto a quelli di seconda e di terza classe. Vale lo stesso discorso per gli arativi vitati arborati e per gli uliveti semplici!*. 190 IBIDEM, b. 73, comune di Buie; b. 276, comune di Grisignana; b. 434, comune di Piemonte. 191 IBIDEM, b. 341, comune di Matterada; b. 428, comune di Petrovia. 1 metzen (mezzeno) = 61, 486850 lit. Cfr. A. MARTINI, op. cit., p. 827. 192 IBIDEM, b. 551, comune di S. Lorenzo. 193 IBIDEM, b. 73, comune di Buie; b. 276, comune di Grisignana. 194 IBIDEM, b. 341, comune di Matterada; b. 428, comune di Petrovia; b. 551, comune di S. Lorenzo. 195 IBIDEM, b. 276, comune di Grisignana. 110 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 La produzione dei campi arativi vitati non presenta sostanziali diffe- renze tra i vari territori. A Grisignana ad esempio su milleseicento k/after di questa coltura mille trecentotrentacinque erano occupati dai grani, il resto dalle viti nella prima classe dell’area carsica. Non ci sono sostanziali differenze rispetto alla seconda classe e nemmeno nei confronti dei terreni di tassello!” Si possono notare delle differenze nella produzione e nei rendimenti. Così ad esempio la produzione di Grisignana era minore di quella di Buie, ma maggiore di quella di Piemonte nei terreni di prima classe. A Mattera- da, nella fascia pianeggiante, la produzione era più bassa rispetto a quella di Petrovia, ma superiore a quella di S. Lorenzo!”?. Le vigne a palosecco erano un'esclusiva delle colline, ed erano presen- ti a Grisignana, dove si produceva un vino nero di unica qualità. La diffusione degli uliveti semplici riguardava soltanto l’arca collina- re e quella marittimo-costiera. Rilevante era la predominanza delle colture interne su quelle costiere nella prima classe degli uliveti. Difatti, a Buie c’era una rendita lorda di 164,56 funti, a Grisignana di 110,16 funti, a Piemonte di 94 funti per ogni iugero di superficie!®, Il prodotto dei prati prevaleva pure in collina. A Buie si producevano 22,50 centinaia annuali di fieno dolce, a Grisignana ed a Piemonte 18, a Petrovia 16,20 ed a S. Lorenzo 7,20!” Negli arativi vitati arborati, le viti venivano piantate a gruppi in filari simmetricamente disposti Gli aggravi dei fondi Come è già stato sottolineato, nel territorio di nostro interesse preva- leva la piccola proprietà terriera. A volte si trattava di minuscoli fazzoletti di terra, o di orti e che circondavano le località e dividevano le case. 19 IBIDEM. 1 klafter = 3,596652 mq. Cfr. A. MARTINI, op cit., p. 827. 197 IBIDEM, b. 73, comune di Buie; b. 276, comune di Grisignana; b. 341, comune di Matterada; b. 428, comune di Petrovia; b. 434, comune di Piemonte; b. 551, comune di S. Lorenzo. 198 IBIDEM, b. 73, comune di Buie; b. 276, comune di Grisignana; b. 434, comune di Piemonte; b. 551, comune di S. Lorenzo. 19 IBIDEM, b. 73, comune di Buie; b. 276, comune di Grisignana; b. 428, comune di Petrovia; b. 434, comune di Piemonte; b. 551, comune di S. Lorenzo. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 111 Qualche volta si trattava di un possesso, o dominio utile, contrassegnato da gravami, oneri censi ed aggravi vari che, rendendo difficile l’individuazio- ne dei titoli di proprietà, erano d’impaccio al godimento pieno ed assoluto del possesso, contribuendo ad intralciare l'espansione dell’economia agri- cola. I feudi ancora esistenti, intestati a famiglie d’antica residenza, vanta- vano un diritto di decime sopra le rendite dei beni utilizzati da secoli da singoli privati. Queste famiglie, unitamente agli enti religiosi, godevano pure dei titoli giurisdizionali, e spettava perciò a loro l’amministrazione della giustizia civile e criminale nei territori di loro competenza. Esse vantavano pure titoli di possesso su terre sfruttate dalla collettività o lavorate dai privati. Nelle loro mani finivano pure alcuni oneri consuetu- dinari: primizie, decime, quartesi, decime degli animali, testatici, la marca, la tassa sui focolari, varie regalie, i pedaggi stradali, il divieto di vendere il vino nel periodo riservato alla vendita dei prodotti padronali°. Gravava- no sulle teste dei contadini il lavoro gratuito imposto sui beni allodiali, la manutenzione delle case, ecc. La documentazione archivistica ed altre fonti indicano la presenza di oneri feudali anche nel territorio di nostro interesse, sede di alcune fra le più importanti ed antiche giurisdizioni feudali istriane. Ma come ben si vedrà, si trattava di oneri di diversa origine, spettanti pure alle istituzioni religiose, ai singoli privati ed ai comuni. Mentre diverse imposizioni sui prodotti, spettavano pure a Venezia. La Signoria di S. Giovanni della Cornetta, la più antica giurisdizione feudale in Istria, sita in quel di S. Lorenzo, concessa in feudo a Francesco de Guerci (Verzi) di Capodistria dal patriarca Ulderico I, fu di seguito confermata dalla Repubblica marciana. I conti Verzi incameravano la prauda, consistente in dodici staia di frumento ed altrettante di avena, pari a complessivi nove quintali circa, e la decima su tutti i prodotti che dovevano essere ripartiti tra tutti i possidenti?! La giurisdizione feudale di Piemonte incorporava pure Castagna e Bercenegla. Consisteva di giurisdizione e decime, giudizio civile e crimina- le, eccetto le appellazioni e le pene di sangue, riservate al reggimento di 200 «Continuazione del rapporto sull’Istria presentato il 17 Ottobre 1806 al Vicerè d’Italia dal consigliere di stato Bargnani», p. 13; G. DE TOTTO, op. cit., p. 61-62. . 201 AST, Elaborati del catasto franceschino, b. 551, comune di S. Lorenzo; G. DE TOTTO, op. cit., p. 64. 112 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XITX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 Capodistria. In possesso ai Contarini fin dal 1530, il Castello incamerava la decima parte del prodotto dei grani e dell’uva, per cui ciascun viticoltore si vedeva costretto a corrispondere uno spodo di vino di boccali, pari a 27 litri circa. I proprietari di buoi erano costretti a corrispondere ai feudatari uno staio di frumento, e due terzi di staio di avena (una cinquantina di litri (2070 liga Il Capitolare momianese concedeva al castellano di amministrare la giustizia civile “solamente secondo la bontà sua uera”. Era suo obbligo registrare tutte le sentenze da esso pronunciate, affinché gli interessati possano ricorrere in appello al Podestà di Pirano, al quale spettava pure la giustizia criminale. I proprietari terrieri di Momiano erano obbligati a corrispondere annualmente cinque coplenici di frumento, un coplenico colmo di biade, due orne di vino. Quindi lire 300 da piccoli per i masi soggetti, rabotte quali la consegna di una soma di legna da ardere per natale, varie prestazioni d’opera per la manutenzione del castello e del torchio. I proprietari di buoi da lavoro dovevano versare due coplenici di frumento ed uno di biade, se ne possedevano più di due erano esentati dal versamento. I proprietari di animali minuti, caprini compresi, dovevano consegnarne uno su dieci capi. Ed erano obbligati a versare la decima parte di frumento, biade, legumi e vini. Ciò valeva sia per Momiano che per gli abitanti della villa di Berda. Da consegnare pure il latte ed il formaggio una volta sola a maggio, la lonza del maiale. Se si macellavano gli animali, andava consegnata la lingua. I proprietari di cavalli erano obbligati a portare gratuitamente la biade ad uso del castello al mulino. I proprietari di aratri erano obbligati a lavorare la terra del castellano per tre giorni all’anno, “dando tre aradure per cadaun”, mentre i proprietari di carri dovevano necessariamente a trasportare per conto del castellano la biade, la legna, le sementi. Era vietata la vendita dei vini entro la festività di S. Stefano, se il castellano non aveva piazzato ventiquattro orne di vino. In caso contrario, tutti potevano piazzare ventiquattro orne di vino, a prezzo conveniente e giusto?3, Anche il mugnaio era destinato a lavorare gratuitamente la biade del Castello. 202 AST, Elaborati del catasto franceschino, cit., b. 434, comune di Piemonte; G. DE TOTTO, op. cit., p. 64. ] staio veneto = 83,317 200 lit. Cfr. A. MARTINI, op. cit., p. 818. 203 AP, capitolare di Momiano del 1521. 1 coplenico = 56 kg. Cfr. Z. HERKOV, «Kupljenik — stara hrvatska mjera» /Il coplenico — antica misura croata/, VHARP., vol. XVI (1971), p. 215 — 260. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol XXXIV, 2004, p.51-126 113 I villani di Berda?” erano soggetti alla consegna di due coplenici di frumento, altrettanti di biade, ed un’orna e mezza di vino, ventidue denari, e prestazioni d’opera identiche a quelle dei momianesi. Per ogni manzo in possesso, si doveva versare quattro coplenici di frumento. Si era esentati se si possedeva più di una coppia. Il Castellano visitava quattro volte la villa a spese della collettività. Vi si tenevano li due fiere, annuali, ed in conseguenza di ciò gli spettavano due soldi per ogni bottega ed osteria operante, ed uno per ogni rosticceria. Venuta la proprietà in mano ai conti Rota, quelli di Berda dovevano corrispondere ai nobili la decima sui prodotti del suolo, sui caprini ed ovini, uno ogni dieci capi. Per i prodotti del suolo corrispondevano la decima parte delle granaglie, delle biade, dei legumi e dei vini, nonché un decimo ed un trentottesimo di libbra (mezzo chilogrammo circa) per ogni carico di olio. I possidenti agricoli dovevano corrispondere quattro cople- nici di frumento ed altrettanti di biade?®. Annoverati pure i diritti piccoli, come segue: una soma di legna da corrispondere a Natale, latte e formaggio alla metà del mese di maggio per un giorno solamente, la lonza di ogni suino tenuto nella stalla, la lingua di ogni manzo e mucca che venivano macellati?”, Stando agli E/aborati del catasto franceschino, essi dovevano corrispon- dere ai nobili due terzi di staio di frumento, un terzo di staio di avena, quattro giornate di aratura e tre di condotte all’interno del comune, mentre ogni famiglia doveva corrispondere annualmente quattro rabotte?”. Sempre in quel di Berda, la contrada di Sorbar versava annualmente ai conti Grisoni di Capodistria la decima su tutti i prodotti granari, sul vino e sugli animali lanuti, nonché la prauda in frumento, avena pollame, carne porcina e denaro contante? Quelli di Bercenigla versavano al castellano la decima dei frumenti e dei vini”, 204 IBIDEM. 205 AST, Esonero del suolo di Trieste, b. 94, feudo di Momiano, fasc. 431. Tutti gli oneri sono stabiliti dall’Istromento d’acquisto del 27 gennaio 1548, dal Capitolare 5 agosto 1521, specificato dalla sentenza tridentina del 17 giugno 1535, dalle investiture del 1633, del 20 luglio 1782 e del 16 settembre 1795, nonché dalla liquidazione dei beni del 16 giugno 1768. 206 IBIDEM. 207 AST, Elaborati del catasto franceschino, b. 152, comune censuario di Berda. 208 IBIDEM. 209 AP, Capitolare, cit. 114 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atri, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 Anche i comuni maggiori vantavano diritti sul contado, in virtù delle antiche relazioni esistenti tra città e campagna. Matterada ad esempio era sottoposta a diversi aggravi imposti dal comune di Umago a titolo di signoria: uno staio e mezzo di frumento (130 chilogrammi circa) per ogni giornata di aratura seminata a grano da spiga a titolo di terratico, la decima dell’uva in natura, quarantasei carantani per famiglia, mezzo ca- rantano per ogni tipo di bestiame lanuto?!°, La comunità di Buie percepiva la decima parte di tutti i prodotti al suo interno ed i canoni a titolo di locazione ereditaria a Crassizza. A tali aggravi a Carsette si affiancava la decima terratico. Ancora, nelle sopraci- tate località, quella di Buie percepiva pure i censi enfiteutici (affitti fer- mi). Decime e quartesi spettavano anche al clero ed al vescovo di Cittano- va. Quest'ultimo riscuoteva la decima a Buie, Carsette, Crassizza, Tribano. Così pure il capitolo di Buie?!?, La decima non aveva lo stesso valore dappertutto: mentre a Buie, Cittanova e Verteneglio il suo valore corrispondeva alla nona parte dei prodotti, in altre località essa ammontava ad un quinto dei prodotti?!?. Il parroco di Grisignana riscuoteva annualmente il quartese, consi- stente nella quarantesima parte delle granaglie e dell’uva dei beni situati sui fondi campestri esistenti all’interno della comune?. Ad Umago, la Chiesa parrocchiale percepiva la decima parte di tutti i prodotti su di un’estensione di duecento campi di terra circa, ammendata di biennio in biennio. Finivano nelle casse ecclesiastiche pure i censi fissi di varie ditte con l’importo annuo di 68 fiorini e 3 carantani, i canoni fissi sui fondi campestri a titolo di canone annuo equivalente a 33 fiorini e 41 carantani, e l’importo di 33 fiorini e 3 carantani per conto della confrater- nita del SS. Sacramento. I proprietari degli oleifici erano obbligati a corrispondere annualmente una quantità variabile di olio d’oliva, equiva- lente ad una rendita annua di 60 fiorini circa. Al capitolo umaghese ed alla Parrocchiale i canoni perpetui. Prestazioni perpetue erano di pertinenza 210 AST, Esonero del suolo di Trieste, b. 166, fasc. 768; G. DE TOTTO, op. cit., p. 100. 21! AST, Elaborati del catasto franceschino, b. 95, comune di Buie. 212 AST, b. 31, fasc. 96-98; b. 32, fasc. 99-104; P. KANDLER, «Qualcosa sui comuni ecclesiastici», L'Istria, anno V, Trieste 1850, n. 38, p. 273-274. 213 P. KANDLER, «Qualcosa sui comuni ecclesiastici», cit., p. 273. 214 AST, Esonero, cit, b. 86, fasc. 379. N. VISINTIN, Agricolturae proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atri, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 115 pure del parroco, in qualità di amministratore dei benefici della Chiesa della Beata Vergine Addolorata, ed i canoni in natura?!, A Berda, il parroco ed i suoi collaboratori pro tempore incassavano annualmente il quartese sui grani, sul vino e sugli animali minuti?!, Anche diversi singoli privati fruivano della decima. Ad esempio la famiglia Vardabasso di Buie, che riscuoteva la decima parte su tutti i prodotti su di una proprietà sita in contrada Cavisan, nei pressi di Buie, e su di alcuni fondi posti nella Valle dell’inferno a Tribano, concessi in enfiteusi?!”, Giovanni Marzari perccpiva alcune decime a Crassizza?!*. Nell’Umaghese possiamo indicare quali percipienti di oneri Maria e Giuseppe De Franceschi di Umago, Luigi e Giorgio De Franceschi di Seghetto, Giovanni Balanza di Umago, Antonio Danzevich di Gelsa, in Dalmazia?!. Non vanno infine dimenticati i numerosi dazi che gli interessati erano obbligati a versare alle comunità ed alla Serenissima: il dazio del vino, dell’olio, della legna, per i buoi, ecc. Alcune località prevedevano dazi particolari: a Capodistria ed a Dignano si pagava il dazio sull’imbottatura. C'era poi il dazio d’entrata delle merci a Venezia, ed il dazio per terre aliene, riservato al commercio estero??0. Si trattava quindi di tutta una serie di imposizioni che rendevano precarie le condizioni dei contadini che si vedevano così ridimensionare le entrate, dell’agricoltura istriana, abbarbicata nelle sue condizioni di arre- tratezza. Tutto ciò non favoriva certamente gli investimenti, e si accentua- vano i limiti strutturali del sistema produttivo, vista pure l'estensione dei terreni produttivi soggetti a prestazioni feudali. I boschi Nel XV secolo gran parte dei boschi istriani erano sottoposti alla giurisdizione veneziana. Il bosco era di fondamentale importanza per la 215 IBIDEM, b. 166-168. 216 AST, Elaborati, cit, b. 152, comune di Berda. 21? AST, Esonero, cit, b. 32, fasc. 99-104; b. 174, n. 851-852. 218 IBIDEM, b. 95, fasc. 436. 219 IBIDEM. 220 Intorno alle condizioni dell’Istria, cit, p. VI-73. 116 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atri, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 Serenissima. Da qui lo sfruttamento dei boschi istriani e l'introduzione di varie norme d’uso e dio tutela. Fin dal XIII secolo Venezia era intenta nell’acquisto di legname ad uso pubblico nella nostra penisola. Nel Liber communis, in seguito noto con il titolo di Liber plegiorum, ci sono notizie di mercanti umaghesi e capodistriani di cui la Serenissima faceva largo uso??!, In questo tipo di commercio, c'erano comunque degli ostacoli che Venezia doveva superare fin dagli inizi. Così nel 1384 il capitano di Piemonte introdusse il dazio da versare su tutti i legnami che attraversa- vano il suo territorio. In contromisura, il Senato veneziano chiese al capitano di Grisignana di rispondere con la stessa misura per i legname che dal suo territorio era diretto verso Piemonte. Identica la misura anche per il legname di Piemonte imbarcato a Grisignana?”?, Nel 1451 Venezia emanerà una legge che obbligherà i sudditi al taglio ed al trasporto gratuito del legname di pubblica necessità e d’uso commer- ciale. Per il trasporto, venivano organizzate le cosiddette carratade, a cui doveva sottostare ogni comunità, inviando un numero obbligatorio e de- terminato di buoi da trasporto. Così inizialmente, in quanto più avanti la cosa si limiterà non all’invio di animali dal proprio territorio, ma all’affitto di proprietari e buoi. Per cui la cosa si trasformerà per molti di loro in voluminosi giri d’affari. I carrettieri incaricati portavano i carichi ai porti indicati: nel nostro caso a Cittanova, Carigador e S. Giovanni della Cor- netta lungo la costa, e sopratutto al porto della Bastia, in quel di Grisigna- na. Quest'ultimo, situato lungo il corso del Quieto, navigabile ancora nel XIX secolo, era il porto di carico più importante, vista anche la vicinanza della foresta di Montona. Il legno, come si sa, era importantissimo per l’ Arsenale marciano, ed era riservato alla marina da guerra. D'altra parte esso rappresentava pure un’importantissima fonte d’introito per le magre entrate familiari. Motivo 22! D. KLEN, «Mletaèka eksploatacija istarskih Suma i obvezan prijevoz drveta do luke kao specifitan drZavni porez u Istri od 15. do kraja 18. stoljeéa (Prilog proutavanju ekonomsko-polititke povijesti i ekonomsko-historijske problematike iskoriStavanja istarskih $Suma i istarskog naroda)» /Lo sfruttamento veneziano dei boschi e l’obbligatorio trasporto del legname quale specifica tassa statale in Istria dal XV al XIX secolo (Contributo allo studio della storia ecomomico-politica e della problematica storico-economica di sfruttamento dei boschi e della popolazione istriani/, Problemi sjevernog Jadrana /Problemi dell’Adriatico settentrionale/, Fiume, vol. 1 (1963), p. 202. 222 IBIDEM, p. 203. D. VISINTIN, Agricolturae proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 117 per cui da un lato si genereranno leggi, terminazioni ed istituzioni di tutela dei boschi, di sovente violate. D’altra parte si svilupperà il contrabbando. Questa selvicoltura strategica non comportava alcun vantaggio all’econo- mia istriana, contrabbando escluso. Nonostante i provvedimenti introdotti dalla Serenissima, il continuo degrado del patrimonio boschivo è evidente. Lo denuncia innanzitutto il Tommasini. Nel 1538 a Cittanova i roveri furono rilevati soltanto in tre posti. Complessivamente ne furono contati cinquantamila, esclusi quelli delle stanzie particolari. Alla metà del XVII secolo il presule ne annotava poco più di duemila. Tra gli altri alberi egli ha indicato i cerri, i faggi, gli olmi, i frassini, “l’olmo chiamato qui talpone”, il pioppo bianco, quello nero, il loto, la filca femmina, l’oppio, “e un altro opio, legno più sodo, che in slavo chiamano sestilo l’aiero del quale se ne manda a Venezia per fari remi alle gondole”, il carpino bianco e nero, il sorbo torminale, il salice selvatico, quello domestico, di cui ce n’erano più tipi, qualche abete. Quindi arbusti di minore diffusione quali ad esempio il ginepro ed il lauro, ed altri ancora??3. Tra le istituzioni più antiche atte alla tutela boschiva, si ricorda la Giustizia vecchia. Nel 1452 si istituì il Provveditore ai boschi. Nel 1549 sarà la volta dei Provveditori sopra legne in Istria e Dalmazia. Nel 1552 nasce l'ufficio dei Provveditori alla legna ed ai boschi. Mentre è del 1775 il Collegio sopra i boschi. Tutte queste magistrature saranno costantemente pressate da Venezia, affinché si tuteli l’integrità dei boschi. Nella seconda metà del secolo si introdurranno tutta una serie di provvedimenti tesi a stanziare riserve di roveri ed a proibire tagli esagerati di boschi comunali e piantagioni di nuovi boschi. Tale politica confluirà nella graduale introduzione dei catasti. I rilevamenti saranno comunque abbastanza approssimativi, inclusi quelli del Morosini. In tale contesto, va rilevato il Registro delli boschi segnati in Istria per mistro Zammaria Spuaza, protto dell’Arsenal 1541. Lavoro che lo Spuaza - su ordinanza del provve- ditore sopra le legne Domenico Falier —- compilò tra il 14 dicembre 1541 ed il 27 febbraio 1542. Si tratta del più antico registro di boschi in Istria??4, Nel 1587 il provveditore Nicolò Salamon ha attraversato tutta l’Istria veneta e nel suo catastico ha elencato tutti i roueri, tolpi e semenzali. 223 G.F. TOMMASINI, op. cit., p. 103. 224 |. PEDERIN, «Il registro dei boschi dell’Istria occidentale del 1541-42», ACRSR, vol. XIV (1983-84), p. 153-170. 118 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 Trascorreranno però altri ottantadue anni prima dell’emanazione da parte del Capitano di Raspo di norme concrete e precise di tutela del patrimonio boschivo??. Nel 1670 il Senato emanò tutta una serie di nuove disposizioni in materia. In base alle nuove leggi, i roveri vennero lasciati a libera disposi- zione di coloro che nelle loro proprietà avrebbero impiantato nuovi bo- schi. Tale disposizione venne motivata con il fatto che il bosco costituiva una fonte d’entrata importante per le famiglie povere. Di conseguenza, ottenendo esse un guadagno con il taglio e la vendita della legna da ardere, in questo caso roveri, era impossibile conservarli, avendo essi un buon prezzo di mercato. Era concesso pure il taglio per la manutenzione degli impianti pubblici, i mulini ad esempio?”°. Le ordinanze ed i proclami emanati dalle autorità con ogni probabilità non venivano rispettati, visto che essi si ripetevano costantemente. Anche gli statuti comunali prevedevano precise norme di tutela del bosco. Così le norme statutarie buiesi prevedevano severe multe e puni- zioni corporali per i piromani?””’ e per i colpevoli di furto e danni??8. Al nostro scopo sono importanti le disposizioni contenute nel Capito- lare momianese. Infatti era vietato il taglio dei roveri senza licenza del castellano, in caso contrario seguiva la denuncia per iscritto inviata al Podestà di Pirano, che condannava allora secondo i dettami di quella località??°, Nonostante ciò, nei secoli XVI-XVIII si assiste in Istria ad un pauroso depauperamento del patrimonio boschivo, costantemente denun- ciato dai Capitani di Raspo nelle loro relazioni. Significativa a questo proposito la relazione del Capitano Zuanne Pizzamano. Tra il 1717 e il 1719, egli ha visitato i boschi umaghesi e cittanovesi annotando fra l’altro una prassi d’antica tradizione insita nella contadinanza. I boschi, infatti, venivano riservati anche al pascolo animale. La legna tagliata veniva adoperata anche per le riparazioni delle case, ed alla costruzione degli attrezzi agricoli. Per cui le severe norme veneziane venivano a colpire anche gli aspetti di vita e di sussistenza della popolazione, rischiando di 225 M. BERTOSA, «Dva katastika zapadnoistarskih $uma iz godine 1698.» /Due catastici dei boschi istriani del 1698/, VHARP, vol. XXI (1977), p. 245. 26 IBIDEM. 227 P.KANDLER, «Statuti municipali di Buie», cir., cap. 45, p. 271. 228 IBIDEM, cap. 48, p. 271. 229 AP, Capitolare, cit. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 119 stremare estremamente le condizioni sociali di una grossissima parte degli abitanti. Tale situazione indurrà i contadini a procedere con angherie varie. Per ovviare a questa insostenibile situazione, tenendo conto della ragion di stato e di quella contadina, il Pizzamano dividerà i boschi in tre classi. Nella prima era vietato sia il pascolo che il taglio. Nella seconda era concesso il pascolo ma non il taglio. Nella terza classe erano possibili ambedue. Queste sue riforme proseguiranno con l’introduzione di una quarta classe, successiva alle visite ai boschi di Capodistria, Isola, Pirano e Mo- miano. Essa si rese necessaria vista la posizione geografica occupata dai boschi visitati. Mentre nell’Umaghese e nel Cittanovese essi occupavano le aree pianeggianti, qua si era in posizioni diverse, rispecchiate in questa aggiunta categoria, interessata ai boschi erti e difficili da raggiungere, lasciati in parte a libera disposizione dei proprietari. Nel 1777 si stabilirono diverse pene e discipline tendenti alla tutela dei boschi, la cui esecuzione fu affidata alla Sovrintendenza de boschi. La cosa dette i suoi risultati. Durante la prima dominazione austriaca la Sovrinten- denza fu soppressa, e la gestione dei boschi venne affidata al Governo provinciale. Misura inclemente per i boschi istriani, visto che alla noncu- ranza di tale autorità seguì una nuova serie di danni, furti, tagli arbitrari ed incurie. Agli inizi del XIX secolo i decreti veneziani furono rimessi in auge”. All'epoca, il commercio della legna da fuoco era ancora abbastan- za consistente. Particolarmente importanti in questo senso risultavano essere le piazze mercantili di Venezia e di Trieste?" Boschi di certa importanza cc n'erano anche nel Buiese. L’Arsenale era interessato sopratutto a quelli di Cittanova. Le testimonianze scritte citano sopratutto il bosco di Cavalier, tra Cittanova e Verteneglio, di Vallaron, in quel di Villanova, di Fernè, nei pressi di Carsette, di Cornaria Grande e Piccola in quel di Grisignana. Ci sono poi altre aree di minore entità. Di un certo rilievo erano il bosco di Scarievaz nel Momianese e quello di S. Pellegrino ad Umago. Nel 1542 furono tagliati, a servizio dell’ Arsenale, 338 alberi a Cittano- va, 288 ad Umago, 228 a Buie, 127 a Portole, 76 a Grisignana, 41 nella 230 Rapporto sull’Istria, cit, p. 29-34. 31 IBIDEM, p.27e 61; Continuazione del rapporto sull’Istria presentato il 17 Ottobre 1806 al Vicerè d’Italia dal consigliere di stato Bargnani, cit, p. 6. 120 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Arti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 vicina S. Giorgio. Per il trasporto furono organizzati 400 carri a Umago a Cittanova, 300 a Buie, 176 a Grisignana e 120 a S. Giorgio?*?. Dieci anni doposi ridussero i tagli di Cittanova, con 220 alberi, mentre aumentarono ad Umago ed a Buie. Nella prima località si toccò il tetto di 509 legni, nella secondo si arrivò a 614. Aumenteranno i tagli a Portole - ce ne saranno 237 - e diminuiranno a Grisignana, con 106, mentre si segnaleranno 43 tronchi a Villanova. Con le località di Vetta, Sovignacco e Montona, saranno complessivamente 10195 i carri in viaggio?*. Il censimento dello Spuaza elenca per il Buiese i boschi di Vallaron, di Ponta de la Racisa e di Crassizza, il bosco Fernè ed altri toponimi di minore importanza, rilevando proprietà della comunità di Buie, ecclesia- stiche e private?*. Per Buie disponiamo di un documento risalente agli anni 1603-1604, la Nota di quelli che tengono beni stabeli in raggion della mag.ca città di Buie et della chiesa di S. Servolo”*. Nelle sette cartelle di cui è composto il fascicolo, sono indicati i beni di proprietà ecclesiastica, privata, comunita- ria e delle confraternite. Il documento enumera in tutto 29 643 arbusti tra roveri, semenzali ed olmi, raggruppati nelle misure venete indicate con i nomi di “volta de cossa et brazzadura, volta de brazzo et gamba, volta de trauerso, volta del gamba e cossa, volta de brazzo, roueri signati de trauerso, del la cossa, de cossa fin trauerso, ecc .”?3°, Tra i beni di proprietà ecclesiastica citati nel documento, da rilevare quelli appartenuti alla chiesa parrocchiale di S. Servolo, “roueri signati de trauerso et brazzadura n. 20”. Quindi i possessi delle chiese di S. Pietro, S. Elena, S. Maria Maddalena, e di S. Stefano. Rilevanti i 227 semenzali ed i 4 olmi della stanzia del piovan. In evidenza pure i possessi delle confraternite: “In val de Castiò à S: Margarita tien la fradaia roueri signati da uolta de trauerso n. 30”, mentre a Carsette la confraternita di S. Margherita disponeva di 60 roveri. Tra i beni di proprietà privata citati nel documento, ricorderemo quelli appartenuti a “md. Laura Contarini, agli eredi del mg. s. Lorenzo 28 D. KLEN, op. cit., p. 237. 233 IBIDEM, p. 238. 234 |, PEDERIN, op. cit., p. 159-167. 235 R. CIGUI-D.VISINTIN, «Nota di quelli che tengono beni stabeli in raggion della mag.ca città di Buie et della chiesa di S. Servolo», ACRSR, vol. XXIX (1999), p. 445-448. 236 Non conosciamo purtroppo il valore attuale di queste misure. D. VISINTIN, Agricolturae proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 121 Barbo, dei Racizza, a mg. Bonetto de Bonetti, a s. Bernardin Barbo, a mg. Nicolò Barbo, a mr. Antonio Barbo, ai mg. mr. Dorigo e Jacopo Bragadin, ai mag. Quirini, a Francesco Tussini, ai Sandri ed ai Manzin”. Significativa pure la proprietà comunitaria. Così la Comunità di Buie aveva degli stabili in costa de Boschovich a Crassizza, in bosco de Busignon verso sol levante, a Carsette, in Carrara, in Pisolon. Indicati pure i beni affidati. Tomaso Barich teneva una stanzia di rason del comun, Andrea Grdovich disponeva dei beni della chiesa di S. Maria. I terreni del q. Zuanne d’Ambrosi erano di proprietà della moglie, residente a Pirano. Quelli dei Sandri erano affidati a Nicolò Turcinovich, a Stefano Sartor ed a Pietro Druscovich. S. Francesco da Pirà li ha affidati ai fratelli Pietro e Juri Milanovich. Francesco Tussini a Paulo Zuban ed a Paulo Radanich. C'erano quindi i legni numerati di Monte Cavrion, verso la zona di S. Eliseo, della stanzia di Grignol, gli alberi lungo la strada consortiva presso S. Stefano ed in Boschovich. Continuando, c'erano “in tutta la villa de Tribban grando, roueri segnati de uolta de brazzadura n. 23”, quindi poche piante a S. Piero ed in Gracischia, ed i quasi 14 mila del bosco di Fernè. Accanto ai possessi più antichi, ossia possedimenti ereditari della parte più agiata della popolazione, appaiono pure quelli dei nuovi abitanti: i Bubicich ed i Jurlanovich ad esempio. Gli affidamenti ai nuovi abitanti ed i loro possessi indicano una conso- lidata integrazione avvenuta con le comunità di loro insediamento. Va ancora sottolineato che si tratta di legnami riservati all’ Arsenale. Vari sono pure i boschi che compaiono nel Catastico chi va dietro al Disegnio del territorio d’Umago per auer piu chiara cognicione delli partico- lari che sopra li sono, e nell’analogo documento redatto per Cittanova negli anni 1613-14?! Il documento rileva i boschi di proprietà di proprietà ecclesiastica, comunitaria e privata. Si rilevano fra l’altro i boschi comuna- li, quelli della Chiesa di S. Maria Maggiore e di alcune confraternite, quali ad esempio quelle di S. Giacomo e di S. Andrea. Anche i monaci del convento piranese di S. Bernardino avevano delle proprietà?*. Nel 1698, nei centosette boschi elencati nel territorio di Buie e di Cittanova citati nel catastico steso dal Podestà e Capitano di Capodistria 237 M. BERTOSA, «I catastici di Umago e di Cittanova (1613 — 1614)», cir., p. 435-480. 238 IBIDEM, p. 439 e 441. 122 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XTX), Atri, vol XXXIV, 2004, p.51-126 Marco Michiel Salamon, c’erano in tutto 58.153 alberi. Di questi, i legni buoni riservati all’Arsenale erano 7.546, quelli scadenti 23.396, i roveri di misura tra i tre ed i cinque piedi 2.477, i semenzali 27.444 e le pole 7.290?°, Il documento elenca i boschi siti a Monte Cucco, Carsette, Tribano, Valle di Buie, Crassizza, Baredine, Vallaron, Fernè, Monte, con i rispettivi distingui patrimoniali di ragione delle comunità, di singoli privati, e delle istituzioni ecclesiastiche”. I rilevamenti del Morosini non si discostano da quanto finora detto. Vanno comunque rilevati i boschi di proprietà delle comuni di Umago e di Petrovia, Matterada, S. Lorenzo, Cittanova e Verteneglio. Di rilevanza anche le proprietà boschive dei De Franceschi e dei conti Rota, dei nobili Verzi e dei Grisoni, dei Busin e dei Marcovich nonché la proprietà eccle- siastica, in primo luogo quella delle Chiesa parrocchiali, delle varie con- fraternite, e della mensa episcopale di Cittanova”. Il patrimonio zootecnico L’agricoltura istriana difettava come abbiamo visto di prati specializ- zati. Motivo per cui, come già riferito in altra parte soltanto una parte degli animali veniva tenuto a pastura di stalla. Ancora agli inizi del XIX secolo scarseggiavano i prati artificiali ed i foraggi, mentre difettavano pure i prati artificiali. In conseguenza di ciò veniva meno lo stallatico animale, si limitava la produttività dei terreni e le rese per unità di superficie erano complessivamente basse. Anche la diffusione degli animali grossi era ab- bastanza limitata. Tutto ciò era d’intralcio alla già stagnante economia agricola. La mancata integrazione tra azienda cerealicola e azienda zoo- tecnica, limitava l’espansione delle arre produttive ed impediva lo sviluppo di quelle incolte. In passato l’Istria forniva a Venezia una quantità di buoi da macello. Le generalità circa la consistenza del patrimonio zootecnico in epoca 239 D. KLEN, op. cit., p. 247. 240 IBIDEM, p. 249-255. 24. V. MOROSINI IV, Catastico generale dei boschi della Provincia dell'Istria (1775-1776). Terminazione del c. e. sopra boschi - Naredjenje p. k. varh dubravav (1777), a cura di Vj BRATULIC, Trieste-Rovigno, 1980 (Collana degli ACRSR, n. 4), p. 109-139, e 151-178; R. CIGUI, «Catastici», cit., p. 439. D. VISINTIN, Agricolturae proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 123 veneziana in nostro possesso sono abbastanza limitate. Delle caratteristi- che dell’allevamento nei secoli precedenti è il Tommasini a parlarcene. Si allevavano per lo più bovini (vache, manzeti, uedelli), che venivano tenuti a stallaggio nei cosiddetti tigori o casali’, Circa il loro numero, dobbiamo rifarci ai dati relativi alla carratada, che ci forniscono il numero effettivo di buoi partecipanti. I dati non sono esaurienti, in quanto non sempre le comunità invitate inviavano gli elen- chi, per cui le preposte autorità erano costrette a rifarsi ad elenchi prece- denti nella suddivisione degli obblighi. Talvolta gli elenchi s’inviavano ad operazione già iniziata. Per l’anno 1542, il Klen riporta i seguenti dati di buoi partecipanti: Piemonte 101, Umago 247, Buie 195, Cittanova 196, Momiano 28, Grisignana 226. Dieci anni dopo, la partecipazione è la seguente: Piemonte 88, Umago 111, Buie 195, Cittanova 220, Momiano 40, S. Giovanni della Cornetta 18. Nel 1560 Piemonte invierà 76 buoi, Umago 123, Buie 209, Cittanova 205, Momiano 46, S. Giovanni della Cornetta 14. Passato un secolo, le testimonianze riporteranno le seguenti cifre: Piemonte 68, Umago 34, Buie 95, Cittanova 119, Momiano 606?8, Agli inizi dell'Ottocento una fatale epizoozia distrusse quasi del tutto la specie bovina. Per cui l’Istria fu costretta a rivolgersi altrove onde ricostruire tale patrimonio. Presente un certo numero di capre, soprattutto all’interno della peni- sola, sebbene esse siano state prescritte dai decreti della repubblica per la conservazione dei boschi. Quindi i castrati, gli agnelli ed i pecorini, polla- me e maiali. I cavalli e gli asini erano abbastanza rari nel XVII secolo”. Nella seconda metà del XIX secolo il loro numero dei cavalli, dei buoi e degli asini aumentò costantemente, mentre diminuirà il numero degli animali minuti. Così pure nel Buiese. Dai 224 cavalli del 1827 si passerà alle 319 unità del 1880. 1.758 i muli e gli asini, contro i precedenti 546. I buoi 24) G. F. TOMMASINI, op. cit., p. 87; D. MILOTTI, op. cit., p. 271. 243p, KLEN, 0p. cit., p. 244. Per il 1560, il Facchini ci fornisce il numero effettivo dibuoi coscritti nelle località istriane, ed il numero delle coppie partecipanti alla carratada. Si elencano i 209 buoi di Buie (parteciparono alla carratada 104 coppie e mezzo), Cittanova 43, Verteneglio 110, Torre 52 (complessivamente le tre località facenti parte di un unico comprensorio, dovevano partecipare con 102 coppie e mezzo di buoi), Momiano 46 (23), Piemonte 76 (38), S. Giovanni della Cornetta 14 (7), Umago 68, Matterada 49 e S. Lorenzo 6 (complessivamente le tre località dovevano partecipare con 61 coppie e mezzo). Cfr. Sì FACCHINI, La grande carratada istriana, Trieste, 1996, p. 127-129. 24 D. MILOTTI, op. cit., p. 272. 124 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.51-126 passeranno da 1.247 a 3.100 capi. Le pecore da 8.828 a 6.348. I maiali da 1.917 a 2.612 le capre da 43 a 8275. Sostanzialmente nel Buiese si registrò un evidente aumento degli animali grossi e da tiro, con grosso piacere dell'economia agricola, ed una progressiva diminuzione degli animali minuti, a parte i caprini che aumen- tavano leggermente. Questa situazione rispecchiava la tendenza regiona- le Mentre la razza bovina era come s’è detto tenuta parzialmente a pastura di stalla, i cavalli venivano generalmente tenuti nelle stalle. Tutti gli altri animali erano tenuti al pascolo, condizioni climatiche permetten- do. In quanto al loro uso specifico, i buoi erano adoperati per il lavoro nei campi ed al traino, i cavalli erano tenuti soltanto al trasporto a sella delle merci, gli asini ed i muli per quello da schiena. Il numero degli animali posseduti rispettava in proporzione l’estensio- ne dei terreni da lavorare, vista l’impossibilità, salvo rarissime eccezioni, di dare vita ad un solido patrimonio zootecnico riservato alla produzione di carne, latte, e soprattutto concimi. 245 D. VISINTIN, «Paesaggio agrario», cit., p. 605. D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XITX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p.5 1-126 125 SAZETAK: OD MLETACKE REPUBLIKE DO HABZURGOVACA: POLJOPRIVREDA I ZEMLJISNI POSJED NA BUISTINI (XVI.-XIX. ST.) - Ovaj tekst predstavlja sintezu jedne faze prouèavanja koja je zapoCeta objavijivanjem priloga “Paesaggio agrario e organizzazione produttiva nelle campagne del Buiese nel primo Ottocento” (Poljoprivredni krajolik i proizvodna organizacija u okolici Buja potetkom devetnaestog stoljeta)), u XXVII broju ATTI-a, te nastavijena drugim izdanjima koja su kao glavnu temu obradivala gospodarsku i drustvenu povijest navedenog teritorija. Ovdje su utvrdeni neki bitni aspekti istarskog gospodarstva i drustva, u to vrijeme vaZeci ugovorni, drustveni i obiteljski odnosi. Ova] tekst prvenstveno analizira poljoprivredna gospodarstva ovog podruéja sjeverne Istre, tako da Sto je mogute bolje utvrdi podjelu agrarnog zemijista, organizaciju proizvodnje, sustave ruko- vodenja, tehnike obradivanja, odnose izmedu vlasnika i zemljoradnika u vodenju imanja, vazeée ugovorne odnose kod davanja stoke na Cuvanje, vrijednost zemlje izrazenu u novcu, transakcije pri kolanju proizvodnog viska. Govori se i o kruZenju bogatstva, o obiteljskim strategijama te o obnavljanju zemlji$nog fonda. Tu je i osvrt na crkveno vlasnistvo, kao i na vlasnistvo bratovitina, koje je dosad slabo prouéeno, a ima znatnu vaZnost. POVZETEK: OD SERENISSIME DO HABSBURZANOV: KME- TIJSTVO IN ZEMLJISKO LASTNISTVO V BUJAH (XVI.-XIX. STOL.). — Tekst predstavlja povzetek Studijske faze, ki se je zatela z objavo, na XXVII. izdaji Atti, publikacije “Kmetijska krajina in proizvodna organizacija na bujskem podezelju na zaîetku XIX. stoletja” (Paesaggio agrario e organizzazione produttiva nelle campagne del Buiese nel primo Ottocento) in nadaljevala z drugimi publikacijami, katerih glavna tema je gospodarska in drufbena zgodovina omenjenega ozemlja. Obravnavajo se doloteni kIjuèni aspekti istrskega gospodarstva in druzbe, pogodbena, druZbena in druZinska razmerja tedanjega obdobja. Namen teksta je bil predvsem analizirati znaCilnosti kmetijskega gospodarstva v severni Istri in po moteh preuditi delitve poljedelskega 126 D. VISINTIN, Agricoltura e proprietà fondiaria nel Buiese (sec. XVI-XIX), Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 51-126 obmoèja, proizvodne sheme, sisteme upravijanja, pridelovalne tehnike, odnose med gospodarji in kmeèkimi delavci v upravijanju ozemlja, veljavna pogodbena razmerja za oskrbovanje Zivine, denarno vrednost zemljiséa in transakcije v obtoku proizvodnega presezka. Gre torej za tematike, ki zadevajo kroZenje dobrin, druZinske strategije in rekonstrukcijo zemljiîke posesti. Pozornost je bila namenjena tudi cerkveni in bratov$éinski lastnini, ki so jo do sedaj le malo upostevali, ima pa vsekakor pomembno vrednost. M. BERTOSA, Pastori dell'herhadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 127 PASTORI DELL’HERBADEGO NELLE DIFFERENTIE VENETO-ARCIDUCALI Episodi cinquecenteschi delle tormentate stagioni pastorizie nell’Istria settentrionale MIROSLAV BERTOSA CDU 636.3(091)(497.5-3lstria)”1571/1572" Filozofski fakultet - Pula Saggio scientifico originale Facoltà di Lettere e Filosofia di Pola Agosto 2004 Riassunto — L'Autore s'è servito del materiale dell’Archivio di Stato di Venezia. Il testo è un esempio di articolo microstorico e riguarda l’area dell’Istria nord-orientale nel XVI secolo, segnatamente in due anni: il 1571 e il 1572. Vi si esamina il problema della transumanza e delle contese e conflitti che vi scoppiarono in merito ai termini e confini fra la Repubblica di Venezia e la Casa d’Austria (ovvero il Dominio di Castua). Il lavoro contiene un’impor- tante determinante metodologica. Tesi introduttive Questo è un tentativo di descrizione circostanziata di un drammatico episodio storico del Cinquecento istriano, di un avvenimento apparente- mente minimo, in un territorio angusto e in un periodo di tempo breve! La storia della Penisola istriana rappresenta un “territorio” di ricerca estre- mamente ricco e interessante, grazie sia ai dati conservati negli archivi, che per il largo ventaglio di possibili interpretazioni teoriche che dischiude. In quest’articolo vengono focalizzati gli avvenimenti occorsi in una parte della Cicceria, nell’area attorno a Vodizze, nella seconda metà del XVI secolo. Si tratta di un singolare racconto d'archivio sugli scontri avvenuti tra pastori nei pascoli al confine tra due entità politiche — la veneziana ! Vengono rilevati e sottolineati graficamente i termini minimo, angusto e breve perché l'Autore cerca di segnalare che queste componenti coerentemente “disprezzate” e “rifiutate” della realtà storica - nella “scuola” storiografica d'avanguardia in Francia quasi fino alla fine del XX secolo - furono in effetti sempre presenti alla coscienza degli storici e nei loro complessi e diversificati approcci metodologici a quella stessa realtà storica. 128. M.BERTOSA, Pastori dell’rerbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 Provincia dell’Istria e l'austriaco Dominio di Castua. Al centro dell’atten- zione viene a trovarsi il problema dell’abigeato nel Settentrione istriano, sul monte Doberdol, nei documenti veneziani citato come Valbona?. Il materiale si conserva nell'Archivio di Stato di Venezia, nel fondo dei provveditori alle questioni di confine?. Gli atti istruttori della Camera dei Confini vengono qui elaborati secondo il modulo dell’histoire événementi- elle (per dirla nel gergo originale della scuola francese degli “Annales”)‘, che da genere storiografico “disprezzato” per quasi mezzo secolo, dopo essere stato arricchito negli anni settanta e ottanta di nuove impostazioni metodologiche e teoriche, fece un trionfale ritorno nella “scuola” suddet- ta°. Sebbene nel presente contributo, visto superficialmente, prevalga la descrizione cronologico-evenemenziale, una lettura più attenta vi scoprirà lo sforzo dell’Autore di rappresentare in maniera diversificata e complessa un episodio drammatico svoltosi in un punto “invisibile” della catena montuosa della Cicceria. L'Autore ha cercato di far notare che le - rarissi- me ! - fonti d’archivio sulla transumanza istriana nel XVI secolo nascon- dono molte variazioni dell’approccio microstorico® nella sua singolarità. 2 Oggi viene chiamato Dol. Nella parlata locale di Vodizze si usa il nome Duv, gli abitanti del villaggio di Mune lo chiamano Dobré, quelli di Seiane Dobrédol, mentre a Castua era usuale la denominazione Skrapna. - Questi datimisonostati forniti, tramite il dott.Josip Grbac, dal signor Mate Zmak Matesié, eccellente conoscitore del territorio in questione. Colgo anche qui l'occasione per ringraziarlo cordialmente. 3 Archivio di Stato di Venezia (in seguito: ASV), Provveditori Sopraintendenti alla Camera dei Confini (in seguito: PSCC). Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. 4 Fernand BRAUDEL, Scritti sulla storia, Milano, Mondadori, 1973, passim. 5 Cfr. Pierre NORA, “Le retour de l’événement”, in Jacques LE GOFF - Pierre NORA (sousla direction de), Faire de l'histoire. Nouveaux problémes, vol. I, Parigi, Gallimard, 1974, 210-228 (la prima versione dell'articolo venne pubblicata nella rivista Communications, n.10 18, 1972); Lawrence STO- NE, “Il ritorno al racconto: riflessioni su una nuova vecchia storia”, nella raccolta di scritti dell'Autore intitolata Viaggio nella storia, Roma - Bari, Laterza, 1987, 81-106. © Cfr. Mirko MARKOVIC, Stocarska kretanja na Dinarskim planinama [Le fluttuazioni pastori- zie sulle montagne dinariche], Zagabria, Editori Jesenski e Turk, 2003. L'Autore - indiscutibilmente il più profondo conoscitore odierno dei movimenti pastorizi non solo sulle montagne dinariche, ma anche, sulla base di esperienze personali, sul Velebit, Biokovo, Sator, Klekovada, Vitorog, Cincar, Vranica, Radusa, Bjelasnica, Prenj, Cvrsnica, Treskavica e altre aree - ha studiato la pastorizia transumante specialmente da un punto di vista etnografico, facendo notare (p. 15) che i dati su questa fenomenologia sono rimasti sconosciuti, o poco conosciuti, fino a tempi recenti (ma anche sul XVII e XVIII secolo le testimonianze sono rare). Quantunque le transumanze istriane non raggiungessero le proporzioni di quelle sulle montagne appena citate, i dati d’archivio, riportati in quest'articolo, rappresentano delle nuove fonti per conoscere in maniera documentata i vari e specifici problemi che il mondo pastorale dovette affrontare nel plurisecolare, quotidiano bioritmo lavorativo e naturale. M. BERTOSA, Pastoridell’herbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.127-156 129 Gli eventi descritti non sono fine a se stessi, non sono un banale “evenemen- ziario”, né storia evenemenziale (sic!)", quanto il tentativo di costruire il “modello” di un caso microstorico. Dunque, nel testo si colgono anche delle indicazioni metodologiche, la contestualizzazione di tesi in seno al mestiere di storiografo. È altrettanto importante sottolineare che nel materiale che viene presentato sono riportate, assieme alle trascrizioni degli atti d’archivio già esistenti nella cancelleria del Capitanato di Raspo, quelle dei verbali e dei rapporti redatti nel corso dell’appianamento della disputa insorta, ovvero nei momenti in cui lo scontro era all’apice e quelli in cui subentrava una sua temporanea catarsi. La maggior parte del materiale consiste in anno- tazioni, verifiche e autenticazioni delle dichiarazioni dei testimoni, col che la memoria individuale si è fatta documento archivistico e fonte storica. Il presente articolo è stato concepito come un mosaico di singoli fatti, di drammatici frammenti del (con)vivere fra pastori negli alpeggi di confine. Se con questo modo di procedere viene, da un lato, parzialmente sconnes- sa la continuità narrativa, dall’altro sono rilevati più perspicuamente e meglio articolati i segmenti più importanti di questa problematica - sinora poco analizzata e studiata — della storia economica, politica e diplomatica, del diritto consuetudinario e della vita quotidiana della gente comune. Un piccolo mondo in conflitto: i Veneti/Marcolini/Benecani e gli Arci- ducali/Kraljevci nelle “differentie” La linea di demarcazione che divideva politicamente il mondo istriano si protendeva anche al territorio della Cicceria, l’area montagnosa della penisola. Da una parte c’erano i Veneti/Marcolini/Benecani — sudditi della Repubblica di Venezia, ossia dello Stato di San Marco, dall’altra gli Arciducali/Imperiali/Carevci — sudditi della Casa d’ Austria e del suo sovra- no o imperatore. Nel corso di lunghe guerre, specie di quella della Lega di ? Nella terminologia scientifica italiana, accanto al sintagma “storia-racconto”, si incontra talvolta anche il derivato dal francese “storia evenemenziale”, o soltanto “evenemenziale”. Cfr. ad esempio DE MAURO, /l dizionario della lingua italiana, ED. Paravia ( pure online: http://demauropa- ravia.it). Oltre che nei più recenti dizionari specialistici, è possibile trovare informazioni frammentarie sul concetto di evenemenziale, anche nei motori di ricerca http:/Avww.it.altavista.com; http://www.google.com; http://www. virgilio.it e altri. 130 M. BERTOSA, Pastori dell’nerbadego nelledifferentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.127-156 Cambrai contro Venezia (1508-1523), in Istria le aree che ci rimisero maggiormente furono il Pinguentino e la Cicceria. La popolazione si disperse, cessarono di operare le istituzioni del potere, il castello di Raspo venne distrutto, il presidio fu trasferito a Pinguente e il suo archivio bruciato. Andarono così persi i documenti scritti attinenti a termini e confini, mentre coloro che erano stati i depositari della memoria collettiva erano morti o fuggiti*. Né le autorità locali, in primo luogo il capitano di Raspo e i funzionari della sua cancelleria, né i rimpatriati delle famiglie autoctone di un tempo, e men che meno i nuovi arrivati (talvolta più che altro di passaggio), seppero ricostruire l’habitat, motivo per cui, dopo la stipulazione della pace, furono moltissimi gli appezzamenti di terra, i pascoli, i prati, boschi, macchie, sorgenti naturali, stagni artificiali e torren- ti, contesi e non assegnati, senza i quali veniva messa in forse la sopravvi- venza stessa di determinati gruppi di pastori e/o agricoltori. Le commissio- ni per le questioni confinarie, veneziane e austriache, affibbiarono alle località contese il nome di “differentie”/”differenze” ( da cui l’espressione d’uso popolare “diference” o “diferencije” presso i sudditi croati), donde derivarono anche gli appellativi ufficiali di alcuni organi di potere incari- cati di questioni confinarie, come il Magistrato delle differenze dei confini, Uomini e Ufficiali sulle differenze e altri”. Per secoli, a causa delle “differen- tie” scoppiarono scontri! tra i contadini di ambo le parti del confine, scontri talvolta anche cruenti, di proporzioni distruttivamente irraziona- li, in quanto ogni sconvolgimento nell’equilibro delle risorse naturali 8 Miroslav BERTOSA, Istra: Doba Venecije (XVI-XVII. stoljece) [Istria, l'epoca veneziana (XVI-XVIII secolo)], Pola, Casa editrice istriana “Z.akan Juri”( Seconda edizione riveduta e amplia- ta), 1995, p. 456-528. * Cfr. Giulio REZASCO, Dizionario del linguaggio italiano storico e amministrativo, Bologna, Forni editore (Ristampa anastatica), 1966 (in origine il dizionario venne pubblicato a Firenze nel 1881), p. 351. !0 Con il vocabolo latino differentia (f.) nelle fonti medievali e in quelle dell’inizio dell’evo moderno venivano generalmente indicati concetti significanti scontro, disputa, contesa, disaccordo, dissidio...(controversia, contentio, dissidium...). Cfr. Marko KOSTRENCIC, Veljko GORTAN, Zla- tko HERKOV (redattore), Lexicon latinitatis Medii Aevi Iugoslaviae I, Zagabriae, Editio Instituti historici Academiae scientiarum et artium Slavorum meridionalium, MCMLXXIII, p. 370. !! Miroslav BERTOSA, “Nemirne granice Knezije: Grada u Drzavnom arhivu u Veneciji o graniénim sukobima i sporovima izmedu mletaéke Pokrajine Istre i Istarske knezije” [I turbolenti confini della Contea: il materiale dell’Archivio di stato di Venezia sugli scontri di confine e le contese tra la veneziana Provincia dell’Istria e la Contea d’Istria], Vjesnik historijskih arhiva u Rijeci i Pazinu [Corriere degli archivi storici di Fiume e Pisino], Fiume-Pisino, vol. XXVI (1983), p. 9-79; IDEM, “Izmedu gospodarske kategorije i socijalne napetosti (Sukobi na mletaéko-austrijskoj granici u Istriod XVI. do XVIII. stoljeéa)” [Fra categoria economica e tensioni sociali (Gli scontri al confine venezia- M. BERTOSA, Pastori dell’herbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.127-156 131 minacciava non solamente gli interessi, ma anche la mera sopravvivenza di quei gruppi sociali. Nella guerra della Lega di Cambrai a subire di più, specie nel primo quinquennio, fu il territorio dell’Istria settentrionale. La guerra e le sciagure demografiche avevano cancellato i vecchi confini, mentre i superficiali arbitrati pacificatori, fatti senza documenti e senza testimoni, che avevano tracciato in fretta e furia nuovi termini e confini, non avevano fatto che aumentare le “differentie”. Essi avrebbero dovuto essere in funzione di ambedue le parti, ma ben presto si trasformarono in focolai di scontri senza fine. Quasi mezzo secolo più tardi, il governo vene- ziano ordinò alla propria magistratura per le questioni dei confini di trovare testimoni affidabili, persone di età avanzata, che conservassero memoria dell’estensione del vecchio confine lungo il possedimento veneziano". Nelle “differentie” rientrava anche la montagna Valbona (nei docu- menti è citato pure il nome croato, rispettivamente sloveno: Doberdol), com'è attestato dai dati riportati in questo contributo. La località contesa si trova in Cicceria, a nord-ovest e al dissotto della fonte di Vodizze ( a circa 1.050 metri sul livello del mare). Era ricca di pascoli con una polla di acqua viva e apparteneva al Capitanato di Raspo. I Capitani (che negli anni 1510-1511 risiedettero a Pinguente) cedevano in affitto ai pastori istriani, sia della parte veneziana che di quella austriaca dell’Istria, la montagna di Valbona per il pascolo estivo e ne raccoglievano l’erbatico. Talvolta i pascoli venivano affittati anche a pastori non istriani. L’erbatico, ovvero il “contributio pro pascuis”!3 rappresentava una voce importante per le entrate del Capitanato di Raspo. Da qui il grande impegno profuso dal primo rappresentante dell’autorità veneziana in Istria per risolvere il contrasto insorto circa la montagna di Valbona e il suo tentativo di coinvolgere in quella contesa locale anche il governo centrale di Venezia. I primi vicini di Valbona /Doberdol e degli abitanti del territorio venezia- no erano i popolani di Veprinaz, sudditi del Dominio di Castua, a capo del no-austriaco in Istria dal XVI al XVIII secolo)], Problemi sjevernog Jadrana - Zbornik Zavoda za povijesne i dru$tvene znanosti JAZU [Problemi dell’Alto Adriatico - Atti dell’Istituto per le scienze storiche e sociali dell’Accademia jugoslava delle arti e delle scienze], Fiume, vol. 5 (1985), p. 89-146. !2 Me ne occupo più dettagliatamente in un articolo basato sul materiale dell'Archivio di Stato di Venezia: “Pudki svjedoci o ratu Cambraiske lige: Arhiviranje memorije u Buzetu godine 1563.” [I testimoni del popolo sulla guerra della Lega di Cambrai: L’archiviazione della memoria a Pinguente nel 1563], giunto alla fase finale di elaborazione. 13 Zlatko HERKOV, Grada za financijsko-pravni rjeénik feudalne epohe Hrvatske I [Materiale per un dizionario giuridico-finanziario dell’epoca feudale in Croazia I), Zagabria, Accademia jugosla- va delle arti e delle scienze, 1956, p. 486. 132. M.BERTOSA, Pastori dell’rerbadego nelle differentieveneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 quale c’era un capitano fiumano. Qui gli uni accanto agli altri, venivano a contatto i pastori dei due stati, spinti allo scontro reciproco non solamente da interessi materiali'*, ma anche da insofferenze politiche. Stereotipi di convivenza frontaliera e procedimenti probatori Le prime notizie di un contrasto risalgono all’inizio del luglio 1571. L’allora Capitano di Raspo, Antonio Barozzi, già alla fine del suo mandato biennale, aveva inoltrato un’istanza di protesta al capitano fiumano-ca- stuano in seguito al furto di “nove capi di bestiame” dal territorio venezia- no. Il Barozzi accusava di quell’atto di forza “i sudditi del castello di Veprinaz”, sotto giurisdizione del Capitano fiumano, e in conformità ai rapporti “da buoni et amorevoli vicini”, chiedeva la restituzione del bestia- me". Paolo da Zara, il Capitano fiumano - il titolo completo recitava: Paulo de Zara, et Gotnico Arc. Com.o et Capitanio de Fiume, et Castova — si diceva concorde con lo stereotipo del “buon e soccorrevole vicinato”, ma faceva asciuttamente notare al rappresentante veneziano a Pinguente che i nove castradi non erano stati sottratti in territorio veneziano, bensì in quello sotto la giurisdizione del castello di Veprinaz. Paolo da Zara cercò di convincere il Barozzi che alcuni sudditi veneziani erano entrati “nella giurisdittione de Veprinaz, et hanno messi certi segni, ò maggi per un miglio in circa dentro di quella, usurpandossi temerariamente quelli con- fini, et giurisdittione[...]”!° Paulo da Zara et Gotnico!? aggiungeva poi che 14 Oltre ai conflitti derivanti dalle pretese territoriali su determinanti pascoli, le tensioni fra i pastori erano provocate anche dal mancato rispetto dei termini di tempo previsti per lo sfruttamento dei prati presi in affitto. Fino a tutto il 1850 rimase in vigore un accordo per cui i contadini del villaggio di Lanischie dovevano falciare il fieno dei prati entro il 5 agosto, perché dopo tale data essi venivano ceduti agli allevatori di Altura che vi portavano i propri armenti. Se per qualsiasi motivo quelli di Lanischie non vi si attenevano, gli Alturiani si presentavano comunque sulla montagna di Valbona e allora scoppiavano veementi scontri verbali e fisici. - Il dato mi è stato fornito dal citato signor M. Zmak Matebié. 15 ASV. PSCC. Capo d’Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die 23 Juli} 1571. 16 ASV. PSCC. Capo d'’Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Da Fiume de San Vito alli 23 Luglio 1571. ; !? Paolo (da) Zara fu capitano di Fiume dal 1569 al 1573. Le sue competenze territoriali si spingevano fino a Castua (con Moschiena). Nel 1563 venne destituito dall’incarico a causa dei dissidi e scontri causati dai suoi metodi amministrativi. La famiglia Zara risiedeva all’epoca ad Aquileia. Venne sostituito (1574) da Leonardo de Athems, ma anch’egli, a motivo delle sue lunghe assenze, durante le quali soggiornava a Gorizia, era inviso all’amministrazione municipale fiumana. Cfr. M. BERTOSA, Pastori dell’herhadego nelle differenti veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 133 la sottrazione dei “castradi” era avvenuta “per le loro antique usanze, et consuetudini”, e che comunque, proprio in virtù di quel diritto consuetudi- nario, “molto più li haveriano potuto tuor”!8. Nella stessa lettera il Capitano di Fiume rimarcava espressamente che “si può facilmente conoscer che li sudditi di Vostra Magnificentia, et non li miei haver rotto li confini, hanno turbata la giurisditione”!?. Paolo da Zara proponeva quindi un comune sopralluogo nella zona contestata, suggerendo di punire la parte di cui sarebbe stato provato il fallo. Il Capitano di Raspo Antonio Barozzi, convinto di essere nel giusto, rispose subito alla sfida di quello di Fiume e Castua: insistette nell’affer- mare che gli abigei erano gli “Arciducali” del Comune di Veprinaz, e in nessun caso i sudditi della Repubblica di San Marco; inoltre si adoperò in prima persona per avviare un procedimento istruttorio, raccogliendo e interrogando testimoni e persone a conoscenza dei fatti, e in particolare dei termini e dei confini di Doberdol. Quantunque la documentazione raccolta dovesse servire come “materiale probativo” ai fini della contesa, tuttavia vi si trovano compenetrati le determinanti della locale quotidiani- tà e le dispute e i conflitti diplomatici e interstatali. Sci mesi più tardi scadde il mandato del Barozzi, e il nuovo Capitano di Raspo, Marino Pesaro?" (rispettivamente Da Ca’ da Pesaro)?!, prese in consegna la docu- Giovanni KOBLER, Memorie perla storia della libumica città di Fiume, Fiume, Stabilimento Tipo-li- tografico Fiumano di E. Mohovich, 1896, vol. I, p. 261; vol. II, p. 133-134. 18 In base al diritto consuetudinario, codificato nel corso del tardo medio evo e agli albori di quello moderno, del bestiame colto a pascolare nell’area di un’altra “territorialità” politico- statale ci si poteva appropriare. Il concetto di pegnore (nel significato di pignoramento, cioè di legittima sottrazione del bestiame colto a pascolare in altrui “territorialità”), s'inquadrava negli allora vigenti assetti giuridico- consuetudinari tradizionali e statali. In origine il vocabolo significò una garanzia materiale che l'impegno assunto sarebbe stato onorato; invece in seguito venne usato per indicare il sequestro del bestiame che veniva fatto pascolare in altrui territorio (Cfr. G. REZASCO, op. cit., p. 780). Il problema tuttavia diventava tale quando la linea di demarcazione era contestata, sicché era d’uopo fissarla nuovamente in base alla situazione reale e alle fonti d’archivio (semprecché esistesse- ro!). In simili situazioni di “anarchia” a pagare lo scotto erano i proprietari delle greggi, i pastori e il bestiame. 19 IBIDEM. 20 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die lune 21 aprilis 1572. Marinus Pisarius, dignissimus capitaneus Raspurch. Questo il nome latino del capitano Marino Pesaro che svolse il suo incario dal 1572 al 1575. Cfr. Pietro KANDLER, Indicazioni per riconoscere le cose storiche del Litorale, Trieste, Tipografia Lloyd, 1855. L’elenco dei capitani di Raspo del Kandler è stato corretto, completato e aggiornato da Giovanni RADOSSI, “Stemmi di rettori e di famiglie notabili di Pinguente”, Atti del Centro di ricerche storiche di Rovigno, Trieste-Rovigno, vol. XI (1980-1981), p. 524. 21 Nei fondi ASV. PSCC,, riguardanti l’Istria, il cognome Pesaro viene citato anche nella forma 134 M.BERTOSA, Pastori dell’herhadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 mentazione in cui venivano illustrati i problemi degli scontri di confine e della sottrazione violenta di bestiame, risalenti a più di mezzo secolo prima. Nel primo verbale - del lontano 1520 - si legge che l’allora podestà di Montona si era lamentato presso le autorità veneziane perché agenti regij avevano sottratto con la forza ai suoi sudditi a/cuni castrati nel terri- torio della montagna Valbona. Li dunque gli allevatori del territorio di Montonada Reggimento* di Raspo avevano preso in affitto alcune parcelle per l’alpeggio, parcelle che confinavano con i prati di cui usufruivano i “sudditi Arciducali”. Il Capitano de Fiume, et Castova affermava che Valbona veniva a trovarsi nel suo territorio. Dal canto suo, nel resoconto al governo di Venezia, il Capitano di Raspo prometteva di intervenire a favore dei sudditi del Montonese: “Procurerò la restitutione delli anemali per benefitio de quel poveretto, et per l’avenir non succedino simil disturbi in pregiuditio delle ragion de Vostra sublimità”?3, È interessante anche il comportamento tenuto nei confronti del rappresentante ufficiale di un altro stato: dapprima il cancelliere del Reggimento aveva raccolto i dati sull’avvenuto, quindi aveva compilato una lettera e l’aveva spedita a/ governator de Fiume, chiedendo la restituzione dei capi sottratti. Quando giunse la risposta delle autorità fiumane, il cancelliere, su ordine del Capitano di Raspo, ne conservò l'originale nell’archivio della cancelleria spedendo a Venezia una copia della missiva”. E che cosa intraprese poi il Capitano di Raspo? Poiché s’avvicinava il tempo della partenza delle greggi verso i pascoli estivi, nell’aprile del 1571, il Capitano consigliò al governo di Venezia di esercitare “qualche pressio- ne” sulla controparte fiumana, i cui sudditi (sudditi reggij) stavano per prendere in affitto parte della montagna Valbona, fino al punto in cui avevano collocato essi stessi le indicazioni di confine, indicazioni che la parte veneziana non voleva riconoscere. La “pressione” alla quale il Pesa- ro cercava di indurre il Senato faceva riferimento alla notizia che nei Da Ca’ da Pesaro. Dalla stessa famiglia proveniva anche il nobile Giacomo Da Ca’ da Pesaro, che nel 1588 fu podestà e capitano di Capodistria, svolgendo nel contempo anche l’incarico di provveditore per le questioni di confine. Cfr. Miroslav BERTOSA, “Nemirne granice KneZije...”, cir., p. 15-24. 22 L'espressione Reggimento veniva all’epoca usata per indicare l'organismo amministrativo nel suo complesso - il capitano, la sua cancelleria di funzionari alti e bassi ( i cosiddetti ministri) e i mercenari armati al servizio del Capitanato (gli stipendiarii). 23 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone. Die lune 21 aprilis 1572. Marinus Pisaurius, dignissimus capitaneus Raspurch. 24 IBIDEM (“non hò voluto mandarli l'autentica, perché stimandola d’importantia, mi hà parso bene, che resti qui in cancellaria...”). M. BERTOSA, Pastori dell’herhadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.127-156 135 villaggi, e specie a Lanischie che era il più colpito dall’usurpazione dei pascoli, vivevano ancora degli anziani, testimoni dell’esistenza dei vecchi termini e indicazioni confinarie?5, Il Capitano di Raspo riteneva dunque che andasse effettuato il proce- dimento noto nel diritto medievale come ricognizione/confinazione sul terreno, assieme alle persone più anziane in qualità di testimoni giurati, e alla presenza dei rappresentanti delle autorità delle parti in conflitto. Quell’atto probatorio, giuridicamente valido, avrebbe dovuto produrre una soluzione pacifica della contesa e stabilire proprietà e relativi diritti. L’antica giustizia , alla quale si richiamavano sia i “Veneti” che gli “Arci- ducali”, non era nient'altro che il tentativo di ripristinare, dopo gli scon- volgimenti provocati dalle distruzioni belliche e dalla dispersione della popolazione, il vecchio equilibrio nella convivenza, ovvero di proteggere gli interessi economici di ambedue le parti. Tuttavia, il rituale del ripristino dell’antica giustizia rappresentava già allora un immaginario sociale. Es- sendo mutata la situazione, le forme per una compenetrazione del dina- mismo vitale di un tempo richiedevano un radicale cambiamento di rap- porti. Oltre tutto, il documento glagolitico medievale —- e per un tratto anche dell’evo moderno - noto come Atto di confinazione (reambulazione) istriana, conferma anche in questo caso la tradizionale forza giuridica esercitata in territorio istriano dall’atto della demarcazione dei confini”°. La valutazione del Capitano di Raspo era indiscutibilmente esatta: con le prove raccolte alla mano, la posizione della parte veneziana ne sarebbe uscita di gran lunga rafforzata, sicché il suo impegno per “frà noi amore- volmente[...Jterminar questa differentia” appare non soltanto diplomatica- mente opportuno ma anche logico?”. Perciò “non mancando più de sei, ò 25 IBIDEM (“vi sono in esser huomeni nella villa (per quanto mi vien detto) che si raccordano il tempo, che furno messi questi termini d’accordo con essi regij...”). 26 In merito cfr. Milko KOS, “Studija o Istarskom razvodu” [Studio sull’Atto di confinazione istriana], Rad JAZU [Saggio dell’Accademia jugoslava delle arti e delle scienze, Zagabria, vol. 240 (1931), p. 105-203; Josip BRATULIC, Istarski razvod: Studija i tekst [Atto di confinazione istriana: Studio e testo], Pola, Cakavski sabor, 1978; Milan MOGUÌ - Zeljko BUJAS, Kompjutorska konkor- dancija Razvoda istarskoga [Concordanza computeristica dell’Atto di confinazione istriana], Zagabria, Institut za lingvistiku Filozofskog fakulteta [Istituto per la linguistica della Facoltà di lettere e Filosofia], 1976; Miroslav BERTOSA, stra: Doha Venecije, cit., p. 456-528; IDEM, “Teritorijalno-go- spodarski prijepori imedunarodno dogovaranje: Jedan primjer srednjovjekovne diplomacije”[Contese economico-territoriali e trattative internazionali: Un esempio di diplomazia medievale], Zbornik diplomatske akademije [Atti dell’Accademia diplomatica], vol. 2 (1999), p. 43-57. 27 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die lune 21 aprilis 1572. Marinus Pisaurius, dignissimus capitaneus Raspurch. 136 M. BERTOSA, Pastori dell’herbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 otto giorni à dar principio al pascolare”, rilevava l’urgenza di concluder la faccenda. Nel contempo il Capitano di Raspo proponeva anche una secon- da - molto più rigida - variante: rispondere nella stessa misura, cioè sottrarre agli allevatori “ex Partibus Imperij”lo stesso numero di capi che loro avevano tolto ai Veneziani!” Ricostruzione della memoria storica e musività dei dati Quello stesso giorno, 21 aprile 1572, il Capitano di Raspo Marino Da Ca’ da Pesaro fece convocare lo zupano di Lanischie, i vecchi del villaggio e quelli dei villaggi vicini, tutti i sudditi e conoscitori dei confini e termini dell’erbatico sulla montagna Valbona fra lo Stato Veneto e la “parte impe- riale”°. Cinque giorni più tardi si iniziarono le deposizioni delle persone secondo le consuetudini in vigore nel medio evo e agli inizi di quello moderno. Il primo a rispondere alle domande fu Bartholomeus Crismanich de villa Lanischie, Zupanus ipsius, mentre a fare da traduttore e “interpre- te” era Marco Fubicine®. Nel documento l’area contesa viene chiamata Montagna de Valbona, over Dobersdou*', la quale veniva ceduta in affitto agli allevatori della “bassa Istria” dal Reggimento di Pinguente. A Valbona si incrociavano “li confini di San Marco [...]cum li confini reggij”. Lo zupano Crismanich dichiarò che “già fù tempo, che li vecchi mi han’ mostrato li confini”. Di coloro l’unico ancora in vita rimaneva “Mathio Clobas, Zupan de Bergodaz, qual è il più vecchio della villa”. Lo zupano riferì le parole del Clobas secondo le quali “gli reggij hanno messo alcuni legni, over arbori come palli più de mezzo miglio dentro delli confini antiqui”. Pali che erano ancora nella vallata nel punto che gli Arciducali considera- vano di confine. Lo zupano Krizmanic riteneva tuttavia che non vi fossero 28 IBIDEM. 29 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die 21 aprilis 1572. (“mandavit accersiri (???) Zupanum ville Lanischie, et alios seniores dicte ville, qui habeant cognitione de termenis, et confinibus herbaticis Vallis bone, dividen- tibus iura Sancti Marci], ad viribus imperialibus”). 30 ASV. PSCC. Capo d’Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die 26 aprilis 1572. Il nome del traduttore si legge abbastanza bene, sebbene sia sconosciuto in quest’area. Che si tratti di un soprannome ? 3! L’oronimo Doberdol è indiscutibilmente di origine croata, tuttavia la forma Dobersdou presenta i tratti del locale ciacavo pinguentino e influenze delle vicine parlate slovene. M. BERTOSA, Pastori dell’herbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.127-156 137 segnali né altri “termini de piera, ò de altra materia”?°. Va qui precisato che termini e confini venivano all’epoca segnati in vari modi, ricorrendo a tutto quanto fosse ben visibile nello spazio - dalla configurazione del terreno e dei corsi d’acqua ad alcuni segnali caratteristici naturali o creati artificial- mente - onde per cui la “terminologia confinaria”, come la definisce lo storico M. Kos, comprende una vasta gamma di termini: brdo, dol, draga, lokva, potok, pu, rupa, stijena, korona, brest, cer, orah, oskoruSa, drevo, njiva, crekva, gromaca, kamen, kriz (monte, valle, draga, stagno, torrente, pozzo, buco, roccia, corona, olmo, cerro, noce, sorbo, legno, campo, chie- sa, gromazza, pietra, croce) e altri*?. Comunque, oltre a questi appellativi tradizionali, che si incontrano nelle pagine del glagolitico Atto di confina- zione istriana” (segnatamente, sono facilmente riconoscibili nella loro già da lungi pubblicata e qui menzionata concordanza computeristica), c’era- no anche altre forme e modi per segnare i termini. I contadini del comune di Veprinaz delimitavano tradizionalmente i beni del demanio con “pali e palizzate”. Gli abitanti di Veprinaz ricorsero a quell’usanza anche in occasione dello spostamento dei confini all’interno del territorio venezia- no sulla montagna Valbona, piantando, ovvero “conficcando pali nel terreno” lungo la nuova linea di divisione che volevano creare. Quel giorno venne interrogato anche un altro testimone di Lanischie: Antonius Baroga de dicta villa. Era nato al principio del secolo e, per sua stessa ammissione, aveva compiuto settant’anni*°. Era pastore degli altrui armenti, come disse egli stesso, “pratico dell’herbadigo de questa Montagna de Valbona**, motivo per cui doveva conoscere i segnali demarcativi entro i quali si estendeva il possedimento della Repubblica di San Marco, vale a dire quelli che mostravano fin dove poteva pascere ‘gli animali. Affermò che “li Confini sono certi arbori nasciuti dalla natura” e che, in seguito, “certi imperiali” avevano spostato, servendosi di ceppi e tronchi, le indicazioni 32 ASV. PSCC. Capo d’Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cun Regijs. Die 26 aprilis 1572. 33 M. KOS, op. cit., p. 133-134. 3 Lujo MARGETTC, Veprinacki sudski zapisnici XVI. i XVII. stoljeta (Volciéev prijepis)[Verbali giudiziari di Veprinaz del XVI e XVII secolo (Trascrizione Voléié)], Abbazia, Katedra Cakavskog sabora [Cattedra del Sabor ciacavo], 1997, p. 16. 3 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die 26 aprilis 1572. Alla domanda del Capitano di Raspo: “Quanti anni hai?”, rispose: “Io hò de anni settanta”. % IBIDEM. 138. M.BERTOSA, Pastori dell’herbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 dei termini di circa mezzo miglio. Dalla sua deposizione si può apprendere come venivano determinate le parcelle che il Reggimento di Raspo dava in affitto: i contadini pascevano il proprio bestiame nei pascoli che gli appar- tenevano, ma anche nei comunali, i terreni del comune. Inoltre il rappre- sentante veneziano affittava i comunali che rimanevano a lungo non sfruttati agli allevatori dell’Istria meridionale e occidentale, procurando così entrate aggiuntive alle casse del Capitanato. Il giorno seguente, domenica 27 aprile, il Capitano di Raspo, Pesaro, interrogò un teste eccezionalmente importante. Si trattava di Matheus Clobas de villa Bergodaz, già zupano del villaggio. Circa l'appartenenza dei possedimenti sulla montagna Valbona dichiarò quanto segue:”/i termini sono arbori nasciuti dalla natura, quali traversano una certa costiera, et vanno sino à una fontana, chiamata Susvodizze”*.I dati sul confine li aveva appresi da suo padre, e confermò che i contadini e i pastori di Lanischie facevano pascolare il bestiame fino ai citati alberi e che quello era ritenuto possedimento veneziano. Clobas spiegò come si era giunti (nel 1571) al sequestro di nove castrati di proprietà del citato contadino che li pascolava in base all’ “affitto d’herbadigo del Capitanato di Raspo”: “li castradi gli furono tolti per li reggij, perché loro credono, che quel confin sia il suo”. La dichiarazione di Mate Clobas dimostra una volta di più come la “memoria individuale” assurgesse a prova giuridica e diventasse perfino argomento giuridico-statale. Clobas, essendo il più vecchio contadino di Bergodaz, aveva sperimentato di persona l’illecito spostamento dei confini sulla montagna Valbona, perciò la sua descrizione, inserita nel verbale del Reggimento, divenne una fededegna testimonianza storica. Egli era stato testimone che gli Arciducali avevano conficcato giovani alberelli in terra mezzo miglio all’interno del territorio veneziano, in tal modo steccando un nuovo confine. Quando l’autorità di Pinguente decise di intervenire, ven- nero spediti sul teatro dell’accaduto alcuni dei contadini più anziani di Lanischie e di Bergodaz, tra cui lo stesso Clobas. Nel frattempo gli alberelli conficcati in terra si erano seccati, sicché assomigliavano a pali infissi nel terreno?*. Di sé Mate Clobas disse che “io non hò manco de nonanta 37 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die 27 dicti (cioè il 27 aprile 1572). 38 IBIDEM (“Il Reggimento ne mandò noi altri de Bergodaz, et dui de Lanischie à veder quello che era stà fatto di novo, et noi trovassemo che erano stà messi confininuovi, con palli, et arboritagliati et ficcati così in terra, che hora debbono esser secchi”.) M. BERTOSA, Pastori dell’herbadego nelle differentieveneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.127-156 139 anni”, e che “io son stato sagramentato più volte, et ho sempre ditto la verità”. È inoltre interessante che i contadini-autoctoni di Lanischie e di Vodizze, una volta ripartiti gli allevatori che avevano pagato l’erbatico, in quegli stessi pascoli pascevano il proprio bestiame fintanto che le condi- zioni climatiche lo consentivano. Il secondo testimone interrogato quella domenica fu Zorzi Sossich, zupano ottantenne di Bergodaz, che con la sua dichiarazione confermò una volta di più il fatto che anche dei piccoli punti(ni) sulla faccia della terra, come la montagna Valbona/Dobersdou/Doberdol, potevano diventa- re delle differenzie, cioè località di contesa internazionale. Il vero confine, dichiarò sotto giuramento il suddetto Sossich, si estendeva lungo il pendio che andava dal boschetto sulla montagna di Valbona alla fonte sovrastante Vodizze (Susvodizze). Disse che nove castrati “sono stà tolti dentro del confin de San Marco”. Citò un caso interessante: cinque o sei anni prima (dunque verso il 1566-1567) un certo allevatore era stato “pegnorato” dagli Arciducali per aver pascolato a Valbona, però in seguito il “pegnore” era stato restituito. Con quella deposizione il testimone confermava la continuità delle controversie affrontate dagli allevatori istriani durante le transumanze, i duri interventi dell’autorità che, con la confisca del bestia- me, rispondeva al mancato rispetto — reale o supposto — dei confini, ma anche i persistenti, prolungati tentativi di ambedue le parti — la veneziana e l’austriaca — di rimediare alle ingiustizie che era possibile dimostrare. Furono proprio le questioni dei termini e confini che conferirono alla pastorizia transumante della Cicceria i tratti di perduranti e tormentati conflitti - dai tentativi di piccoli imbrogli agli attacchi alla persone, al bestiame e all’ambiente. Transumanze: la quotidianità dei pastori Il 29 aprile 1572, martedì, furono escussi i pastori della Bassa Istria. La prima deposizione fu rilasciata da Filipus Banovich de Galisan, territorii Pole. Anch’egli conosceva bene la Montagna de Valbona, sive Doberdou, come pure il confine “trà li regij, et la Signoria”: “Il confin per quanto mi hanno mostrato li vecchij scorreva per certo largo e netto, chiamato la ® IBIDEM. Viene usato il termine veneziano nonanta invece del letterario novanta. 140 M. BERTOSA, Pastori dell'herbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 Plassina, in mezo un bosco, et andava fino à una fontana, che si chiama la Vodizze”*. A Doberdol Banovich aveva pascolato il gregge nel 1570, quando il confine nonera stato ancora spostato di mezzo miglio all’interno del possedimento veneziano. Quell’area era diventata una “differentia”, quindi controversa, come asseriva il Banovich, solo l’anno seguente, quan- do gli Arciducali rubarono nove castrati”. La Terra di Dignano era uno dei posti più vitali dell’Istria veneziana. Accanto all’artigianato e all’agricoltura, vi era specialmente sviluppato l’allevamento del bestiame, tant'è vero che i Dignanesi affittarono per secoli i pascoli della Cicceria. Il 1 maggio 1572, giovedì, si presentò al cospetto del Capitano di Raspo, del magistrato delegato e dei suoi impie- gati il testimone Martinus Fiorante fu Pietro di Dignano, un ricco proprie- tario di bestiame, il quale, come disse, nel 1567, assieme a Cristoforo Biasiol, pure di Dignano, aveva pagato l’herbadego per tutta Valbona. “Come patrone della montagna” (nel periodo fissato dall’affitto, s'intende), così si definì, di confini non aveva saputo nulla. Dell’appartenenza dei pascoli e dei loro termini - cioè del territorio in cui era permesso pascolare - tenevano conto i pastori. Come proprietario del bestiame, Fiorante giungeva a Valbona soltanto per “portar del pan alli pastori”, ma non vi si tratteneva. I suoi pastori erano Micovile de Coslach, morto nel frattempo, e, come si legge nella sua dichiarazione, “un altro pastor de quei de Divssich de Dignan”*°. Dopo Fiorante davanti agli inquirenti comparve un altro Dignanese: Cristofforus Biasiolus quondam Mengolini de Adignano. La sua deposizione svelò alcuni nuovi particolari sull’organizzazione della transumanza in Cicceria. La cura degli armenti era affidata ai pastori, e i proprietari delle greggi visitavano gli alpeggi di Valbona solo per portargli le provviste, come aveva detto il Fiorante, ovvero per ritirare il formaggio che i pastori facevano nei propri ricoveri. Il dignanese Biasiol disse espressamente che: “Noi altri patroni andavimo suso, et tolevimo quel pocco de formaggio, che ne toccava, et non cercavimo altro”. Di altre questioni, ivi comprese le controversie di confine, i proprietari di bestiame non si occupavano. Ai 40 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause Vallis Bone cum Regijs. Die martis 29 aprilis 1572. 4 IBIDEM. 4 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die iovis primo maij 1572. 4 IBIDEM. M. BERTOSA, Pastori dell’rerbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.127-156 141 pastori le indicazioni in merito ai termini dei pascoli per i quali era stato versato l’herbatico, come pure sui confini con gli Arciducali , erano fornite dal valpotto, emblematica figura della vecchia Contea di Raspo, come lo definisce D. Klen“. In qualità di funzionario veneziano in Istria, “officialis curiae”, ovvero “officialis capitanei” del Reggimento del Capitano di Ra- spo, controllava la raccolta dei tributi obbligatori che dovevano essere versati dai singoli villaggi. Era un eccellente conoscitore della situazione nel Carso istro-settentrionale; in più parlava il ciacavo croato e i dialetti sloveni, sicché gli erano affidati anche la soluzione dei conflitti sui termini fra i vari comuni rurali e gli interventi necessari a evitare contese sui confini statali*. Il valpotto era perciò un fattore autorevole nell’organizza- zione della transumanza nel Carso di Raspo*°. Nel verbale dell’istruttoria è registrata pure la dichiarazione del proprietario di bestiame, il dignanese Biasiol, sull’uccisione del citato pastore (“Micovile de Cosgliaco è stà amaz- zato”), sebbene non dicesse in quali circostanze fosse avvenuta. Biasiol (a differenza del suo compaesano e collaboratore Fiorante) aveva spostato indietro di sette anni il periodo in cui avrebbe preso in affitto per l’ultima volta la montagna di Valbona. Dopo di che non aveva pagato più l’erbatico per Valbona, bensì aveva preso in affitto il monte Trebenica (in Trebenice). Le informazioni che forni sul suo pastore rappresentano una testimonian- za sulla mobilità all’interno del piccolo mondo istriano: il pastore si chia- mava l/uri Chrevatin, ed era “figliuolo de Luca de Bogiliun, habitante in Dignan”. D’inverno Chrevatin serviva il padrone Biasiol a Dignano (e nel suo territorio), e d’estate conduceva le greggi a pasturare in Cicceria. A rilasciare una deposizione a nome degli allevatori del Montonese, su invito del locale podestà, fu Matteo Radanovich. Nel 1571 il Radanovich aveva preso in affitto i pascoli di Valbona ed era stato proprio lui a lamentarsi con il Capitano di Raspo per il bestiame sottrattogli: “Da/ Zupan, insieme con altri della Villa de Veprinaz, mi furono tolti nuove 4 Cfr. Danilo KLEN, “Valput u Istri” [Il valpotto in Istria), Zbomik Historijskog instituta Jugoslavenske akademije [Miscellanea dell’Istituto storico dell’Accademia jugoslava], vol. 3 (1960), p. 297-329; inoltre “Condizioni morali ed economiche di Pinguente e suoi dintorni con brevi accenni alla storiadurante l’epocapatriarchina:relazione di Giorgio Furlanicchio”, Pagine Istriane, Parenzo, X,1-2 (1912), p. 22-25; XI, 1-2 (1913), p. 3-44; XI, 5-6 (1913), p. 130-131. 45 Danilo KLEN, op. cit., p. 305-307. 46 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die iovis primo maij 1572. 142. M.BERTOSA Pastori dell’herbadego nelle differentie veneto-arciducali, Att, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 castradi”!,I capi gli furono presi con la scusa che li stava pascolando in un territorio appartenente agli “Arciducali”, però Radanovich s’era difeso dicendo di non conoscere il “nuovo confine”, perché a Valbona era stato “tempo fà, che sono forsi vinti anni”, ma a quel tempo vi era venuto per tre anni di seguito. All’epoca — disse — il confine correva lungo le gromazze (mucchi di pietre, ndt.) “fino à una fontana, che si chiama Vodizze”*. Secondo il Radanovich, la fonte di Vodizze rappresentava il confine fra i tre territori contigui di Castua, Bergodaz e Pinguente*: comunque, men- tre i termini verso il Dominio di Castua® rappresentavano un confine interstatale, quello verso Bergodaz e Pinguente separava due comuni. Il Capitano Da Ca’ da Pesaro ritenne particolarmente importante la parte della deposizione del Radanovich che lasciava concludere che quel tratto della montagna di Valbona non era ritenuto contestabile: “Et io son stà, come vi hò ditto già vinti anni, et hò pascolato sino la fontana, ne mai alcuno mi hà datto molestia, ne ditto cosa alcuna”!. Diversi dei pastori citati, dichiarò ancora il Radanovich, erano già morti, però ne menzionò altri cinque ancora in vita. Il fante del Capitano, a norma di procedura, si mise subito alla loro ricerca per condurli davanti alla Giustizia. Diplomazia internazionale e astuzie locali Nello stesso tempo Marino Da Ca’ da Pesaro inviava una lettera al Capitano di Fiume, Paolo da Zara. Il Capitano di Raspo cercava di risolvere in fretta la questione del pascolo di Valbona, perché con gli 47 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die 5 maij 1572. 48 IBIDEM. 4° IBIDEM (“divide tre confini, cioè Castoa, Bergodaz, et il confin de Pinguente”). 50 Darinko MUNICG, Kastav u srednjem vijeku: Drustveni odnosi u kastavskoj opcini u razvijenom srednjem vijeku; rasprave o Kastvu i kastavskom Statutu [Castua nel medio evo: I rapporti sociali nel comune castuano in pieno medio evo; Dibattimento su Castua e lo Statuto castuano], Fiume, Izdavacki centar [Centro editoriale], 1998 (II edizione riveduta e ampliata). 5 IBIDEM. La fontana di cui è parola rappresenta la sorgente “sovrastante Vodizze”- Susvodiz- ze, nome istrorumeno della località, spesso menzionato in questo materiale. Cfr. Inan MAIORESCU, Itinerario in Istria e vocabolario istriano-romeno, Trieste, Edizioni Parnaso, 1996 (traduzione italiana dell'originale rumeno, Bucarest, 1900); August KOVACEC, Istrorumunjsko-hrvatski rjeénik (s grama- tikom i tekstovima) [Dizionario istrorumeno-croato (con grammatica e testi)], Zagabria, editore Dominovi6, 1998. M. BERTOSA Pastori dell’hrerbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 143 allevatori dell’Istria meridionale e occidentale doveva concordare, prima del loro imminente arrivo, il prezzo dell’affitto e stabilire esattamente lo spazio in cui si sarebbero sistemati, e quello riservato al pascolo e all’ab- beveramento del bestiame. Da qui il suo impaziente auspicio “che possia- mo vicinar bene, si come sò essere mente delli Serenissimi Principi nostai, come pateticamente si esprimeva concludendo la missiva. Pesaro riteneva che i dati di cui disponeva fossero già sufficienti per iniziare le trattative con la parte fiumana, tanto che quando l’inchiesta era ancora in corso (in effetti già lo stesso giorno in cui aveva udito la deposizione del montonese Mate Radanovich), spedì una lettera al Capitano di Fiume rispettivamen- te Castua, Paolo da Zara, invitandolo a un accordo, e a fare assieme un sopralluogo del confine, onde risolvere quanto prima la contesa venutasi a creare e restituire il bestiame sottratto. Il rappresentante dell’autorità veneziana sottolineava che “li confini sopra questa montagna [...]son 0 confini notabili, et imutabili, essendovi in essi la fontana de Vodizze, et poi certi sassi, et arbori vivi, che non è possibile rimoverli’3. I confini non si possono spostare, aggiunse “filosoficamente” Pesaro, “salvo quello, che violentemente, et fuori d’ogni ragione, fù fatto de quelli de Veprinaz l’anno passato’**. Il Capitano di Raspo si richiamava alla memoria hominum che riteneva fededegna e il più importante argomento per stabilire la verità. La confinazione a Doberdol: le testimonianze dei pastori sul vivere e convivere Per questo, tre giorni più tardi, giovedì , 8 maggio 1572, Marino Da Ca’ da Pesaro riprese a interrogare i testimoni, i pastori di Valbona. Matheus Pribich de Villa Montis botte®, territori Montone, aveva pascolato per sette anni il bestiame sulla montagna contesa, però da allora, come affermò, erano già passati quindici anni. Pribich dunque testimoniava su circostanze risalenti alla metà del XVI secolo. Nel verbale sono registrate 52 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Di Pinguente li 5 maggio 1572. Lettera del Capitano di Raspo Pesaro (A4/ magnifico Signor Paulo Zara, capitanio di Fiume). 5 IBIDEM. 5 IBIDEM. 55 Riferito al villaggio di Mondellebotte, in croato Baòva. 144 M.BERTOSA, Pastori dell’rerbadego nelle differentie veneto-arciducali, Att, vol. XXXIV, 2004, p.127-156 le seguenti sue parole: “In quel tempo li regij venivano sino quella fontana, et similmente noi altri, che mai vi fù differentia alcuna trà noi”*. Quel giorno comparve alla presenza del Capitano di Raspo un altro pastore di quella zona — Antonius Prodanich de territorio Montone, che vent’anni prima, come ragazzino, era stato peccoraro sulla montagna di Valbona. I suoi remoti ricordi si estendevano dunque all’anno 1552, e solamente nel 1571 si ritrovò a pascolare di nuovo su quella montagna. Fu allora testimone dei seguenti fatti: “Vennero doppoi quel giorno quelli da Veprinaz circa ottanta persone, et misero alcuni arbori disramati, come palli, et li piantorno in dentro per di mezzo miglio, come si può vedere”*?. Antonio Prodanich fu testimone che quel giorno vennero sottratti nove castrati: un capo venne sottratto allo stesso Prodanich e a Zorzi Chechich (ritengo che il cognome sia stato scritto in maniera errata; si tratta probabilmente di Cechich/Cehié), tre a Simone Staver, e quattro a Mate Radanovich. Il terzo pastore interrogato — Lucas Sinosich de territorio Montone — fece mettere a verbale di conoscere tutti i pascoli della Cicceria, ma di non aver mai pascolato il bestiame a Doberdol. Conosceva la località, perché vi si recava in visita al fratello Pietro, pastore anch’egli, ma non s’era interessato al confine?. Fedele allo stile della pedante amministrazione veneziana, il Capitano di Raspo andò a verificare nell’archivio della sua cancelleria la deposizione di Lucas Sinosich: mise mano al verbale del S maggio e constatò che nemmeno l’altro fratello, Paulus Sinosich, sapeva donde passasse la linea di demarcazione verso Veprinaz, che era un comune degli Arciducali, quantunque pure egli si recasse a far visita al defunto Pietro, pastore a Valbona. Paolo rilevò in particolare che i fratelli avevano preso in affitto ognuno la propria parte di pascolo, mentre invece il defunto Pietro conduceva il bestiame al pascolo sulla montagna citata”. Sono dati interessanti anche per la testimonianza che offrono sulla parte- cipazione di più membri di una stessa famiglia nell’affitto dell’erbatico nei pascoli della Cicceria, ovvero sulla mobilità della popolazione istriana e i suoi cambiamenti di domicilio. Sebbene la transumanza non comportasse 56 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die iovis 8 maij 1572. 57 IBIDEM. 9 IBIDEM. 59 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die iovis 5 maij 1572. M. BERTOSA, Pastori dell’rerbadego nelle differenti veneto-arciducali, Atri, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 145 grandi guadagni, tuttavia ai pastori e alle loro famiglie non scarseggiavano né cibo né vestiario. Inoltre la fresca aria di montagna ne fortificava l'organismo, migliorandone la capacità lavorativa e prolungandogli la vita. Pochi giorni dopo che il Capitano di Raspo aveva terminato di inter- rogare i testimoni, giunse la risposta di Paolo da Zara con cui gli annun- ciava il suo arrivo, come scriveva, “con li miei huomeni”, nella località contesa di Valbona, e ciò il giorno di San Pietro (29 giugno)?°. La lettera era stata spedita Di Fiume li 11 de Giugno 1572 e il suo mittente s’era firmato col nome e titolo al completo: Paulo da Zara, et Gothnik, arcidu- cale consigliero, et Capitanio di Fiume. Già due giorni dopo la lettera venne recapitata nella sede del Capitano di Raspo a Pinguente®'. Il 29 giugno 1572, lunedì, festa di San Pietro, ebbe luogo a Valbona l’atto di confinazio- ne. Il mattino seguente nell’ufficio del Capitano di Raspo Marino Da Ca’ da Pesaro venne steso un verbale®?. Quest’importante relazione conferma ulteriormente la vitalità e l’efficacia, e in particolare la lunga durata, dell’istituto consuetudinario-giudirico medievale della confinazione alla presenza di numerosi testimoni, di cui si è già fatto parola in questo testo. Il modulo finora più studiato — il ragguardevole documento glagolitico noto come Atto di confinazione istriana — qui in un certo senso si ripete in forma ridotta e semplificata, in un asciutto rapporto nel quale, proceden- do verso la soluzione del contrasto, vengono tralasciati molti dettagli, ma in cui non si poteva sorvolare sullo schematico scenario in base al quale si era svolto il rituale della confinazione, cioè dell’organizzazione della con- vivenza nell’area della “differenzia” di Valbona. È un caso senza dubbio paradigmatico, che merita perciò una descrizione e considerazioni circo- stanziate. Il Capitano di Raspo descrisse al governo l’incontro con il Capitano di Fiume e Castua e i suoi numerosi testimoni della commissione per la demarcazione, avvenuto sulla montagna Valbona, il 29 giugno 1572. Pesa- ro illustrò l’inizio del conflitto e la ragione apparentemente banale che l’aveva scatenato trasformando quella zona in una “differenza” interstata- le. Poiché, al momento di marcare i termini degli erbatici ceduti in affitto, 0 ASV. PSCC: Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die 13 Junij 1572 (“io mi ritrovarò al loco d’essa differentia il di de San Piero prossimo, che sarà alli 29 di questo”). 8! IBIDEM. 62 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Pinguente li 30 Zugno 1572. 146 M. BERTOSA, Pastori dell’herbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 gli impiegati del Capitanato avevano segnato, ad uso dei pegorari, con delle frasche secche il confine con il Dominio di Castua, cosi facendo avevano chiaramente circoscritto il territorio del pascolo. Ciò venne fatto perché, sottolineava il Capitano di Raspo, gli appaltatori dell’erbatico erano fore- stieri che non conoscevano la regione né i termini dei pascoli. Invece i Cicci e quelli di Vodizze apprendevano dai propri maggiori, di generazione in generazione, i necessari e fondamentali ammaestramenti sul proprio ka- bitat. Come confermavano le dichiarazioni dei testimoni, essi conoscevano bene i propri possedimenti nonché — per usare un termine polisemico e pressoché mitico del glagolitico Atto di confinazione istriana — la loro pravica (diritti). Il che tuttavia aveva messo in agitazione gli Arciducali che avevano risposto piantando alberelli nel terreno di Doberdol, mezzo mi- glio all’interno del territorio veneziano. Ambedue le parti condussero a Valbona tutti i pastori che nell’ultima ventina d’anni avevano pascolato greggi in quella zona. Paolo da Zara cercò di giustificare il comportamento dei suoi sudditi richiamandosi alle scritture, che tuttavia non gli era riuscito di trovare nel proprio archivio né quindi di accludere al procedimento probatorio. Nel suo rapporto Da Ca’ da Pesaro rilevò le parole caratteristiche che rappresentavano parte del rituale della confinazione. Nelle trattative con l’altra parte il Capitano di Raspo sottolineava l’idea del vicendevole riconoscimento del ‘pacifico possesso” e del “risponder con modestia” alle accuse, insulti e dileggio; si presentava come “amator della quiete” sostenendo diplomaticamente la tesi della “buona amicitia”e “buona vicinanza”. Ma accanto a questi ele- menti formalmente concilianti, in effetti rituali, durante la composizione del conflitto di Valbona, nel lontano 1572, prevalsero pesanti accuse reciproche, ipocriti tentativi di sfruttare la confusione per ottenere dalla parte avversa quante più concessioni. Si trattava di quel “duro negoziare” di cui tre secoli prima aveva lasciato testimonianza lo scritturale/scrittore del notevole Atto di confinazione istriana’. Dopo dure confrontazioni e i tentativi, di una parte, di trattenere ciò che aveva usurpato e, dell’altra, di farsi restituire l'ex possedimento ripristinando il confine precedente, tutti i partecipanti alla confinazione andarono a disnar insieme, seguendo così un altro dei plurisecolari modus derivanti dagli inevitabili imperativi della 63 Cfr. Josip BRATULIC, op. cit., p. 234; Miroslav BERTOSA, “Teritorijalno-gospodarski prijepori”, cit., p. 43-57. M.BERTOSA, Pastori dell’‘nerbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol XXXIV, 2004, p.127-156 147 convivenza“. AI termine del rituale del pasto e (si può presupporre di un moderato consumo) dei brindisi col vino, “con molta amorevolezza si ritornò à trattar la materia”, come sta scritto nella relazione del Pesaro. “Verso le ore 22, quando scende il crepuscolo...” Nonostante l’atmosfera conciliante — o almeno il rispetto del rituale usuale in simili occasioni — l’intransigenza della parte fiumana aveva fatto prolungare le trattative fino al crepuscolo. “Et questo negotio durò trà noi fin quasi li 22 hore”®", riferisce Da Ca’ da Pesaro, motivo per cui il rappre- sentante veneziano incominciò a protestare animatamente. Come sottoli- nea lui stesso, rivolse ai presenti “dure parole” minacciando che “non lo avrebbe più sopportato”. Il Capitano di Fiume fu costretto a cedere: dopo essersi consultato con i propri fiduciari espose una nuova proposta: i sudditi del Dominio di Castua chiedevano alla parte veneziana di rispetta- re le vecchie norme in base alle quali — nei mesi in cui i pascoli non venivano affittati “per l’erbatico” — i Marcolini e gli Arciducali potevano pascolare il bestiame da ambedue i lati del confine. Sennonché questa forma di convivenza pastorizia si sarebbe potuta realizzare unicamente abolendo l’affitto agli allevatori stranieri, ciò che la parte veneziana non poteva accettare. Da Ca’ da Pesaro era cosciente del fatto che l’abrogazio- 4 Josip BRATULIC, op. cit., p. 223. Durante la composizione dei contrasti nel Pinguentino i membri della commissione per la confinazione “skupa sedehota i jadihota i pijahota, i tako se ve- seljahu”( assieme si sedettero e si lamentarono e bevvero, e così si rallegrarono). #5 La supposizione sulla sobrietà dei partecipanti alla confinazione si basa non solamente sugli altri innumerevoli documenti in materia risalenti al XVI secolo, in cui sono menzionati i pasti consumati in occasione dei sopralluoghi ai confini, ma anche sul fatto che in alcuni casi simili veniva regolarmente osservato che i partecipanti erano “riscaldati dal vino”. Cfr. M. BERTOSA, “Nemirne granice Knezije”, cit., passim. 66 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Pinguente li 30 Zugno 1572. 67 La determinazione del tempo nell’Istria veneziana - dal medio evo fino all’epoca napoleonica (quando venne soppressa) - si regolava in base alle cosiddette ore italiane, adattate ai ritmi della giornata lavorativa e della stagione. Il tramonto del sole era diverso a seconda delle diverse stagioni, comunque il tempo misurato e la misura che lo esprimeva erano in effetti l’orario di lavoro, cioè il tempo durante il quale la luce del giorno consentiva di eseguire dei lavori. Cfr. Ottavia NICCOLI, Storie di ogni giorno in una città del Seicento, Bari, Editori Laterza, 2000, p. 6. - Nel nostro caso l'informazione sulle 22 hore è riferita alle 22 ore trascorse da che le campane avevano suonato l’Ave Maria, cioè verso le 18-19 del giorno seguente. Si avvicinava, dunque, il tardo pomeriggio e con esso il crespuscolo. 148. M. BERTOSA, Pastori dell’rerbadego nelle differentie veneto-arcieucali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 ne dell’erbatico ai pastori forestieri a Valbona avrebbe ridotto le entrate del Capitanato di Raspo, dell’erario di stato e anche i suoi stessi introiti! Da qui la veemente opposizione alla proposta degli allevatori-arciducali e il tono elevato della sua risposta con l’intimazione — seguita dalla minaccia di informare del tutto il governo di Venezia - di giungere immediatamente — perché incominciava a imbrunire — a un accordo sulla “differenza”. L’analisi microstorica di questa materia richiede un altro breve com- mento. Bisogna infatti aver presente che il Capitano di Raspo Da Ca’ da Pesaro nelle sue missive al Capitano di Fiume sottolineava insistentemen- te il presunto significato “locale” del contrasto, affermando scientemente il falso quando diceva di non averne informato il Senato veneziano. Sapendo bene che per gli abusi e le violenze commessi, e per la sottrazione di alcuni beni privati e l’esazione di alte ammende, Paolo da Zara era caduto in disgrazia sia presso i sudditi di Castua, Veprinaz e Moschiena, che presso l’autorità centrale austriaca**, in effetti il Capitano di Raspo lo ricattava minacciando di informare dello spostamento dei segnali di con- fine e della sottrazione del bestiame sia le autorità di Venezia che quelle di Lubiana. Con ciò la posizione, già traballante, di Paolo da Zara sarebbe diventata ancora più precaria. Pressato dalle testimonianze probanti dei pastori e degli anziani abi- tanti nelle zone contese della Cicceria, e in parte dal ricatto del Da Ca’ da Pesaro, il capitano Paolo cambiò improvvisamente atteggiamento: ordinò ai suoi subalterni di rimuovere i segnali di confine illecitamente collocati e promise di restituire i nove castrati sottratti, nonché di recarsi in visita ufficiale al Capitano di Raspo a Pinguente. Benché alla presenza dei rappresentanti dell’autorità veneziana i confini del possedimento della Serenissima Repubblica fossero restituiti al vecchio posto, un miglio più indietro, tuttavia nel crepuscolo che andava calando su Valbona rimase insoluto un problema curioso ma assai interessante: che fare con i verbali istruttori, con le deposizioni dei testi e l’altro materiale “allegato”, accu- mulato nel corso del contenzioso? Il Capitano di Fiume e il suo avvocato, un innominato dottore in legge, richiesero energicamente che tutti gli atti riguardanti la “differenza”di Valbona venissero dati alle fiamme (che tutto fusse abbruggiato), affinché dell’episodio non rimanesse traccia... Ma Ca’ da Pesaro non volle in alcun modo accettarlo; egli inviò gli atti del processo 8 Darinko MUNIG, op. cit., p. 51. M. BERTOSA, Pastori dell’herbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.127-156 149 al governo di Venezia e, contemporaneamente, ne conservò le copie nell’ufficio del Capitanato di Raspo. Nella lettera accompagnatoria al Senato scrisse: “Et lo lascierò in questa cancellaria, à perpetua memoria, et per la conservation delle ragioni de Vostra Serenità[...]?®. Grazie al suo impegno politico in favore degli interessi della Repubblica di San Marco, alla sua obbedienza burocratica e mentale, e alla devozione alla Serenissi- ma, ma anche perché si rendeva indubbiamente conto che gli avvenimenti del passato dovevano lasciare traccia di sé, il Capitano di Raspo Da Ca’ da Pesaro si dette da fare affinché gli atti in questione entrassero a far parte del passato archiviato. Egli stesso, interrogando i testimoni, compilando i rapporti sul contrasto di confine a Valbona, in Cicceria, e descrivendo la situazione nella zona della “differenzia”, ha dato in questo senso un suo indiscutibile e importante contributo”, Un testimone dell’ambiente della cultura dotta Bisogna qui sottolineare che una prova orale — prestata sotto giura- mento davanti a testimoni — aveva lo stesso valore di una prova scritta, cioè di un documento d’archivio”!. Ciò era il presupposto fondamentale per l'archiviazione della memoria storica (di cui più diffusamente in seguito). Senza questo presupposto non avrebbe potuto esserci continuità storico- 89 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Pinguente li 30 Zugno 1572. 70 Il governo veneziano lo ringraziò ufficialmente con una lettera. Cfr. ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ec cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die 10 Augusti 1572. Aloysius Mocenigo, Dei gratia, Dux Venetiarum, et Nobili, et sapienti viro Marino de Cà da Pesaro, de suo mandato capitaneo Raspurch, fideli dilecto salutem, et dilectionis Affectum. Della diligentia da Voi usata per la conservation dei quei nostri confini, et pascoli, et del modo tenuto in questo negotio con il capitanio Paulo Zara, Capitanio di Fiume, sicome per le lettere de 30 del mese passato, ci havete significato, Noi restamo sommamente soddisfatti, et ve ne laudamo, essendo certissimi che per conservar essi confini, usarete l’istessa diligentia, volendo, et così commet- tendovi, che il processo da Voi formato sopra la differentia nasciuta, dobbiate mandarci copia de qui, sotto sue lettere acciò che si possa conservarlo, et siano vedute, et intese sempre le ragion nostre, tenendone un’altra in quella Cancellaria nostra à memoria de successori, acciò loro anco in ogni ocasione possino diffender , et conservar le ragion de quelli confini. Datum in Nostro ducali palatio die 15 Iulij 1572. Inditione XV. [Verso: Nobili, et sapienti viro Marino de Cà da Pesaro, Capitaneus Raspurch] Sembra che si sia conservato solo l'originale nell’Archivio di Stato di Venezia e non la copia custodita nella cancelleria del Capitano di Raspo a Pinguente. 7! Alcune utili considerazioni su questa circostanza storica furono esposte già nel lontano 1931 dallo storico sloveno Milko KOS, op. cit., p. 130-132. 150 M. BERTOSA, Pastori dell’herbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 giuridica nella società istriana — certamente anche croata, e in genere europea. I vuoti nella continuità storica — verificatisi durante accadimenti che hanno distrutto fisicamente le testimonianze archivistiche (talvolta, alla lettera, nelle fiamme di un incendio !) — potevano essere ricostruiti unicamente dalla viva memoria degli anziani, testimoni affidabili del pro- prio tempo. Una lettera archiviata, ingiallita dal tempo, come pure un ricordo cosciente, responsabile e pubblicamente esposto da parte di un vecchio grinzoso, contribuiscono nella stessa misura a ricostruire il passa- to. Nel momento in cui la memoria viene scritta, essa diventa una carta d’archivio, diventa fonte storica, un pragmatico atto politico, usabile e utile non solamente quando il testimone giurato è ancora in vita, bensì docu- mento fededegno per i secoli a venire. La memoria storica — registrata nel momento della catarsi di coscienza del testimone vivente — contribuisce a colmare quelle numerose amnesie storiche che, a tutt'oggi, intralciano, da un lato, la continuità di interpretazione della fenomenologia del passato, e dall’altro, il che è particolarmente tragico, provocano gravi scompigli nell’identità collettiva”. Oltre ai testimoni citati — pastori e contadini, proprietari di bestiame, che appartenevano alla cultura popolare — una deposizione sugli avveni- menti svoltisi nei pascoli della montagna Valbona venne rilasciata al Capitano di Raspo anche da un cittadino, una persona appartenente all'ambiente della cultura dotta. Negli atti concernenti la “differenzia” di Valbona è inserita infatti la testimonianza di dominus Paulus de Bonis, civis, et stipendiatus" in hoc Castro Pinguenti". Aveva partecipato anch'egli alla confinazione di Valbona (29 giugno 1572) e nell’occasione aveva fatto osservare che erano possibili scontri “trà li sudditi della Signoria Nostra et quelli dell’Imperio” in merito alla pascolazione sulla montagna in questio- ne. Il Capitano di Raspo, intenzionato a lasciare “imperitura memoria” dell’appartenenza di Valbona al possedimento veneziano, invitò lo stipen- diatus de Bonis ad autenticare ufficialmente la sua dichiarazione nella cancelleria del Capitanato. Il 10 agosto 1572 egli descrisse un episodio occorso al tempo in cui serviva nel presidio del Capitanio di Raspo, del 72 Per maggiori dettagli cfr. Jacques LE GOFF, Storia e memoria, Torino, Einaudi, 1977 (edizione originale italiana), p. 347-399 e passim. 73 Lo stesso che stipendiarius: lavoratore nelle locali milizie, di solito formate da stranieri, funzionario in paga e simili. Cfr. Giulio REZASCO, op. cit., p. 1144. 74 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die 19 Augusti 1572. M. BERTOSA, Pastori dell’herbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV,2004, p.127-156 151 “Clarissimo messer Donado”, tuttavia nonera ben certo delle date indicate. A giudicare dall’elenco cronologico dei capitani di Raspo, il riferimento poteva essere unicamente al periodo fra il 1526 e il 1528, quando a Pinguente era insediato Filippo Donà (0 Donado)”. Si trattava dunque di 45 anni prima della dichiarazione di de Bonis, dell’epoca della Guerra della Lega di Cambrai (1508-1523). Il testimone poteva dunque avere tra 165 e i 70 anni (e forse era anche più vecchio), e gli avvenimenti descritti erano successi immediatamente prima che egli si stabilisse durevolmente a Pinguente, ossia — come rileva egli stesso — prima che venisse ad abitare da queste parti”. Si ricordava che era scoppiato un contrasto per un pascolo di Valbona quando il capitano di Postumia aveva ordinato la confisca di alcuni capi di bestiame di proprietà dei contadini di Lanischie e di Racia (Raéja Vas). Sebbene il “Clarissimo Erizzo”, successore del citato Donado”, chiedesse l’aiuto del governo di Venezia e inviasse una dura protesta al Capitano di Postumia, non gli riuscì di far restituire gli animali sottratti”. Paolo de Bonis, cittadino pinguentino e stipendiarius del presidio militare di molti Capitani di Raspo, nella sua asciutta ma suggestiva dichiarazione descrisse dei momenti drammatici, peraltro spesso presenti nella quotidianità degli allevatori a Valbona. Un conflitto sui pascoli di questa montagna era scoppiato anche ai tempi del governo di messer Sebastiano Pizzamano, Capitano di Raspo tra il 1532 e il 1534, in merito al quale de Bonis affermò che restituì prontamente il colpo al capitano Manensis. Pizzamano aveva spedito in un’area del territorio nord-istriano governata dagli Austriaci una formazione di militari che a loro volta rubarono diversi capi di bestiame minuto e grosso”. Dopo di che Pizzama- 75 Cfr. Giovanni RADOSSI, op. cit., p. 523. 76 La guerra della Lega di Cambrai, all’inizio del XVI secolo, segnò indubbiamente un’epoca di regresso e di sconvolgente decadimento per la società istriana; fu uno dei primi tragici fattori del processo di emarginazione storica dell'Istria, le cui conseguenze crearono in parte il contesto storico dei secoli istriani susseguenti. 77 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die 10 Augusti 1572. (“inanti, che io venisse stantiar in questi paesi”). 78 Idem. Ilbranocompletoè il seguente: “Sotto la buona memoria del Clarissimo misser Donado (salvo il vero) inanti, ch'io venisse stantiar in questi paesi, fù tolto de ordine del Maneni[s]Capitanio di Postoyna, certi animali de quelli de Lanischie, et di Raciavas, sudditi de questa nostra Illustrissima Signoria per causa de Valbona, per li quali animali fù scritto al detto Manensis, et all’Illustrissima.” 79 IBIDEM (“ne si puotè per ciò ricuperar cosa alcuna”). 80 IBIDEM (“Clarissimo messer Sebastian Pizzamano mandò la compagnia de questi soldati 152. M. BERTOSA, Pastori dell’rerbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV,2004, p. 127-156 no riunì tutti i pastori ai quali durante il suo predecessore Donado gli Arciducali avevano sottratto degli animali, li armò e li integrò ai propri soldati-mercenari. Per tre mesi, secondo la dichiarazione di de Bonis, essi montarono la guardia a Valbona e a tutta l’area veneziana del Carso, senza che la parte avversa osasse intraprendere alcunché*'. Non appena però, come dice il de Bonis, dopo qualche tempo i soldati si ritirarono, venne a crearsi nuovamente una “differenzia”. Manensis inviò una spedizione di quindici fanti armati di fucili che rapirono i pastori dall’erbatico, assieme alle loro caldiere8?. Una volta che la notizia si fu diffusa a Racia, dove, essendo giorno di mercato, oltre a una folla di contadini, c'erano anche quattro stipendiarii - Francesco Verzi*, Ottavian Lugnan, Rudelich e de Bonis - si dette subito inizio all’inseguimento dei rapitori. Questa notizia proviene naturalmente da de Bonis, che aveva partecipato di persona all'impresa. I suddetti mercenari del presidio militare del Capitano di Raspo penetrarono, assieme a un gruppo di fanti dei villaggi vicini*‘, per dodici miglia all’interno del territorio degli Arciducali e liberarono i pastori rapiti assieme (come viene in particolare rilevato) alle loro caldie- re! L'impresa finì tuttavia tragicamente: quando uno degli stipendiarii, il dianzi detto Rudelich, volle avviare trattative con gli Arciducali - secondo i postulati della vecchia cultura popolare —- per una composizione pacifica del conflitto, venne ucciso con un colpo di archibugio. Uccisioni del genere sopra li lochi del ditto Manenses Capitanio ut supra, nelli qual fù fatto un bottin d’animali grossi, et menuti sopra il territorio di Raspo [...]”). 8! IBIDEM (“Il Clarissimo Capitanio rentegrò tutti coloro è quali fù tolto animali sotto il Clarissimo Donado, et cosfesso Clarissimo Capitanio fece star detti soldati sopra il Carso alla custodia di quello per tre mesi, ne mai da lora successe altro”). 8 IBIDEM (*Doppoi certotemponacque un’altra differentia, che questo Manensis mandò alla mandria de Valbona quindeci schiopetteri, et fece levari li pastori dell’herbadego, insieme con le caldiere [...]"). 83 La nobile famiglia dei Verzi erauna delle più antiche di Capodistria. Molti degli appartenenti ai vari rami dei Verzi furono tra il XII e il XVIII secolo noti soldati e condottieri dell’esercito veneziano. La famiglia si è estinta nel XIX secolo. Cfr. Gedeone PUSTERLA [Andrea Tomassich], / nobili di Capodistria e dell'Istria, Capodistria, 1888 (copia anastatica di Forni Editore, Bologna, 1968, 19); Gregorio DE TOTTO, /! patriziato di Capodistria, Atti e Memorie della Società istriana di archeologia e storia patria, Pola, vol. XLIX, fasc.1-II (1939), p. 150-151; Giovanni RADOSSI, Monu- menta Heraldica lustinopolitana: Stemmi di rettori, di famiglie notabili, di vescovi e della Città di Capodistria, Trieste-Rovigno, 2003 (Collana degli Atti del Centro di ricerche storiche di Rovigno, vol. 21), p.417-423. 84 Si tratta probabilmente delle cosiddette cernide (o crna vojska), formazioni territoriali compo- ste da contadini e coscritti, i quali - vuoi per necessità, vuoi per il bottino o il desiderio di vendetta - rispondevano prontamente a tali chiamate. M. BERTOSA, Pastori dell’rerbadego nelle differentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 153 di solito finivano impunite, benché, a causa della drammaticità del fatto e dell’alto prezzo di cui godeva all’epoca una vita umana (tanto più trattan- dosi di un soldato esperto, al colmo delle forze), esse lasciassero strascichi profondi®. La morte del Rudelich ebbe larghi riflessi sulla realtà del tempo. Era l'epoca dei grandi sforzi di colonizzazione organizzata, sia da parte delle amministrazioni centrali che locali veneziane e austriache, visto che i fattori di spopolamento colpivano in grave misura ambedue le parti di questo territorio politicamente diviso. Infatti, agli albori dell’evo moder- no, gli sforzi demografici non erano diretti alla “politica delle nascite” con relativo aumento dei nati ( la cui educazione era lunga, rischiosa, incerta e — soprattutto — costosa !), bensì verso l’”’approvvigionamento”/”importa- zione” tramite immigrazione di uomini “fatti”! Era relativamente “facile” sostituire un bambino morto con uno “nuovo”; invece una persona adulta, sana e vitale (specie di sesso maschile!), che fosse anche di corporatura vigorosa, nei periodi di crisi si poteva ottenere unicamente “importando- la” ossia attraverso le migrazioni), “acquistandola” (ad esempio, condan- nati o deportati, che in tal modo diventavano “merce”) o attirandola con donazioni di terra, facilitazioni e sgravi fiscali. In ogni caso una persona adulta, e specialmente un mercenario addestrato, rappresentavano nell’Istria della prima metà del XVI secolo e nella sua parte settentrionale, nel Capitano di Raspo, un grande valore. Lo sparo del moschetto, che aveva ucciso lo stipendiarius Rudelich, dovette riflettersi pesantemente su ambedue le parti di questo conflitto territoriale. Dopo l’assassinio del Rudelich, la parte avversa si astenne a lungo dal disturbare gli erbatici di Valbona, e il confine/termine dei pascoli (nel periodo in cui erano affittati) si stabilizzò sulla fonte sovrastante Vodizze, nella località che in questo materiale viene chiamata (come già detto) Susvodizze*. Con la frase finale della sua dichiarazione, prestata sotto giuramento®’, de Bonis cercò di definire, in base ai suoi calcoli, il periodo di tempo trascorso dagli avvenimenti descritti: “et questo può esser da anni quaranta.” 85 Cfr. M. BERTOSA, Istra: Doba Venecije, cit., passim. 86 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Die 10 Augusti 1572. (“ne dall’hora in poi è successo alcun disturbo à quelli, che l'hanno avuto ad affitto, et si è goduto pacificamente sino alla fontana de Susvodizze [...]”). 87 IBIDEM (“et sic luramento suo confirmavit”). 154 M. BERTOSA, Pastori dell'rerbadego nelledifferentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 I magistrati veneziani seguivano con grande attenzione e preoccupa- zione questi avvenimenti. Il Capitano di Raspo ricevette le istruzioni lcommissio/ del famoso doge Alvise Mocenigo*5, nelle quali si lodavano i suoi sforzi e gli si ordinava espressamente di custodire gli atti del processo nella cancelleria del Capitanato a Pinguente. Marino Da Cà da Pesaro ubbidì all'ordine del governo e, al già esistente fondo di documenti custo- diti nell’archivio del Capitanato di Raspo sugli scontri attorno ai confini e termini dei pascoli montani di Valbona, allegò un altro della serie di incartamenti®° che con il loro contenuto, specie mercè l’archiviazione della memoria storica ricavata dalle dichiarazioni di anziani testimoni, riempi- ranno quasi tutto il XVI secolo. I confini e pascoli, e in particolare le transumanze, erano profondamente radicati nelle necessità economiche quotidiane di quest’ambiente attraversato da un confine politico. Senza i rigogliosi pascoli di Valbona, ricchi di erbe succose, senza le sue fonti sorgive, senza i suoi fienili per il bestiame e i vasti prati, non avrebbero potuto mantenersi i sudditi veneziani e neanche gli Arciducali austriaci dall’altra parte del confine. Le testimonianze archiviate rappresentano nel contempo anche le pagine più tormentate delle aree settentrionali della Penisola istriana agli inizi dell’evo moderno. 88 Cfr. Andrea DA MOSTO, / dogi di Venezia nella vita pubblica a privata, Torino-Milano, Giunti-Martello, 1983, p. 274-277. 89 ASV. PSCC. Capo d'Istria. Busta 236. Raspo. Processus formatus ex cause confinium Vallis Bone cum Regijs. Da Pinguente li 16 Agosto 1572. Marin da Cà da Pesaro, Capitanio di Raspo. M.BERTOSA, Pastori dell’herbadego nelle differenti veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.127-156 155 SAZETAK: PASTORI DELL’HERBADEGO U MLETACKO- KRALJEVSKIM DIFERENCIJAMA (Dogadaji u nemimo doba pase u sjevernoj Istri u XVI. stoljecu). — Autor je koristio gradu iz DrZavnog arhiva u Veneciji. Tekst predstavlja primjer mikropovijesnog èlanka, a odnosi se na prostor sjeveroistoéne Istre u XVI. stoljeéu, napose u dvjema godinama: 1571. i 1572. Na temelju zapisnika s terenskog ophodenja i izvjava svjedoka detaljno su opisane mnoge Cinjenice o transhumantnome stotarenju, a napose sporovi i sukobi koji su s njime u vezi nastajali oko meda i granica izmedu Mletaèke Republike i Kuée Austrije (odnosno Kastavske gospostije). Rad sadrzi i vaznu metodolosku odrednicu. U sredistu pozornosti ovoga élanka nalaze se dogadaji u dijelu Cifarije, u podruéju oko Vodica, iz druge polovice XVI. stoljeda. To je osebujna arhivska priéa o sukobu pastira na granièénim pa- Snjacima izmedu dvaju politiékih entiteta - mletatke Pokrajine Istre i austrifske Kastavske gospostije. U srediîtu pozornosti nasao se problem otimanja stoke na istarskome sjeveru, na planini Doberdol, u mletaékim dokumentima navedene pod imenom Valbona. Iako u sadrZaju ovoga priloga, povr$no gledano, prevladava kronolosko- dogadajni opis, pozorno fe Citanje uoéiti autorov napor da jednu dramatiénu epizodu koja se odigrala na “nevidljivoj” toèki planin- skoga lanca Cidarije prikaze slojevito i kompleksno. Autor je nastojao upozoriti kako ovo arhivsko vrelo o istarskom transhumantnome stoéarenju u XVI. stoljeéu krije mnoge varijacije osebujnoga mikropovijesnoga pristupa. Nastojao je takoder istaknuti i temeljitije artikulirati najvaZnije odsjeèke ove dosad slabo istrazene i proutèene problematike gospodarske, polititke i diplomatske povijesti, obiéajnog prava i Ijudske svakodnevnice sjevernoistarskoga planinskog podruéja. POVZETEK: PASTIRII “HERBADEGA” V. BENESKO-AVSTRIJSKIH SPORIH (Dogodki v nemirni dobi pastirstva v severi Istri v. XVI. stoletju) — Avtor se je posluzil materiala iz DrZavnega Arhiva v Benetkah. Tekst je primer mikrozgodovinskega èlanka in se nanasa na podroéje severno-vzhodne Istre XVI. stoletja, predvsem med letoma 1571 in 1572. Na osnovi zapisov dogodkov na kraju samem 156 M. BERTOSA, Pastori dell’herbadego nelledifferentie veneto-arciducali, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 127-156 in predvsem s priéevanjem oseb, so bila zelo podrobno opisana dejanja tranzimanse, Se posebno pa spori in konflikti, do katerih je prilo na mejnem podroèju ter pri dolotanju meje med Benesko Republiko in Avstrijsko drZavo (oziroma Kastavskim gospostvom). Delo vsebuje tudi pomembno metodolosko determinacijo. Pritujoti élanek postavlja v ospredje dogodke v Cidariji, na podroéju Vodic v drugi polovici XVI. stoletja. Gre za posamièno pripoved iz arhiva o sporu med pastirji na pasnikih na meji dveh politiénih toék - Podroèja beneske Istre in avstrijskega Kastavskega gospostva. Kot osrednji problem je tu opisano dejanje izsiljevanja Zivine v severni Istri, na gori Doberdol, poimenovani v beneskih dokumentih Valbona. Ceprav v vsebini tega eseja na prvi pogled prevladuje kronolo$ki opis dogodkov, bo s pazijivim branjem opaziti avtorjev trud za predstavitev dramatiéne epizode, ki se je na zapleten nalin odvijala “daleè od odi” v gorski verigi Citarije. Avtor je poskusal opozoriti na dejstvo, da ta vir iz arhiva o istrski tranzimansi v XVI. stoletju prikriva veè razlik posebnega mikrozgodovinskega znataja. Poskusil je tudi poudariti in globje razéleniti najpomembnejse segmente te problematike, do sedaj le malo raziskane in preutéene ekonomske, politiéne in diplomatiène zgodovine ter obiéajnega prava in vsakdanjega Zivljenja Ijudi na gorskem obmoòju severne Istre. G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 157 UN FRATE CON “LI TURCHI” Avventuroso viaggio di un religioso italiano dell’Istria compiuto nel 1640 in Dalmazia e in Bosnia GIACOMO SCOTTI CDU 271.3+929Pelizzer(497.5/.6)(093.3)"1640” Fiume Sintesi Aprile 2004 Riassunto — Sul finire della prima metà del secolo XVII il rovignese fra Paolo Pelizzer, alto esponente dell'Ordine Francescano, venne inviato in Dalmazia e in Bosnia per derimere certi dissidi scoppiati fra i priori di alcuni conventi dell' Ordine nel territorio dominato dagli Ottomani. Di quell'avventuroso viaggio il protagonista presentò ai superiori una dettagliata relazione, quasi un diario. Sulla scia di quel diario è stato ricostruito un itinerario eccezionalmente interessante anche per la comprensione di eventi storici a noi più vicini. PRIMA PARTE L'’istriano Paolo Pelizzer Cominciamo con le presentazioni del protagonista e testimone della storia che andiamo a raccontare. Si chiamava Paolo Pelizzer, era istriano di Rovigno. Troviamo il suo nome nel terzo tomo della Biografia degli uomini distinti dell’Istria del canonico Pietro Stancovich da Barbana!. Dunque, Paolo Pelizzer “del sera fico ordine de’ minori osservanti, da Rovi- gno“, del quale si dice che “sostenne con onore più cattedre nel suo ordine, la reggenza di più conventi, e fu commissario visitatore in varie provincie”. Dopo poche altre informazioni, lo Stancovich conclude col dire: ! Vedi il numero 431 del capitolo VI. L’opera stancovichiana, pubblicata a Trieste nel 1829, è stata ripubblicata negli Atti del Centro di ricerche storiche di Rovigno, Trieste-Rovigno, vol. I-V (1970-1974). 158 G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 “S'ignora il tempo e il luogo della di lui morte, viveva però ancora nel 1668 ch’era il sessantesimo nono della sua età“. Il che significa che, stando allo Stancovich, nacque nel 1600. Tutto qui? No, oggi, grazie alle ricerche compiute dallo studioso croato Kresimir Cvrljak, sappiamo molto di più sulla vita e sull’opera del Rovignese, e sappiamo pure la data della morte?. Nel suo saggio egli si richiama alla breve scheda dello Stancovich, all’arti- colo di un anonimo apparso nel giornale L’Istria di Pietro Kandler? nel quale si dice che “Pre Paolo Pelizzer“ nacque a Rovigno “/a sera del giorno 24 novembre, l’anno del Signore 1600“, e a uno studio di Stipan Zlatovié* ma anche ad altre, nuove fonti. Una di queste è il Necrologio del convento dei frati minori francescani di Ragusa (Dubrovnik) del pater Benvenutus Rode®, nel quale si trova un’annotazione trascritta dal Necrologio del Convento di Sant'Anna di Capodistria; in essa si dice, fra l’altro, che Paolo Pelizzer da Rovigno si spense il 23 dicembre dell’anno 1691: “A. R. F. Paulus Pelizzer a Rubino ex Def. Generalis et Commissarius, qui variis functus legationibus tum in Italia, Hispania et Germania tum in Bosna Argentina, ubi dissidium Regulares inter et Episcopos ortum sedavit. Ac tandem merit et virtutibus praeclarus obiit in Domino anno 1691 (23/12)”. Riparleremo di questa annotazione. Ora però vogliamo rilevare che la fatica degli studiosi della vita e dell’opera di p. Paolo Pelizzer sarebbe certamente facilitata se, nella prima parte del secolo XIX non fosse stato in gran parte distrutto il manoscritto di un’autobiografia di pugno dello stesso Pelizzer (due fascicoli), che si conservava nel convento capodistria- no. 2K, ÙVRLJAK, “Pavao Pelizzer Rovinjanin, 1600-1691“ /Il rovignese Paolo Pelizzer/, Dometi, Fiume, 1990, n. 2, p. 183-196. 3 Trieste, an. II, 1847. Le varianti del cognome Pelizzer sono numerose. Così abbiamo (anche oggi) i Pellizzer, i Pelizier, Pèlizzer, i Pelliser; i Pelizza, Peliza e Pelizzar; Pelizzari, Pellizar, Pelizari e Pellicciari (a Rovigno, Abbazia, Albona, Parenzo, Pola, Zara), ma anche la loro croatizzazione in Pelizijer, Pelicer, Pelicarié, Pelitarié (a Braliéi presso Parenzo, a Portole presso Pinguente, a Zara ed a Zaravecchia — Biograd na moru). Vedi a proposito Leksik prezimena Socijalistitke Republike Hrvatske /Repertorio dei cognomi della Repubblica socialista di Croazia/, Zagabria, 1976. 4 “Izvjestaj o Bosni god. 1640. p. Pavla iz Rovinja“ /Relazione dell’anno 1640 sulla Bosnia di p. Paolo da Rovigno/, Starine JAZU /Antichità dell’Accademia jugoslava delle scienze e delle arti/, Zagabria, vol. XXIII (1891). 5 Necrologium fratrum minorum de observantia provintiae S.P. Francisci Ragusii. G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 159 L’odissea diun manoscritto Nei primissimi anni dell’Ottocento, scrivendo di p. Paolo Pelizzer, il canonico P. Stancovich annotò: “Si conservano ms. (manoscritte) varie sue prediche nel convento del suo ordine in Pirano“. La scheda biografica stancovichiana del Pelizzer sarebbe meno avara se il canonico barbanese avesse seguito le tracce del Rovignese nel vicino convento di Capodistria per cercarvi l’autobiografia e numerose lettere lasciatevi dallo stesso Pe- lizzer, documenti che erano ancora intatti persino all’epoca in cui il già citato Stipan Zlatovi6, nel 1891, pubblicava la «Relazione di p. Paolo da Rovigno» sul suo viaggio in Bosnia. Le ultime righe dell’autobiografia pelizzeriana dicevano: “Sebene hora che copio il mio viaggio, 1661, durando la guerra del Gransignore con la Serenissima Repubblica . .. “. Il Nostro, dunque, scrisse quelle ultime sue righe nel 1661. A Capodistria, oggi, non è più possibile trovare nulla. Nazionalizzato l’edificio del convento, dopo l’annessione dell'ex Zona B alla Jugoslavia e trasformata gran parte del convento in carcere, da esso sparirono tutti gli archivi, e di essi si è persa ogni traccia. Tale stato di cose venne confermato il 5 giugno 1989 da padre Anastasio KocijantiC, l’unico francescano presente allora nella parte del convento capodistriano sfuggita alla nazionalizzazione ed alla trasforma- zione in prigione, in un colloquio con il ricercatore Kresimir Cvrljak. All’autobiografia del Pelizzer fa riferimento più volte Sebastiano Dolci-Slade nella sua opera Monumenta Rhacusina; alla stessa fonte si riferisce ancora lo Zlatovié nel suo saggio, scritto nel 1888, nel quale si citano pure varie lettere del Pelizzer. Negli anni Ottanta del secolo XIX, infine, quanto era rimasto del manoscritto pelizzeriano passò anche per le mani del francescano e storico bosniaco Mijo Vjenéeslav Batinié, che se ne servì per la sua opera sull’operato dei francescani durante i primi secoli della loro permanenza. Ma come fu distrutta l’autobiografia del Rovignese? Dobbiamo tornare a Benvenuto Rode. Costui, dopo aver ricevuto dai suoi confratelli capodistriani la trascrizione di alcuni brani dei documenti dei quali si servì per il Necrologium raguseo, chiese anche la trascrizione dei due fascicoli dell’autobiografia del Pelizzer. Si offrì di eseguire il lavoro, dietro il compenso di 50 fiorini, il padre francescano Giorgio Vitali © Djelovanje franjevaca u Bosni i Hercegovini u prvih $est vjekova njihova boravka /L’operato dei francescani in Bosnia ed Erzegovina durante i primi sei secoli della loro permanenza/, Zagabria, 1883. 160 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 di Pirano, già provinciale della provincia dalmata dell’ordine nel 1821 e lector iubilatus, spentosi poi nel 1827. Il Rode riuscì a trovare un ricco benefattore disposto ad accollarsi le spese della trascrizione, ma costui ben presto morì. Rivoltosi a un’altra persona, un istriano colto oltre che benestante, per procurarsi dei libri, il Rode ricevette da questi una lettera, spedita da Capodistria, nella quale fu informato che il manoscritto del Pelizzer esisteva effettivamente nel convento di Sant'Anna, ma poiché conteneva parecchie informazioni sui frati che avrebbero potuto scanda- lizzare i lettori laici, i padri francescani capodistriani — e in primo luogo p. Raimondo Benvenuti da Pirano, bibliotecario del convento! — erano corsi ai ripari. Per impedire che quelle notizie scandalose prima o poi divenissero di pubblico dominio, distrussero l’intero primo fascicolo e la prima metà del secondo. Inoltre la seconda parte del secondo fascicolo fu ampiamente censurata. Queste informazioni furono confermate da una persona di fiducia del Rode, padre Leone Borcich, trovatosi a passare per Capodistria. Costui aggiunse che, ahimè, i fatti scandalosi dei frati annotati da Paolo Pelizzer nell’autobiografia erano effettivamente avvenuti: “i! p. Paolo scriveva la santa verità e diceva ogni cosa sinceramente“. Commento del Rode: padre Raimondo ha fatto male a distruggere quel manoscritto, avreb- be dovuto limitarsi a tenerlo nascosto, senza darlo a leggere a nessuno! Da Rovigno a Capodistria via Milano e Vigevano Rovigno ed Albona furono assalite e saccheggiate dagli Uscocchi quando, nella prima città, nacque Paolo Pelizzer. Quell’anno fu bruciato vivo a Roma, in Piazza dei Fiori, l’ex frate Giordano Bruno. In quell’epoca l’Istria attraversava un penoso periodo, contrassegnato da frequenti incur- sioni uscocche che portarono alla Guerra di Gradisca detta anche “degli Uscocchi”, con immani devastazioni e carestia, ma anche dalla malsanità di ampie parti della penisola. Nel suo libro La popolazione dell’Istria nell’età moderna Egidio Ivetié* cita una relazione del Provveditore Fran- Tp. Raymundus, «scientia, praedicationis laboreetregulae observantia commendatus», si spense a Capodistria nel 1850. 8 Pubblicato nella Collana degli Atti del Centro di ricerche storiche di Rovigno, Trieste- Rovigno, n. 15 (1997). G. SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.157-244 161 cesco Basadonna secondo, il quale nel 1625 Pirano, Rovigno, Isola e Muggia erano terre “convenientemente popolate in buonissima aria”, mentre “le altre terre e città marittime che sono Puola, Parenzo, Cittanova et Umago sono quasi spopolate” a causa della loro “aria morbosa”. Nell’interno erano ben popolate, perchè “in buon’aria”, Dignano, Monto- na, Buie e Pinguente, mentre erano scarsamente popolate e “d’aria non molto salubre” Valle, San Lorenzo, Grisignana, Portole, Due Castelli, il Castello di Raspo, ecc. Basta pensare che, nonostante sistematici insedia- menti di Morlacchi e di altre genti soprattutto slave, favoriti dalla Serenis- sima specialmente nel Parentino, nel Rovignese e nella Polesana tra gli anni Sessanta e la fine del Cinquecento, ma anche nei primi anni del Seicento, la popolazione dell’Istria era ridotta a 47.000 individui all’epoca della nascita del Pelizzer per scendere a poco più di 36.000 anime quando costui raggiunse i venticinque anni. Avviare i figli alla “carriera religiosa, era, per molte famiglie, una buona via d’uscita dalla miseria. All’età di 16 anni, Paolo indossò il saio dei fraticelli in un convento della Provincia di S. Girolamo, secondo l’Anonimo corrispondente del Kandler, forse nel convento di S. Andrea nell’isola omonima davanti alla costa rovignese. Sulla “vaga isoletta”, distante da Rovigno un miglio circa, i frati dell'Ordine dei Minori, detti Padri Osservanti ed anche Zoccolanti “della regolare Osservanza di S. Francesco della Provincia di Dalmazia” erano presenti dal 1448, anno in cui la chiesa di S. Andrea e l’annesso Ospizio dei Benedettini, rimasti abbandonati da alcuni secoli, furono loro ceduti “usu et habitatione perpetuis”. Quindi, per cura di S. Giovanni da Capistrano, che probabilmente fu il primo guardiano, chiesa ed ospizio “furono ampliati e quasi riedificati con solidità e magnificenza, e convertiti in ampio Convento” come ci dice lo storico rovignese Bernardo Benussi nella Storia documentata di Rovigno (1888). I francescani rimarranno sullo scoglio fino a quando il convento non sarà soppresso dal Governo francese nel 1809 e i frati incorporati al Convento dello stesso ordine in Capodi- stria. All’età di vent'anni, Paolo Pelizzer, per proseguire gli studi, passò a Milano, a Piacenza e in altre città italiane fra cui Vigevano dove, nel convento della Madonna, studiò logica. Dopo di che «sostenne con onore più cattedre del suo ordine, e la reggenza di più conventi», come dice Stanco- vich senza precisare quali e dove. Nel 1629 lo troviamo nella vecchia patria, l’Istria, padre guardiano nel convento di S. Anna a Capodistria. Sopra la porta del refettorio di quel 162 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 convento — aggiunse Stancovich — “esiste un di lui ritratto fatto da Stefano Celesti nel 1640° nel cui contorno è scritto: anno aetatis suae 41 postquam totam Bosnae Argentinae provinciam visitavit, pacificamque reddidit, episco- pos patresque reconciliavit“, episodio quest’ultimo al quale accenna anche il necrologio di Benvenuto Rode. Ma prima di arrivare al 1640, vediamo che il giovane guardiano del convento di Capodistria divenne anche predicatore nella cattedrale di quella città. Inoltre sappiamo che il 20 ottobre del 1630, in occasione del giubileo cattolico, sotto il papa Urbano VIII, tenne una predica a Pirano, dove, nel convento francescano di San Bernardino, “si conservano mano- scritte varie sue prediche“ (Stancovich). Stanno ancora lì? La fama di predicatore di p. Paolo Pelizzer volò lontano. Anno dopo anno lo invitarono a tenere prediche in varie città della costa e delle isole adriatiche: nel 1634 a Sebenico, nel 1636 a Cattaro, due anni dopo a Veglia, nel 1639 nella cattedrale capodistriana. Prediche per la Quaresi- ma, occasionali e di ringraziamento. Possiamo supporre, considerando i tempi che correvano e le tematiche prevalenti degli scrittori istriani e dalmati dell’epoca, che molte delle prediche tenute da p. Paolo Pelizzer nella sua Istria e in Dalmazia furono incitamenti a combattere il Turco, nemico principale di Venezia e della cristianità europea per buona parte del Seicento, dalla Guerra di Candia fino all’assedio di Vienna. I mano- scritti di quei sermoni, probabilmente tenuti anche in varie città d’Italia, furono consultati dal Rode, il quale constatò la presenza, “in archivio S. Annae lustinopoli* di ben “tria volumina horum sermonum manuscripta (...) habenta plurimas notas, notunculas, glossas manu ipsius conscripta“. Quelle note, glosse eccetera ai tre volumi di testi fanno pensare che l’autore sperava di poterli un giorno o l’altro pubblicare! La missione in Bosnia “Nell'anno 1639 fu al capitolo generale in Roma, e dal generale dell’or- dine pad(re) Benigno da Genova fu spedito commissario visitatore della ° Nell’ Enciklopedija likovne umjetnosti Enciclopedia dell’arte/, Zagabria, 1959, Branko FUCIÙ erroneamente afferma che il quadro raffigura Fra Pasquale, un frate del convento di S. Anna. !© Un altro famoso predicatore istriano fu il francescano Padre Fortunato da Pisino un cui sermone tenuto nel 1698 nella chiesa di Sant'Eufemia a Rovigno, fece rumore. Vedi Andrea D'ARU- PINO, «Il convento francescano di Rovigno», in Corriere Istriano, Pola, 3 marzo 1936. G. SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 163 provincia della Bosnia Argentina“ dove, con la sua parola persuasiva e le sue doti di abile diplomatico, riuscì a calmare le acque di una rivolta nella quale si erano trovati implicati gli uni contro gli altri, in lotta, il popolo dei credenti cattolici, i frati francescani, il clero e la sua gerarchia (su questo argomento la Bosnia-Erzegovina anche ai nostri giorni torna spesso agli onori della cronaca politica per i rapporti assai poco evangelici e i dissidi che scoppiano fra i frati francescani e l'autorità vescovile, rispettivamente fra il Vaticano e le gerarchie croate della Provincia francescana della Bosnia Argentina. Così chiamata perché il suo capoluogo religioso, nel Medio Evo, era l’odierna Srebrenica allora nota per una miniera di argento). Tutto era cominciato in seguito al verificarsi di un caso veramente straordinario nella storia della chiesa cattolica: contemporaneamente, sul territorio di un’unica diocesi — quella pur vasta della Bosnia Argentina — vennero a insediarsi ben tre vescovi, tutti francescani: fra Hieronymus Lucich etiam Bogoslavich, vescovo di Drivasto (Drishti, in Albania), il vescovo di Scardona (Skradin) fra Pavle Posilovié e fra Tommaso Mrnavié, vescovo di Sebenico. Curandosi più della propria incolumità che delle diocesi affidate alle loro cure, questi vescovi si erano allontanati dalle proprie sedi in Dalmazia minacciate da presso dalla presenza delle truppe turche, trovando rifugio in conventi più sicuri, ma pretendendo di eserci- tare la loro autorità vescovile sulle comunità della Bosnia centrale o su parti di essa, venendo fra di loro a conflitto. Le liti divennero furibonde specialmente fra il Lucich e il Mrnavié (il primo se la prese tanto a cuore, che sarà stroncato da un colpo apopletti- co), ed i contrasti portarono alla creazione di fazioni o partiti fra i parroc- chiani e il popolo a sostegno di questo o quel vescovo. Le lagnanze arrivarono fino a Roma, per cui i vertici dell'Ordine decisero di convocare in quella capitale del mondo cattolico il Capitolo generale dei francescani nel 1639. E dal Capitolo, come già accennato, il Pelizzer fu incaricato di sbrogliare la matassa. Allo scopo, e in via del tutto eccezionale, fu nomi- nato visitatore e presidente del concilio provinciale della Provincia bosnia- ca dell’ordine che quell’anno contava 17 conventi, 100 ospizi e 412 frati. Quello stesso anno, nel giorno di S. Giovanni Battista, fra Paolo Pelizzer riuscì a convocare i vescovi, priori, guardiani ed altri dirigenti dei conventi francescani bosniaci in località Rama, risolvendo i contrasti e riportando la concordia, come si legge in Storia dei frati minori (Zara, 1863) di Donato Fabianich. Portando a termine quella missione Paolo 164 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 Pelizzer dimostrò oltretutto di avere un grande coraggio, oltre che di godere di alto prestigio e profonda cultura, esponendosi ai gravi pericoli di un viaggio di per sè difficoltoso date le condizioni della regione attraversata, la presenza dei Turchi, di aiducchi eccetera. Va precisato, in proposito, che il viaggio durò parecchi mesi, nel corso dei quali il Rovignese, “uomo impavido e di cuore ardimentoso“, come lo definisce lo Zlatovi}, “visitò tutti i conventi da un estremo all’altro della vasta provincia bosniaca dell’Ordine“. All'epoca del viaggio di P. Pelizzer in Bosnia, fra la Serenissima Repubblica e la Turchia correvano buoni rapporti e nulla faceva prevede- re le tre durissime guerre che Venezia avrebbe combattuto contro il Turco tra il 1645 e il 1718. Nel 1605 erano state composte le ultime “differenze” peri confini in Dalmazia e, a dirla con lo storico zaratino Giuseppe Praga, erano state poste “tutte le premesse per scambi commerciali oltremodo vivi e promettenti”. E tali divennero nei quattro decenni successivi. A Zara, Obrovazzo, Sebenico, Salona di Spalato scendevano in folla morlac- chi e turchi “con bestiami, buoi, cavalli, carni secche e salate, lane, formaggi, cuoi e pelli, metalli, cera, miele che, caricati su vascelli, prendevano la via di Venezia”. Dagli stazi e dai barcagni di Zara salpavano grossi galeoni detti manzere per il trasporto di buoi e cavalli: ogni anno ne partivano dai sedici ai ventimila capi. La scala di Spalato divenne luogo di convegno di “mer- canti balcanici, persiani e indiani,” sì da essere definita “anello d’oro fra Oriente e Venezia”. Ciononostante, perdurando nei circoli ecclesiastici cattolici una tenace ostilità e una sottile propaganda contro gli “infedeli”, è possibile capire che quella in Bosnia, per P. Pelizzer, non doveva somi- gliare a un’allegra gita. In ogni turco vedeva un mangiacristiano. Del suo viaggio attraverso la Dalmazia e la Bosnia, Paolo Pelizzer lasciò una dettagliata relazione, il cui manoscritto originale purtroppo è andato perduto. Ne conosciamo tuttavia il contenuto, perchè nel secolo scorso, la relazione fu tradotta dall’italiano in croato dal già menzionato Stipan Zlatovié. Lo Zlatovié trovò i manoscritti del Pelizzer negli archivi dei conventi di Visovac sul fiume Cherca (Krka) e di San Martino (Sumartin) sull’isola di Brazza. Non si dice quando quei manoscritti furono trovati; certamente non dopo il 1883, anno in cui il francescano fra Mijo Vjenceslav Batinié ringraziò in una lettera lo Zlatovié per avergli permesso di servirsi del manoscritto pelizzeriano!!. Ben presto lo Zlatovié si convinse che i mano- Ul Cfr. M. V. BATINIG, op. cit., vol. Il per gli anni 1517-1699. G.SCOTTI, Un Frate con“Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 165 scritti da lui trovati erano in realtà due diverse relazioni della descrizione del Pelizzer del suo viaggio in Bosnia. Nella variante di Visovac trascritta a Venezia nel 1772, era descritto il viaggio attraverso i conventi della Dalmazia, e pare che si tratti di una trascrizione fedele di una descrizione di tutte le località attraversate dal Rovignese. Se però si tiene conto dell’articolo dell’anonimo corrispondente de L’/stria del Kandler, pubbli- cato nel 1847, nel quale vengono fornite “notizie intorno alla persona di Paolo Pelizzari, estratte dalla storia de’ suoi viaggi, scritta da lui medesimo“, si deve concludere che quell’anonimo lesse il manoscritto di Pelizzer quattro decenni circa prima dello Zlatovié. Dove lo aveva trovato? A differenza dell’Anonimo corrispondente de L’Istria, lo Zlatovié accanto alla traduzione riporta quasi interamente il testo della “Nobil Memoria“ del frate rovignese attento ad ogni particolare pittoresco, ai paesaggi, agli “insoliti costumi” ed usi delle popolazioni, alle cose e feno- meni rari, alle circostanze fuori del comune: il Pelizzer anticipò di qualche secolo gli scrittori di viaggi del romantico Ottocento. Le sue descrizioni, per di più, sono intessute e avvolte in un’atmosfera di favole e meraviglie. A sua volta lo Zlatovié, buon conoscitore dei territori attraversati dal Pelizzer, arricchisce l’esposizione del manoscritto con numerose note, osservazioni, correzioni e aggiunte personali. Dai conventi istriani a Roma Considerato il successo della missione del Pelizzer, il nunzio apostoli- co a Venezia propose al papa di affidargli il governo spirituale della diocesi di Caorle, una sede rimasta vacante. Si ignora l’esito della propo- sta, ma è certo che il Pelizzer, l’uomo dal quale era dipeso il destino di tre vescovi, non divenne mai vescovo. Nel 1641 fu nominato guardiano del convento francescano (dei frati zoccolanti) nella natale Rovigno, precisa- mente sull’isola detta allora “Isola di Serra” o “della Sera” (Monasterium Sancti Andreae de Sera), i cui frati vivevano delle elemosine fatte loro dai marinai e dai pescatori. Fra Paolo Pelizzer non rimase a lungo con i suoi Rovignesi, ben presto assunse la guida del convento di S. Bernardino di Pirano, da dove nel 1642 compì un nuovo viaggio a Roma. L’anno successivo, in occasione della quaresima, tenne un ciclo di prediche a Veglia; nel 1644 predicò nella sua 166 G.SCOTTI, UnFratecon“LiTurchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 Rovigno e, nel 1645 nuovamente a Rovigno e poi ancora una volta a Veglia. A un Capitolo dell’Ordine svoltosi a Pirano entrò a far parte del vertice della Provincia francescana liburnico-istriana, e nel 1646-47 fu anche padre provinciale. Sulle isole quarnerine e nell’Istria occidentale i conventi dei Frati minori francescani erano in quell’epoca numerosi. Nel 1648 troviamo il Pelizzer predicatore nella cattedrale di Zara, l’anno successivo in quella di Capodistria, invitatovi dal vescovo Morari. Nel 1650, stando alle annotazioni lasciate dallo stesso Pelizzer, predicò per la quarta ed ultima volta nella Collegiata di Santa Eufemia a Rovigno. In quel periodo, grazie al suo intervento, furono portati a termine l’amplia- mento e il restauro generale del convento di Sant'Andrea in Scoglio che assunse una forma diversa dall’antico, con un nuovo chiostro, una foreste- ria e uno squero. Furono anche costruiti dei giardini con colonnati e vialetti. Ne troviamo un cenno nella “corografia” sull’ Istria del vescovo di Cittanova F.P. Tommasini, il quale, visitando la penisola istriana in quell’epoca, scrisse nel diario di viaggio: “Lo scoglio è grande quasi un miglio, e vi è un poco di arsenale d’acconcia vascelli ed alcune stanze di forestieri con cisterna ed orto bellissimo, e un giardino di F. Paolo da Rovigno con alcune cose gentili“!?. L'orto del convento, il “giardino di P. Paolo da Rovigno” e un annesso boschetto di bosso e di elici, già elogiato in una ducale del 1 giugno 1543, rendevano l’isoletta un delizioso soggiorno. Ma P. Paolo Pelizzer ebbe poche occasioni per godersi quella bellezza e quel mare. Nel 1651 venne convocato a Roma un nuovo Capitolo generale dell'Ordine francescano e il 27 maggio vi fu presente anche Paolo Pelizzer che rimase in quella capitale per alcuni anni, probabilmente come guar- diano del convento di S. Girolamo. Stando allo storico Pietro Kandler, il frate rovignese assistette tra l’altro ai festeggiamenti per l’arrivo della regina Cristina di Svezia che, dopo aver abdicato al trono nel 1654, venne a Roma per convertirsi al cattolicesimo. Due anni più tardi, nel 1656, il nuovo generale dell'Ordine, P. Sebastiano da Gaeta, nominò il Pelizzer visitatore della provincia Bresciana, della Toscana e, l’anno successivo, della Marca Anconitana e dell'Umbria. 12 G. F. TOMMASINI, De’commentarj storici-geografici della Provincia dell’Istria, Trieste, 1837 (Archeografo Triestino, vol. IV), p. 425-426. G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 167 Francia, Spagna, Germania Dopo aver speso due anni viaggiando attraverso le regioni centrali dell’Italia, P. Pelizzer intraprese nel 1658 un viaggio ancor più lungo e faticoso nella Francia meridionale, da dove raggiunse la Spagna. Il suo è un viaggio di ispezione che lo qualifica portavoce della più alta carica dell'Ordine. Non a caso partecipa a Toledo a un Capitolo generale, men- tre “in Madrid esaurì importanti commissioni nella sua religione avvicinan- dosia personaggi i più illustri“, come scrive lo Stancovich. Successivamente compì un viaggio anche in Germania, ma nulla si conosce di questa missione. Si sa soltanto che, al ritorno in patria, espresse il desiderio di riposarsi, di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in mezzo ai suoi. Poi, per circa trent’anni, di fra Paolo Pelizzer si perde ogni traccia. Ci resta soltanto quell’annotazione trascritta dal Necrologio del Convento di S. Anna di Capodistria, secondo la quale padre Paolo da Rovigno si sarebbe spento nell’antivigilia di Natale del 1691, dunque novantenne, lasciando incompiuta la propria autobiografia!*. 13 Vedi G. SCOTTI, “Paolo Pelizzer, un Istriano in Bosnia“ Panorama, Fiume, 30 settembre 1994, n. 18. 168 G.SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti,vol.XX.XIV, 2004, p. 157-244 SECONDA PARTE Comincia l’avventura: viaggio in Dalmazia Il manoscritto della Memoria del viaggio di P. Paolo Pelizzer, come già accennato nella prima parte, fu parzialmente distrutto e in parte censurato dai suoi confratelli nel convento francescano di S. Anna in Capodistria dove l’autore lo aveva depositato. A sua volta, il già citato Stipan Zlatovi6, che rintracciò, trascrisse e commentò la Memoria presen- tandola all'Accademia delle arti e scienze di Zagabria nel 1888, nel pub- blicarla tre anni dopo, assicurò di averla “esattamente e fedelmente trascrit- ta”, lasciandone però fuori alcuni brani, qua e là: “Abbiamo tralasciato unicamente (traduco dal croato) ciò che riguarda la speciale regola religiosa interna, e queste son cose che non vanno messe in pubblico, nè potrebbe in qualche modo interessare la storia nazionale di quell’epoca”. Un ducato d’oro di Contarini Nella sua Memoria Paolo Pelizzer comincia col dirci che la “patente” e cioè il decreto con il quale gli si ordinava di intraprendere la missione in Dalmazia e Bosnia gli venne consegnata “/a vigilia dell’apostolo, S. Toma- so” a conclusione del Capitolo Generale dei Francescani svoltosi nel 1639 a Roma, quando fu eletto alla guida dell'Ordine “il P. Reverendissimo Marinero, e Commissario Generale il P. Reverendissimo Benigno”. Quella patente capitò al Pelizzer con suo “grandissimo disgusto”, e tuttavia obbedì. Portato a termine un ciclo di prediche, il commissario visitatore si ritirò nella nativa Rovigno, ove si trattenne “sino li 20 Genaro” 1640. Quel giorno fra Paolo raggiunse Capodistria, porto di imbarco per Zara, sua prima meta. Al momento della partenza, presentatosi per “licenziarsi” al Podestà e Capitano del capoluogo istriano dell’epoca, “un vecchione chia- mato Contarini”, forse Carlo, questi gli mise in mano, anzi gli “cacciò nella manica un duccatone”, sollecitandolo a pregare per la sua salute la Madon- na di Costantinopoli. “Credeva che dovessi giungere sino a Costantinopoli; ma quello che non feci ivi, feci alla SS. Vergine di Piombo, Vergine tanto miracolosa, che tutto l’oriente corre a venerarla per giorno della Assunta, G.SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 169 come si vedrà a suo luogo”. Purtroppo, le preghiere non allungarono la vita del vecchio e malato Contarini, che morirà quello stesso anno, il 18 novembre, quale podestà di Rovigno. Dopo aver trascorso in navigazione le ultime ore del giorno 20, la notte successiva ed il giorno e la notte del 21 gennaio, il veliero con a bordo l'illustre viaggiatore francescano ammainò le vele a Zara il 22. Nella Memoria Pelizzer non fa il nome dell’imbarcazione, ma si suppone che fosse un “Cimbo”, galea di cui si servivano sull’ Adriatico i frati francescani conventuali in quell’epoca, immancabilmente i provinciali e gli altri reli- giosi di alto rango in visita canonica ai conventi della loro provincia. A Zara fra Paolo andò a trovare immediatamente l’ Arcivescovo Benedetto Capello, patrizio veneziano, “cervello fantastico”, suo grande amico (anzi “mio amicissimo quando era secolare”). In seguito, in nome di quell’amicizia, il Capello era stato più volte ospite del Pelizzer nel convento sullo Scoglio di Sant'Andrea di fronte a Rovigno. Informato dell’arrivo del frate francescano, l’arcivescovo lo aspettava “con grandissimo desiderio”. Gli mandò incontro al porto il primicerio del clero zaratino e futuro Vicario Apostolico a Cherso, Mons. Valerio Ponte, dal quale gli fece dire “che havrebbe gusto di parlarmi”. Il Pelizzer fu perciò accompagnato al Palazzo vescovile, dove Mons. Capello accolse l’amico in camera da letto, anzi “in letto”. L’arcivescovo sperava che Paolo avesse l’autorità di fargli “restituire le Parochie, che possedevano quelli Padri (francescani) nella Diocese di Zara”, ma il Pelizzer lo disilluse: “io gli risposi, che volentieri l’havesi servito, quando havrei tale autorità, ma che a me s’aspettava solo congregare li Fratti, e celebrare il Capitolo, ma non già alienare le Parochie; questo come che era huomo bestiale senza discorso: horsù scriverò all'Ingoli; l’Ingoli era Secretario della Propaganda fide, e si voltò con la faccia verso la parete; e sì come egli voltò le spalle a me, così io voltai dorso, e me ne andai insalutato hospite, id est Archiepiscopo”. Chiaro, no? Uomo di chiesa, altissimo prelato, ma con la rabbia in corpo, nemme- no l’antica amicizia gli impedisce di diventare “huomo bestiale”. Il Pelizzer lo ripaga con la stessa moneta. Parrocchie e distretto turco Commentando a questo punto la “Memoria” del Pelizzer, il relatore dell’Accademia zagabrese Zlatovié spiega che tutte le parrocchie di quella 170 G. SCOTTI, Un Frate con“Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 parte del territorio dell’arcidiocesi zaratina che si trovavano nel cosiddetto Distretto turco, cioè sotto il dominio ottomano a cominciare da Zemunico (Zemunik), erano amministrate dai Francescani del convento di Visovac; perchè soltanto essi possedevano le licenze (“adhumani”) rilasciate dai sultani e i relativi permessi dei locali comandanti turchi di insegnare la religione e di celebrare i riti cattolici alla popolazione cristiana; ai preti secolari questo non era permesso. Nell’archivio del convento di Visovac si conservavano numerosi originali di quelle autorizzazioni turche, una delle quali diceva: “Se un prete viene sorpreso a celebrare messa nel Distretto, fin là dove si estende il potere turco, pagherà con la sua testa”. Questa era la ragione per cui i frati francescani “erano costretti ad amministrare quelle parrocchie che l'arcivescovo pretendeva che gli venissero restitui- ie”. Nella bella città dalmata fra Paolo Pelizzer si trattenne per circa un mese, per l’esattezza ventiquattro giorni, e il motivo di una così lunga sosta va ricercato nell’atteggiamento ostile manifestato nei confronti dell’illu- stre visitatore da alcuni alti esponenti religiosi. In quel periodo, per mezzo di “un certo Monsignor, che serviva gli Padri come Procuratore”, il Pelizzer spedì delle lettere “et al P. Provinciale et alli Padri de Vissovaz, primo Convento di quella Provincia”. Le risposte arrivarono quattro giorni dopo: il Padre Provinciale, P. Mariano Marovich, fece rispondere di essere “febbricitante in Rama”, un lontano convento in Bosnia, e quindi impossibilitato a ricevere il Visitatore. In realtà volle farsapere la sua viva opposizione a che un forestiero, o meglio un “alieno” ficcasse il naso negli affari della provincia. “Questo galante huomo,- citiamo la prosa del Pelizzer — invece di rispondermi, scrisse per tutta la Provincia, mandò messagieri a posta a solevar tutti li Guardiani che facessero scritture testimoniali, come era impossibile che un alieno visitasse quella Provincia. Onde che dopo l’haver aspettato il corso di 24 giorni, dico giorni venti quatro, rissolsi far levata et andare a Sebenico . . .”. Il risentimento del Pelizzer verso il Marovich che quattro anni dopo sarà nominato vescovo, (‘segno che era molto stimato presso la Curia romana”, spiega lo Zlatovié) sarebbe fuori posto, poiché il Padre Provin- ciale non faceva altro che difendere certi antichi privilegi di quella provin- cia francescana, fra i quali quello di proporre essi stessi, scegliendoli fra i propri confratelli, il Visitatore e il Presidente del Capitolo. E questo, spiega ancora lo ZlatoviC, per gravi motivi. In conseguenza delle numerose G. SCOTTI, UnFratecon“Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 171 e continue guerre fra Turchi e Stati cristiani, le autorità ottomane della Bosnia sospettavano che gli emissari della chiesa cattolica in arrivo dall’estero — frati compresi — fossero delle spie dei governi nemici, mandati nella regione per individuare fortezze e valichi, spiare la presenza di guarnigioni militari, soppesare la forza turca, e informare di tutto i loro mandanti. Correva pure voce che quei religiosi stranieri venissero per raccogliere denaro dai sacerdoti e dalla popolazione cristiana di Bosnia per portarlo quindi a Roma dove venivano preparate e finanziate congiure antiturche. Le autorità ottomane di Bosnia, infine, temevano che quei forestieri venissero per assoldare soldati fra i sudditi cristiani in vista di insurrezioni contro il potere del sultano. Per tutti questi motivi era cessato da tempo l’invio di Visitatori pastorali stranieri in Bosnia. Ora però che negli stessi vertici dell’ordine francescano in quella regione si erano prodotte profonde scissioni, erano scoppiate faide, solo un Visitatore esterno ed obiettivo poteva tentare di riportare ordine e pace; a questo scopo Roma aveva scelto Paolo Pelizzer che, oltre all’italiano ed al latino — stando allo Zlatovié — conosceva anche la lingua croata. Alla luce di quanto spiegato, però, la missione del Pelizzer si presentava parecchio pericolosa. Il 16 febbraio il Visitatore s'imbarcò a Zara per raggiungere la vicina isola di Murter. Aveva cambiato programma: non più Sebenico quale prima tappa: “mi si rappresentò l’occasione e m’imbarcai con un grupetto. Il giovedì grasso arrivassimo a Stretto, villa de là di Morter”, il maggior centro abitato dell’isola, oggi detto Tijesno, dove fu ricevuto “in casa di un certo Nicollo Orada” conosciuto “in quel paese (come) Micola Ovratich”. In quella famiglia ben numerosa e composta di sole donne, escludendo il detto Niccolò ovvero Mikula, fra Paolo Pelizzer fu accolto con tutte le cortesie. “Dopo la cena recitassimo il sommo stellario (rosario?), m’accomoda- rono il mio stramazzo in mezzo alla casa, hebbero tanto buon esempio di quelle devozioni, che coricatomi nel letto tutte quelle giovinette mi stringevano le coperte attorno acciò non fusse offeso dal vento Borea, che veniva per le fessure della porta; et era un freddo crudele, e ciò fecero con grande carità e con grande semplicità”. 172 G. SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV,2004, p. 157-244 Da Murter a Crappano L’indomani il religioso lasciò Stretto/Tijesno e l’isola di Murter, im- barcandosi per l’isoletta di Crappano (Krapanj), dove c’era un convento francescano (il “mio Convento”). Qui “fui accolto dal Padre Lorenzo da Sebenico Guardiano” e da un Padre “bosnese” cioè bosniaco. L’isola, estesa su 0,36 chilometri quadrati, separata dalla terraferma da un canale largo non più di trecento metri, abitata da pescatori di spugne, era stata possedimento del Capitolo di Sebenico fino al 1446. Da quell’anno ne erano padroni i francescani che vi avevano costruito il loro convento e poi la chiesa, questa terminata nel 1523. Durante le incursioni turche dalla fine del XV secolo in poi vi trovarono rifugio gli abitanti dei villaggi della costa. Da Crappano, Pelizzer scrisse una seconda lettera ai confratelli di Visovac, stavolta però soltanto per comunicare il suo imme- diato arrivo, e “acciò mi mandassero à levare”. Stavolta la risposta dal convento di Visovac fu sollecita: “mandarono qui due frati e mi risposero, che mi trattenessi, che sarebbero venuti consacrar il Vescovo Thomaso; e mi condurrebbero con maggior honoratezza, e tanto maggiormente quanto che hora, dicevano loro, sono freddi crudissimi, et nevi, giaci, (ghiacci, ndr) che non (si) può viaggiar. Ma io che stava sopra spini, dubitavo di quel che mi poteva intravenire”. Insomma, il Pelizzer intendeva ripartire al più presto. Ma nonostante gli sembrasse di stare sugli spini, non se la passò male. Approfittò dei giorni di sosta sull’isoletta — circa una settimana — per festeggiare il Carnevale insieme ai confratelli ed alla popolazione del villaggio. E il “Carnevale di Crappano” era qualcosa di veramente speciale. Erano tempi in cui gli uomini di chiesa, frati compresi, correvano volentieri incontro alle gioie della vita. I frati, e Pelizzer con loro, parteci- parono alle danze in cerchio, ballarono anche fra di loro a coppie, assistet- tero alla cerimonia ed alla festa dell’elezione e incoronazione del “re del popolo” come voleva l’antica tradizione. L'elezione del “re” era infatti una tradizione molto radicata in numerose località della Dalmazia, compresa Sebenico, e si svolgeva solitamente a Capodanno, nei giorni di Carnevale oppure a Natale. Era una grande festa popolare che sarebbe durata fino alla caduta della Serenissima Repubblica di Venezia. In seguito “i Francesi portarono nuove consuetudini secondo la loro cultura” annota lo Zlatovi6, il quale esalta a più riprese “/a stretta unione tra il popolo e i Francescani, che G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 173 del popolo erano i maestri, i governanti e i veri amici”. Ricorda a proposito che nel 1646 un forte drappello di cavalieri turchi passò a nuoto il canale e sbarcò sull’isola di Crappano. La popolazione trovò allora rifugio nella chiesa, nel convento e nella torre del luogo, e “sotto la guida proprio dei Francescani, cavallerescamente resistette, finché non giunse una galea di Padovani che con i cannoni misero in fuga i Turchi”!*. Durante le feste di Carnevale a Crappano il frate rovignese fece “stretta amicizia” con tale “Zorzi Papalich, bellissimo giovane”, sempre disposto a far baldoria, “giocando al sbaraglino”. Per Paolo Pelizzer la baldoria si concluse con una lauta cena consumata insieme al “caramba- scia” ed agli altri maggiorenti del luogo la sera del 21 febbraio: “fatto il Camevale e veduti li balli di Crappano nelli quali ballano duplicamente li Frati veduto a fare il Re, che consumano far in quel loco; l’ultima sera cenato con il Carambasa, che vol dire Capitanio, et altri della villa in Refettorio: il primo giomo di Quadragenima, che fu 22 Febraro 1640, con il Reverendo padre Guardiano, con padre Alessandro di Pirano, con li Padri Bosnesi Fra Giovanni di Crappano, laico Fra Andrea di Crappano, che all’hora era putto, andassimo con la barca a Sebenico”. Da Sebenico a Scardona Come si capisce dal brano citato, sulla barca fra Paolo Pelizzer fu accompagnato da otto tra confratelli e amici, compreso Zorzi Papalich. Da Sebenico il Nostro intendeva proseguire subito “per incaminarsi per il 14 Più volte in questa lettura ci imbatteremo nel ricordo di scontri armati, di assedi, distruzioni, esodi ed altri episodi che caratterizzarono la guerra tra Venezia e la Turchia negli anni 1645-49: la cosiddetta Guerra di Candia. Le principali operazioni belliche ebbero luogo, infatti, sull’isola di Candia (Creta), ma le forze delle due potenze avversarie non poterono non scontrarsi anche in Dalmazia, lungo i confini con il Pascialato bosniaco. In Dalmazia quella guerra cominciò con il blocco economico delle città dalmate da parte dei Turchi, seguito da incursioni rovinose nel territorio della Dalmazia settentrionale, dalla conquista turca di Novegradi (Novigrad) nel 1646, dal fallito attacco a Zaravecchia (Biograd) fino alle incursioni contro Zara e Sebenico conclusesi con saccheggi e distru- zioni nei villaggi circostanti. Avendo rafforzato le difese della Dalmazia mese dopo mese, raddoppian- do pure il numero dei combattenti, per lo più Dalmati, i Veneziani passarono al contrattacco ed entro il 1648 conquistarono Zemunico/Zemunik, Novegradi (che rasero al suolo), Obrovazzo (Obrovac), Karin, Nadin, Vrana, Ostrovica, Clissa (Klis), Salona (Solin) e numerose altre località, estendendo il loro dominio alla regione di Makarska. Con il trattato di pace, Venezia ottenne le fortezze e i territori di Clissa, Salona e Vranjié, ma dovette consegnare ai Turchi Drnis, Scardona (Skradin) e Tenin/Knin. Sotto Venezia rimasero il Litorale di Makarska e il territorio di Poljica. 174 G.SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV,2004, p. 157-244 canale di Scardona” (Skradin), ma il maltempo impedì all’imbarcazione di avventurarsi sotto una pioggia a dirotto. Fu giocoforza trascorrere la notte a Sebenico, dove Pelizzer e i suoi compagni furono ospitati con estrema cortesia dalla famiglia Papalich. “Fui accolto da quei signori Sibenzani con segni di estraordinario affetto, si ricordavano ancora una Predica, che feci nella Congregazione di Crappano del 1634, scherzando sopra il nome di Sebenico lo dissi giardino bellissimo e vago colmato d’odorifici fiori; fiori che spirano odore di benignità, cinto con la siepe dell’invincibilità, che tale l’indicavano le lettere, con le quali si scrive: Singolarmente In Benignità Eccellente Nell’Invincibilità Città Odorifera; questa al mio poco sano giudizio e rozzo intelletto è l'etimologia del tuo nome. A ricordarsi li Signori Sibenzani di questi scherzi, mi fecero ricercare e pregare, che volessi graziarli di servirli quella Quaresima in lingua Italiana, che si contentavano darmi una particolare elemosina. Io risposi che l’avrei volentie- ri servito, quando fossi stato libero, ma che havendo quella carica mi conve- nirà proseguire il viaggio, e resi le dovute grazie”. In vece del Pelizzer, la predica richiesta fu tenuta da un frate domeni- cano: “Padre Grimani Zaratino” che era il predicatore chiamato per quella Quaresima. Vi assistette anche il Pelizzer che scrisse: “e perché il primo giorno di Quaresima andassimo alla Predica, ma andassimo alle medietà della prima parte, quando (il Grimani) mi vide entrar nel tempio, si perse, s’'abbagliò, tanta era la mia fama. In se reversus confessò, che si era perso alla mia presenza e lo confessò pubblicamente sopra il pergamo”. C'è un pizzico di vanagloria in questa annotazione del Pelizzer, ma l’episodio ci dice quanto fosse grande la sua reputazione. A giudicare dalla prosa di questo diario, invece, era un ben mediocre scrittore. Il secondo giorno di Quaresima, il 23 febbraio, avendo deciso “contro ogni raggione” di raggiungere Scardona, Pelizzer e i suoi compagni s’im- barcarono. La pioggia, è vero, era quasi cessata, ma s’era levato un rabbio- so vento di scirocco, “tanto forte, e tanto fisso, e fe’ grandissima rovina in quelli canali, che tutti quelli Signori de Sebenico dubitavano delle nostre vite; tutti mi vennero à compagnare alla Barca. E veramente, se con la vella de taglia havessimo vellegiato, si saressimo persi; ma il giovane, che era pratico, fece vella ligar alla cima del albero senza l’antena: e così andassimo sicuri per canale di 5 miglia”. C'è da supporre, vista la decisione di affrontare il pericolo, che oltre ad essere coraggioso il Pelizzer fosse anche di fisico forte e di robusta G. SCOTTI, Un Frate con“Li Turchi”, Atri, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 175 figura: tutti, infatti, calamitati dalla sua audacia, gli si riunirono intorno sulla barca, che prese a correre sobbalzando continuamente senza fermar- si mai. Gli abitati di Zaton, Villa Proclan e Raslina, l’isolotto Stipanac presso la sponda nord-occidentale del lago di Procglian grande (dal latino Procu- lianum) e la stessa località di Scardona in mano turca, passarono davanti agli occhi del nostro viaggiatore senza che egli li notasse, nè pensò mai di fermarsi per trovarvi rifugio in attesa che il vento cessasse. Non mancò invece di annotare la visione del “Lago” di Prokljan — “un mare largo, più d’un miglio lungo e 5 miglia incirca largo” (in realtà lungo 6,7 chilometri, largo 2800 metri, superficie 11,1 chilometri quadrati). Stando ai racconti ascoltati, Pelizzer lo definì “luoco pericolosissimo in cui si profondono molte barche”; e veramente quel “mare” ne aveva inghiottite parecchie. Dalla descrizione del Pelizzer si ha tuttavia l'impressione che il tratto di viaggio più pericoloso non fosse quello attraverso il canale-lago di Prokljan, bensì quello compiuto sin lì da Sebenico. Attraverso il Prokljan, la barca di Pelizzer entrò in quello che egli definisce il “Canale di Scardona”, accompagnata anche in quest’ultimo tratto dalla pioggia e dal vento tempestoso. “Facessimo questo canale — scrisse — con tanta fortuna di sirocco e pioggia era (?) che contai le remigade, 16 remigade non si poteva avanzarsi un piede”. Ad onta di tutti gli sforzi dei rematori, la barca quasi non andava avanti. In prossimità di una sporgenza della sponda, da dove l’occhio poteva vedere Scardona “situata sopra una punta”, Pelizzer si limitò ad annotare l’opinione dei suoi accompagnatori secondo i quali i Turchi di stanza in quella fortezza erano “bizari et insolenti, insolentissimi”. Ma anche in seguito, ogni qualvolta si tratterà di Turchi, il nostro frate userà i peggiori epiteti ricorrenti nella propaganda cristiana dell’epoca contro gli “infedeli”. Scardona (Skradin), sulla riva destra del fiume, non era più quella che era stata all’epoca romana, succeduta all’insediamento preistorico dello stesso nome. Della romanità presentava i resti di un acquedotto, di edifici vari e monumenti epigrammatici: il poco rimasto dopo la distruzione portatavi dagli Slavi nel VI secolo. E tuttavia era stata sede vescovile anche quando gli stessi Slavi vi costruirono un modesto abitato e, convertitisi a loro volta al cristianesimo, anche una modesta chiesa preromanica. Con- tinuerà ad ospitare un vescovo per ben quattordici secoli (fino al 1830) nonostante il succedersi di dominatori diversi. Dopo essere stata feudo dei 176 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 conti Subié verso la fine del XIII secolo, appartenne alla Serenissima repubblica veneziana dal 1355 al 1522, anno in cui fu presa dai Turchi che vi costruirono nuove fortificazioni e vi rimarranno fino al 1684, per esserne cacciati ancora una volta dai Veneziani. Nel Convento di Visovac Era tempo di pace, sui confini regnava la calma, appena fra qualche anno sarebbe scoppiata la Guerra di Candia fra la Serenissima e la Porta; e tuttavia fra Paolo ritenne opportuno tenersi alla larga da Scardona, proseguendo fino alle grandi cascate del Krka o Charca come lui scrive. Giunto alla fine del Canale, vide otto case di mulini (ma ce n’erano molte di più) e ritenne che le maestose cascate fossero artificiali . . . Ignorando che l'enorme barriera tufacea è una creazione naturale, scrisse di essa come di una diga artificiale eretta dall'uomo per arrestare l’acqua, innal- zare il livello del fiume e permettere che precipitasse da un’altezza di cinquanta metri per azionare le pale dei mulini. Davanti a Pelizzer ed ai suoi compagni stava soltanto un tratto del fiume Krka lungo “tre quarti di miglio”, che separa da millenni il corso inferiore — tracciato fra profondi valloni carsici — da quello superiore, in pianura. Alla fine di quel tratto, verso la sponda sinistra, nel punto in cui il fiume si allarga formando il cosiddetto lago di Visovac, lungo 3,5 km e largo 750 metri, sorge l’isolotto omonimo, e sull’isolotto il convento fran- cescano. Le pareti rocciose che sovrastano il corso d’acqua si levano ripide fino a 230 metri di altezza. Nella “Memoria” del Pelizzer, a questo punto, troviamo un’arcadica descrizione del lago e dell’isolotto sorto nel punto in cui un altro fiume, il Cikola, si versa nel Krka. È un’esatta osservazione, questa, fatta dal frate viaggiatore il quale scrive: Qui sono due fiumi: l’uno si chiama Charca, e questo scaturisse d’una altissima montagna addimandata Dinara. Vi è il 2. Fiume Cicoila; e perchè uno sgorga nella bocca dell’altro, formano un lago grande chiamato Vissovaz; questo lago è vero fiume Carca, sarà largo in alcuni luochi un miglio, et in alcuni meno. Nel mezzo vi è uno scoglietto, vi è situato il Convento primo della Bosna, addimandato Vissovaz”. (2) In realtà il Cikola è un fiumicello che nei mesi di pioggia si trasforma G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.157-244 177 in un grande torrente raccogliendo le precipitazioni attraverso le piane di Petrovo Polje (nei pressi di Drni3) per versarsi nel Krka al di sopra della cascata, nei pressi di KIjuCica. Giunto all’altezza dei mulini, a Pelizzer non restava che raggiungere il convento. Egli però fece sosta, mandando avanti qualche altro. “Dalli molini si camina per terra 3 quarti di miglio, e s’entra nel lago, e 4 miglia è lontano il scoglietto. Si partirono per terra il P. Alessandro di pirano, con li Padri Bosnesi ad avvisar li Padri del Convento, che ero giunto alli molini, e che per terra mi ero incaminato all’altro lido del lago. Vennero a levarmi in compagnia di remiganti il P. Guardiano tal P. Nicolò, vennero il P. Custode Marino de Posega et P. Bogetich; il P. Camengrado rimase a far compagnia al vescovo Tomaso; quali vennero a ricevermi al lido del Convento”. Da altri documenti dell’epoca riusciamo a completare le generalità dei padri francescani di Visovac che vennero a dare il benvenuto al Pelizzer: il Guardiano era all’epoca padre Niccolò Ruzi6, il custode fra Marin Imbrisimovié nativo di Pozega in Slavonia “da Posega, luogo della Schiavona sua patria”, e fra Mijo Bogetié detto Jadresié. Padre Niccolò diventerà famoso all’epoca della guerra di Candia quando, insieme agli altri frati, riuscirà a guidare fino a Sebenico ed a metterli al sicuro 10.000 cristiani liberati dalla schiavitù turca, arrivati dai sangiaccati della Lika e di Clissa. Questo stesso frate francescano contribuì alla conquista delle località di Drniò, Knin (all’epoca detta Tenin) e Clissa (Klis), meritandosi un solenne encomio del Provveditore veneto Leonardo Foscolo che lo propose alla carica di vescovo di Nona (Nin). (Per inciso: in queste vicende si distinguerà anche il giovane patrizio sebenicense Zorzi Papalich che, eseguendo un ordine del Foscolo, al comando di un distaccamento di Morlacchi e di alcune compagnie di Sebenico e Traù, scortò e protesse i frati del convento di Visovac e gli abitanti del villaggio di BogetiCi costretti a lasciare quei luoghi assegnati ai Turchi in esecuzione del trattato di pace dopo la guerra di Candia). Per quanto riguarda Padre Marin, di Slavonska Pozega, dalla “Me- moria” del Pelizzer apprendiamo che aveva preso parte con lui al Capitolo generale francescano a Roma. Sappiamo inoltre che dopo la partenza del Pelizzer dalla Bosnia questo personaggio provocherà nuovi intrighi, con- flitti e dissidi tra i francescani bosniaci, ma grazie agli appoggi della Corte di Vienna riuscirà a diventare vescovo. Quanto a “P. Bogetich” e cioè Padre Mijo BogetiC, sei anni dopo, nel 1646, sarebbe diventato il massimo 178 G. SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 esponente della Provincia bosniaca dell’Ordine francescano e, insieme a Padre Niccolò RuziC, avrebbe guidato le popolazioni cristiane da Promina e Petrovo Polje nei territori veneziani, ottenendo per ciò molti benefici dal Governo della Serenissima e dalle autorità di Sebenico. Ad attendere il Pelizzer nella veste di definitore generale per la provincia di Dalmazia oltre che di commissario visitatore per la provincia di Bosnia Argentina, furono anche il vescovo di Sebenico Tommaso Mrna- vié (in lotta contro il confratello Girolamo Lucich — Bogoslavich, vescovo pure lui) e il “padre Camengrado” (probabilmente Kamengrad) del quale sappiamo soltanto che era partigiano dichiarato del Mrnavic. Il curatore della “Memoria” del Pelizzer a questo punto ricorse a una censura, per cui la relazione del Rovignese mostra una lacuna riempita da tre puntini sospensivi, e continua così: “... La consacrazione del vescovo Tomaso seguì a Sebenico in marzo 1640; furono tre vescovi, il Mons. Vescovo de Sebenico, il Mons. vescovo d'Arbe, et il Mons. vescovo di Traù, che lo consacrarono. Li Signori Sibenzani colmi di gentilezza gli fecero molti honori, lo accompagnarono con buone salve di arteglieria, con gran numero di cavaleria, con sbari non solo di sudette, ma d’arteglieria ancora, il che spiaceva al vescovo Girolamo, perché rimaneva solo vescovo titolato di Drivasto, ove non poter far la residenza . . .” I puntini sospensivi ovvero i tagli subiti all’inizio e alla fine del brano ne rendono difficile la lettura, ovvero l’interpretazione, ma ci fanno intra- vedere la forte concorrenza che esisteva ai vertici ecclesiastici in quell’epo- ca e in quella regione. Turchi crapuloni e bastonatori Particolarmente interessante è la descrizione lasciata dal Pelizzer del Convento di Visovac e dell’isolotto sorto nel punto in cui l’affluente Ciccola (Cikola) si versa nel Krka. Da parte nostra annotiamo che in quel luogo meraviglioso, solenne e selvaggio, su quell’isolotto, erano stati i Paolini per primi a creare un eremo nel 1400. Quarantacinque anni dopo sorse invece il convento francescano, costruito da frati arrivati da KreSevo in Bosnia. Oltre a quello di Visovac, alla provincia bosniaca dell'Ordine france- scano appartenevano altri tre conventi in Dalmazia (Makarska, Zivogosée G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 179 e Zaostrog) e un quinto in Erzegovina, a Imotski. Per questo motivo nella “Memoria” del Pelizzer quei conventi vengono definiti “bosnesi”, bosnia- ci, e sono chiamati “Bosnesi” anche i religiosi che vi erano ospitati, pur se molti di essi erano Dalmati. Per quanto riguarda Visovac, va premesso che nel 1648, vale a dire otto anni dopo la visita del Pelizzer, sarebbe stato abbandonato dai reli- giosi che si rifugiarono a Sebenico, mentre i Turchi vendettero all’asta gli edifici e le terre del convento. Nel 1675, in virtù di un decreto di grazia del sultano, tutti i beni di Visovac furono restituiti ai frati, che poterono tornare e restaurare sia il convento che la chiesa. All’epoca della sua visita, Paolo Pelizzer annotò: “Sopra questo scho- gletto vi sono trè allogiamenti. Il Convento, che è in forma di casa grande, e si sale sopra una scala di pietra, v’è la foresteria per li Turchi, et un altro luogo per li povereti. Di più v'è una casetta per il polame, n’erano 200 capi de polastri”. Proseguendo il discorso suibeni dei religiosi, il Pelizzer fa dapprima una riflessione generale, scrivendo: “Tutti questi conventi perla Bosna hanno la sua colombaja, con quantità grande de colombi”, ricordando ad esempio di aver visto nel convento di “Sutisca” (recte: Sutjeska) “più di due mille” colombi “e quantità grande de polami”. Perché oltre ai frati ed ai poveri che capitavano spesso nei conventi, c'era da dar da mangiare ai Turchi: “perché giungono li Turchi a turme, quaranta e cinquanta alla volta, eta tutti bisogna dar da mangiare. Sono convenuti li Padri con li christiani, che li Padri fanno la fatica, li christiani danno la roba; hanno li poveri christiani tanto in odio li Turchi infedeli, che si contentano sviserarsi, perchè non li venghino alle case loro, e per il contrario hanno li turchi tanto in odio li Christiani, che sapendo loro, che quello li danno da mangiare li frati, sono sostanze de’ christiani, mangiano quanto più, possono, e poi vanno a vomi- tare tutto quello che hanno mangiato, e poi ritomano a mangiare; perciò tre volte mangiano più di quello fu bisogno, e ciò, mi dicono quelli padri, per destruggere il Christianesimo; ma io credo fosse più tosto avidità di cibo, e che il superfluo gli facesse male, et agravasse la natura in guisa tale, che fosse necessario vomitare; hor sij come si voglia, questo l’ho veduto a Vissovaz. Li poveri frati sono necessitati à servirli, e dopo haverli serviti e ben cibati, ricevono per premio bonissime bastonate; e finalmente bisogna darli delli denari, perchè nascondono o una briglia, o una arma, et incolpando un Frate che gli l’habbia rubata, lo percotono, e vogliono che gli la paghi”. 180 G.SCOTTI, Un Fratecon “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 Dopo queste informazioni il Pelizzer passa nella sua “Memoria” ad elencare i beni posseduti dai frati di Visovac, cominciando da due “barche da traghettare”, una lunga che poteva imbarcare dodici persone, ed una piccola per quattro persone. “Sono barche alla moda fatte da trè tavoloni, una tavola nel fondo, e due alle bande; vogano con certi remi simili alle palle (pale), con quali si pelleggia in queste parti il formento, e talgiorno si sentono à chiamar li Turchi da tutte le quattro, dalla parte orientale, occidentale, australe e meridionale”. L’autore della “Memoria”, che fu scritta nel 1661 indubbiamente sulla base delle relazioni compilate per Roma venti anni prima, intendeva dire che spesso i Turchi capitavano a Visovac da tutte le parti. Anche perché l'isolotto e il convento su di esso si trovavano nel punto di incontro delle linee di demarcazione di due sangiaccati, quello della Lika e quello di Clissa, ai confini dei kadiluk (distretto di giurisdizione di un cadì) di Scardona, di Knin e di Drni$ nonché dei distretti di Vrana, Neéven e Cuéevo, “sicché i Turchi da tutte le parti ritenevano di aver diritto a quel luogo” (S. Zlatovié) al quale si arrivava da Remetié (sud, regione di Scardona), da Bilibrig (ovest), da Stinica (nord, regioni di Drniò e Knin) e dalla parte di Petrovo Polje. A questo proposito il Pelizzer racconta un gustoso episodio. Scherzi da . . . frati o truculenza turca “Una volta, o per atterirmi, 0 che portasse così il caso che comparvero una cinquantina di Turchi divisi in tre compagnie. Li Padri, pensando atterirmi, me li fecero vedere da una cella secreta, che aveva un forame verso quella parte, ove erano li Turchi, (i quali) venero a contesa fra di loro. O fosse vera, ò fosse finta (la contesa), i! Pre. Revdo. Boghetich, Padre di quel Convento, si pose fra di loro armi e gli tagliarono à bella posta la tonica. Questo (il Bogetich) quando ebbe fornita la comedia, venne verso di me tutto anhelante, e disse: Pre. M.R. (molto reverendo?), vedete, quello fanno di noi li Turchi, e mi mostrò la tunica lacerata dicendo: cossi faranno di V.P.M.R. (Vostra Persona Molto Reverenda?). Questa parola mi pose in sospetto, che fosse qualche arte; onde io dissi, che taglino la tunica quanto vogliono, pur che lassino la vita intatta. Lui non era offeso nella vita. E poi soggiunsi: quando le PP.VV. (Persone Vostre) viaggiano, come vanno? Havevo già G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV,2004,p. 157-244 181 veduto la camera dell’armamento (l’armeria) e sapevo come cavalcano. Risposero: andiamo armati per difenderci dalle insolenze de’ Turchi, perché talvolta s'abbatterano li Turchi sfondra la simitera (sfodera la scimitarra) contro V.P.M.R. e gli faranno mille scherzi con ella sopra la faccia per atterrirla. Horsù, risposi io, dunque armatemi il cavallo con la persona, come va armata, che si à caso verà qualche Turco a scherzare meco, io farò da dovero, e mi contento, poi morto che ne habbi uno, morir ancor io. Queste parole gli posero il cervello al partito, come si sol dire, e cominciarono a dubitare (che io) non facessi qualche minchioneria; onde cominciarono a dire: non fate per l'amor di Dio simil cosa, che la Provincia andarebbe alla rovina; saressimo tutti esterminati. Dunque, diss’'io, se non volete rovine, fatemi far buone guardie, non permettete che Turchi venghino scherzarmi sula faccia con le loro simitere. Noi lo faremo, ma V.P.M.R. non vadi a cercar brighe, camini per il suo viaggio. Di questo non dubitate. Quel Dio che m'aveva eletto à questa carica, m’inspirò queste parole, delle quali argomen- tarono un animo risoluto e deliberato, per il che mi fecero fare buonissime guardie”. Questo racconto, nel quale non mancò di notare il tono sarcastico usato dal Rovignese verso i confratelli di Visovac, dovette suscitare una certa irritazione e risentimento nello Zlatovié che, sempre pronto a difen- dere i suoi compatrioti croati, così commentò il brano: “Non c’è da meravigliarsi del suo coraggio (del Pelizzer), visto che poteva scrivere le sue memorie standosene a sedere in pace nel suo convento in Istria; ma dubitiamo che abbia così pensato e detto nell’anno 1640 durante il suo viaggio attraverso le terre turche. E vedremo più avanti, come egli stesso racconta, che a Sarajevo, vistosi osservato da un robusto softà, si sentì scorrere il sudore per la paura mortale”. Subito dopo l’episodio sopra descritto, troviamo un nuovo taglio (indicato da tre punti sospensivi) compiuto dal solito S. Zlatovié senza spiegarne il motivo. Il testo della “Memoria” riprende quindi a descrivere il convento che al Pelizzer, visto esternamente, sembrò brutto, “in forma d’una casazza”. Ad esso portavano una scalinata di pietra ed una di legno. L’edificio comprendeva sedici celle, la cucina e un ampio refettorio con al centro un lungo tavolo e gli scanni laterali per i commensali: “il refettorio scorre via, sentano d’ambi le parti della tavola, han di fori la tavola, li cavaletti lunghi quanto è la tavola fatti alla rustica. La cucina era fatta bellina di nuovo”, cioè era stata da poco rinnovata. 182 G.SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti,vol.XXXIV, 2004, p. 157-244 In realtà il convento aveva all’interno una forma rettangolare, con al centro il chiostro e una cisterna in mezzo al chiostro. Il lato nord dell’edi- ficio era chiuso da una chiesetta che era stata un tempo degli Agostiniani, successivamente trasformata in sagrestia; sul lato occidentale sorgeva la chiesa conventuale, mentre sui lati meridionale ed orientale sorgeva la “casazza” con le sedici celle, alcune delle quali costruite sopra la sagrestia. Descrivendo la chiesa, il Pelizzer si soffermò in particolare sul coro, per i suoi stalli: “La chiesa mediocre bella, specialmente quanto al coro le (cui) sedie erano fatte à guisa di cadreghe, che si costumano il giomo d’oggi tutto 0 collonette picciole di legno, veramente vistoso; questo coro è in capo alla Chiesa, voglio dire, in occidente, contrario alli nostri, che sono in oriente”. E più avanti: “La chiesa è tutta piena di pitture a sguazzo sopra li muri (alludeva agli affreschi), in forma di quadroni”. Oggi è difficile fare verifi- che, perchè della chiesa visitata dal Pelizzer non è rimasto nulla. Nel 1725 fu completamente ricostruita, dopo che era stata in gran parte distrutta nel corso della “Guerra di Candia”. La descrizione del Pelizzer passava poi alla sagrestia: “La Sagrestia è piccolina ma ben fornita di bellissimi paramen- ti tutti alla moderna, e quantità grande, così anco argenterie, come croci, calici, turiboli. Tutta la Provincia ha chiese benissimo fornite di queste cose”. Nel convento dimoravano quattordici frati, tre chierici, due laici e quattro ragazzi. Questi ultimi “servono per studenti, per chierici e per famigli di casa. La sera il lettore li fa inginocchiare, e gli recita la lezione conforme alla sua capacità; gli dà li latini a mente”, facendogli cioè imparare a memoria brani di latino. Fuori del convento, infine vivevano “circa venti famigli” al servizio dei frati, impegnati a lavorare sui poderi del monastero. Proprio nel giorno in cui Pelizzer giunse a Visovac, come racconta egli stesso nella Memoria, i Padri di quel convento ebbero vinta una causa che li opponeva alle locali autorità turche, una causa che si era trascinata per settant’anni: “li Padri guadagnarono una lite con li Turchi, che erano 70 anni decorsi, che verteva, e solo all’hora era decisa, la giudicarono et atribuirono à mia buona fortuna, come in fatti fu”. Da intendersi: la vertenza fu portata a termine proprio allora, e favorevolmente ai frati, grazie alla presenza del Rovignese. Il quale, però, non si spreca in ulteriori spiegazioni su questo punto. Passa invece a descrivere un altro fabbricato, posto però sulla terraferma, che avrebbe dovuto essere un convento ma non lo fu. Sorgeva a Kobiljada. G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti,vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 183 Fabbrica incompiuta “Vi è in terra ferma un convento principiato dal Pre. Luca Cacich, questo stà a lattere destro del fiume (il Pelizzer guardava controcorrente e non nel senso di scorrimento del Krka), in loco chiamato Cobigliaccia, e voleva esso Pre. ivi trasferir il Convento del scoglio; perché il scoglio è sotto il dominio di due sanchiaki, et ivi sarebbe stato sotto uno solo, e meno travagliato. Si diede principio, ma non si finì. Era però un ben principio di fabbrica, si servono per stalla, e credo che quella dovesse essere coneva”. In quella stalla i frati di Visovac tenevano sedici cavalli, ma dicevano che gliene servivano altri otto. Erano necessari perché da quei luoghi solitari bisognava cavalcare decine e decine di chilometri per raggiungere i luoghi in cui si poteva acquistare quanto era necessario al convento, ai frati ed ai loro servi. I cavalli erano l’unico mezzo di trasporto per raggiun- gere regioni distanti dal fiume, nell’interno, e servivano ai Padri anche per raggiungere gli sparsi e lontani villaggi cristiani nei quali esercitavano i servizi parrocchiali, nella vasta regione fra i fiumi Cetina e Zrmanja in Dalmazia e nella Lika in Croazia. In quell’epoca non c’erano parroci fissi né le parrocchie avevano confini determinati, per cui i Francescani soste- nevano il ruolo di inviati apostolici, spostandosi da una zona all’altra per montagne e colline, anche per mantenere viva la fede nelle popolazioni sotto il dominio ottomano. Visitando la stalla, il Pelizzer fu attratto in particolare da “un belissimo (cavallo) bianco macchiato con macchiette negre, et era una belissima bestia (+ Ignoriamo che cosa abbia scritto nel punto in cui, per l'ennesima volta lo Zlatovic ha lasciato i puntini sospensivi. Il Pelizzer continua descrivendo una scena, degna di un circo equestre, che lo colpì: “Qui vidi una cosa incredibile, e fu, che uno di quelli giovani montò in piedi sopra un cavallo e lo fece correre a carriera batuta più che non è lunga la riva di Rovigno, conservandosi sempre stando in piedi e con il suo giuppone (giubbone) in mano sempre facendo viva (evviva), id est ventilando il giup- pone qual bandiera”. Oltre che dei frutti della terra, di polli e colombi, i religiosi di Visovac si nutrivano di pesci, soprattutto trote e gronghi; allo scopo tenevano molte reti e la pesca era sempre abbondante. Inoltre si dedicavano alla caccia di uccelli e d’altra selvaggina. Il Pelizzer descrive una di queste uscite di caccia: 184 G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 “Martedì primo di quaresima andassimo a vedere li mulini lì sopra, che sono circa 3 miglia lontano dal Convento, et andando facessimo la caccia alle aquile, de quali ne veggessimo più d’una ventena, quantità grandi di smerghi, polli (selvatici) e colombi. Veggessimo un’acquila bianca, che se ne stava riposata sopra alcuni dirupi; essendovi dirupi altissimi, tirarono un’archibu- giata, e quantunque la palla gli passasse sotto piedi, nulla di meno non si muove punto, ma fece un atto di stupore. Tomarono a tirargli et udendo la seconda archibuggiata si mosse alquanto, ma poco”. Proseguendo, il Pelizzer descrive rapidamente i mulini, le cascate e il ponte sul Roki Slap: “Andassimo a vedere li mulini, che sono al numero di 50. Vi è un ponte di pietra con 22 archi. Vi sono gli strumenti delle valche (si tratta molto probabilmente di gualchiere, le antiche macchine che, per mezzo di magli mossi dall’acqua, assodava i panni di lana), cioè di valcare le rasse; in luoco l’acqua descende con tanto impeto, che si leva poi in aria a guisa di nube e pare un fumo”. Castelli ed aquile, pesca e caccia In quella gita nei dintorni del convento i confratelli mostrarono all’il- lustre Visitatore alcuni castelli; lo condussero a pesca; lo fecero cavalcare per diporto, insomma: cercarono di rendergli interessante e piacevole il soggiorno, di dimostrargli il loro grande rispetto, di fargli ad ogni piè sospinto qualche gradevole sorpresa, affinchè potesse relazionare positi- vamente sul convento e i suoi abitatori. “Nel ritomare al Convento, a latere sinistro vi è un castello addomandato Rogovo sopra un’alta diruppe (dirupo) et ivi dicono esservi (un) tesoro, che molti hanno tentato levarlo, ma li demonij lo custodiscono in guisa tale che fanno cadere grandissimi tempeste, venti impettuosi, e quantità d’aquile a difenderlo. Dal lato destro, più verso il Convento, vi è un altro castello addimandato Camiciak”, quest’ultimo posto sullo sprone di una potente roccia a balcone sul fiume, sul lato opposto a Rogovo. Dei due castelli, all’epoca del Pelizzer ancora interi, restano oggi pochi ruderi. Si racconta che a ridurli in rovina, più che i secoli e l'abbandono, abbiano contribuito i cercatori di tesori. I resti di Rogovo vengono indicati oggi col nome di Babingrad. Sempre sulla via del ritorno dai mulini al convento, il Pelizzer e i suoi accompagnatori ripassarono in prossimità del luogo in cui avevano sparato G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 185 all'aquila superba e impassibile. La ritrovarono nello stesso posto, immo- bile: “Ritornando dalli molini ritrovassimo l'aquila nell’istesso luoco; torna- rono a tirargli, e fu ferita; saltarono a terra un sacerdote chiamato Padre Andrea, con un chierico, e cominciarono a salir per una via a guisa di canale e per una diruppe, tanto erta e tanto difficile, che era impossibile. E perch’era quella via tra un diruppo, e l’altra piena de rovinazo, materia mobile, quanto ascendevano tanto descendevano. Finalmente tanto fecero, che salirono fino al loco, che trovarono pietra viva, ma tanto erta, che (non) poterono giunger al loco ove giazeva l’acquila; convenne loro ritomare senza la preda, e con le benevreche tutte rotte, perchè bisognò scender straziando il sedere sopra il rovinazzo, che squarziò le benevreche (bisacce?), facessimo una bella risata”. Il luogo selvaggio era incantevole. Si provarono a lanciare richiami per provocare l’eco. Il Pelizzer constatò: “Qui è un eco nobilissimo, che risponde a tutte le parole”. La sua meraviglia fu suscitata anche dalla vista di una montagna con un gran buco sulla vetta: “Si vede una montagna dalla natura perforata nella sommità, sicchè sembra una camera a volto, e da un canto all’altro si vede l’aria di lunghezza di 10 passa”. Il giorno appresso, era mercoledì, “andarono li famigli a pescare e portarono a casa (gran) quantità di pesse”. Il Pelizzer volle farli contare per curiosità — scrive — e constatò che erano cinquecento, “fra quali vi era una trutta (trota) di tre libre incirca, un pesse simile al variol d’Istria, simile di grandezza; il rimanente pesse di lira, e due per lira, di tre e di quattro per lira, tutto pesse d’acqua dolce”. Annotò, per inciso: “Hanno li Padri grandissima quantità di reti”, e da svariate fonti si sa che nei tempi passati il fiume Cherca (Krka) era ricchissimo di pesci d’ogni specie. Si sa pure, però, che sin dall’inizio dell’Ottocento i contadini dei villaggi, fortunatamente rari, sorti lungo il fiume cominciarono a prendere pesci con la dinamite, provo- cando una rarefazione della fauna ittica. Quel medesimo giorno della pesca, i Padri del convento di Visovac accompagnarono il Pelizzer in una escursione a cavallo: “li PP.MU. per darmi motivi di ricreazione, volsero che andassimo a cavalcare per diporto, e cavalcando vegessimo un lupo grandissimo e due lepre”, ma il Rovignese non era portato alla caccia; preferì invece scendere da cavallo e, preceduto dai famigli, andò a pescare insieme al padre Pietro Cubat, lettore del conven- to, “che pigliai per mio Condottiere per tutta la Provincia, e permio secretario di quella lingua” In altre parole, questo Padre Pietro divenne la guida e 186 G.SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 l'interprete di Paolo Pelizzer nel suo viaggio in Dalmazia e Bosnia, essen- do quel confratello “un grande economo, homo virtuoso; e con prudenza e politica inesplicabile mi condusse per la Provincia”. Secondo il Pelizzer, quell’uomo “meritava ogn’honore, et ogni carica, ma le congiunture non permisero ottenere quanto meritava”. Il Cubat lodato dal Pelizzer, si chiamava in realtà Kumbat. Lo ritrove- remo all’inizio della “Guerra di Candia” nella carica di Padre Guardiano del convento di Imotski sul lago di Prolozac. Temendo di essere ucciso dai Turchi, guidò i suoi confratelli e un gran numero di abitanti dei villaggi circostanti sulla via dell’esodo, conducendoli nel litorale dalmato sotto la protezione dei Veneziani. Egli scelse Makarska dove fu eletto capo della comunità religiosa profuga e del locale convento. Nel 1646, temendo che i Turchi arrivassero anche a Makarska, guidò i suoi confratelli francescani in un secondo esodo che li portò sull’isola di Brazza, dove — insieme a numerosi popolani accodatisi ai religiosi nella fuga — diedero luogo alla nascita del nuovo abitato di San Martin, oggi Sumartin. Qui Padre Kumbat progettò una spedizione per strappare Imotski ai Turchi. Postosi alla testa di una schiera di armati, riuscì infatti a conquistare la “Krajina di Imotski” ed assediò la fortezza; “ma nel momento in cui i Turchi stavano per arrendersi, fu tradito e ingannato — citiamo il commento di S. Zlatovié — per cui fu costretto a ritirarsi dal campo di battaglia”. L’episodio fu celebrato in versi da un tale Grohovac, francescano pure lui, e tuttora si tramanda in un canto popolare che esalta l’eroismo di padre Kumbat che fa prigionieri i Turchi. Ma torniamo alla Memoria di Paolo Pelizzer ed a Padre Kumbat di sei anni prima, intento a pescare col Rovignese nelle acque del Krka nella prima settimana di Quaresima del 1640. L’uomo che faceva da segretario all’illustre Visitatore “portò quantità d’anguille con ventidue trutte”, così belle che furono mandate in regalo a “quelli Signori di Sebenico, che mi fecero tanti honori”. A sua volta Padre Lorenzo di Sebenico, padre Guar- diano del convento di Crappano, mandò al Pelizzer cinque dentali “che sembravano cinque grandi putti”, così belli e grossi che “tutti quelli Padri e (il) vescovo rimasero attoniti e stupiti, sì per la bellezza del paese, come per la stima fatta dalla mia persona”. Gli piaceva autoincensarsi, si vede. G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 187 Diavoli e miracoli Il giovedì i frati condussero il Pelizzer dapprima a visitare alcuni oliveti piantati di recente e poi il convento rimasto incompiuto fuori dell’isolotto sulla sponda del fiume. Le piante di olivo “erano al nro 500 molto belli, e fanno un bellissimo vedere, all’ombra de’ quali facessimo tutti una composizione d’un dolcissimo sonetto per spazio d’un hora. E poi andassimo a vedere minutissimamente il convento nuovo sopra nominato, che si vide all’hora extrinsece, e superficialmente”. “La fabrica come dissi è una bellissima fabrica anco quanto all’apparen- za, ma considerata bene è una gran fabrica. Vi è primieramente una caneva (recte: cànova-cantina, celliere) sotterranea fatta a volto in tre navi (cioè navate, ndr). Cosa molto bella. Vi è a lattere destro una bella stalla capace di 25 cavalli; sopra la caneva vi è il reffettorio. Vi sono due dormitorij uno sopra l’altro, e vi è la cucina vicina al reffettorio”. Praticamente, i frati di Visovac disponevano di due conventi, ma di questo nuovo, privo soltanto della chiesa, si servivano unicamente per tenervi i cavalli. La cosa non poteva non suscitare curiosità nell’illustre Visitatore: “Padre, dissi io, havete molto più bella comodità qui che al scoglietto, minori fastidij di traghetti, perchè non l’habitate? Non si può, risposero loro, perchè havemo grande contrarietà e delle infedeli, e non potiamo ridur l’opera alla perfezione”. Quel convento sulla sponda del fiume, infatti, non fu mai usato allo scopo per cui era stato costruito, ed oggi si vedono soltanto le rovine dei muri perimetrali del grande edificio ridotto in ruderi dal tempo e dalle intemperie nella baia di Kobiljata. Da antichi documenti turchi che si conservavano negli archivi del convento sull’isolotto risulta che le autorità turche avevano concesso ai francescani il permesso di costruire il nuovo convento nell’anno 1616. I documenti portano le firme del sangiacco di Clissa, di diversi kadì, del visir bosniaco e dello stesso sultano/imperatore ottomano; furono spese notevoli somme per la sua costruzione, ma non si giunse mai al termine dei lavori progettati nè l’edificio fu abitato, perché “i Turchi delle zone circostanti — scrive S. Zlatovié - non volevano perdere i benifici”. Rimanendo il convento sull’isolotto, tutti potevano imporre i loro diritti, venire di giorno e di notte, sbafare, rovistare, spadroneggiare: quelli di Scardona, di Knin e degli altri distretti. Se il convento si spostava 188 G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 a Kobiljada, il padrone sarebbe stato uno solo, il kadì di Drniù ovvero il sangiacco di Clissa. Perciò ricorrendo a tutti i pretesti possibili, anche alle minacce ed aggressioni, i Turchi del circondario impedirono che i lavori venissero portati a compimento. La Memoria di Paolo Pelizzer continua. “Mercoledì, 2. di Quaresima vennero 12 softe turchi Religiosi, Martiri del diavolo. Spesero tutta notte in mangiare, bere e cantare; così fecero il giovedì, ne mai volsero partire, se non furono regalati di sapone, cere e denari, così che chi non le vide non le può credere, tanto sembrano impossibili”. “Softe” erano gli studenti di teologia islamica, futuri sacerdoti musul- mani. Qui, non si sa se per disprezzo o per pietà, vengono definiti “martiri del diavolo”. A proposito del quale il frate rovignese racconta subito dopo il caso di un cristiano invasato dal demonio e di come questi fu scacciato finalmente dal suo corpo. “Vidi in codesto Convento di Vissovaz un famiglio, quale essendo vessato dal Demonio, fece voto alla santissima Vergine, che se Lei lo liberava dalla vessazione, voleria tutto il tempo di vita sua servire il Convento. Il diavolo sdegnato lo fece cadere nel fuoco e s’abbruggiò un ginocchio, fu libero e serve così zoppo”. Di più nella Memoria non si dice. Si dovrebbe perciò dedurre che Satana, accontentandosi di avergli rovinato il ginocchio, tolse l’incomodo e lo lasciò finalmente libero; per cui il famiglio, mantenendo fede al voto fatto alla Madonna, rimase in convento come servo per tutta la vita. Più dettagliato è invece il racconto dal Pelizzer dedicato al caso di un altro indemoniato, “un giovane che ebbe lungo tempo comercio con una Turca nella villa Boghetich”, e questo, per un cristiano era grave peccato. Finalmente “illuminato dallo Spirito santo”, quel giovane decise di lasciare l'amante musulmana, “rissolse pigliar la moglie, e per liberarsi dal peccato prese per moglie una giovane Cristiana”. Il villaggio di Bogetici, come molti altri della regione, era abitato sia da musulmani che da cristiani (“perché in quelle parti habitano li Cristiani e li Turchi assieme, cioè una casa sarà dei Turchi, una vicina de Cristiani, e così discorrendo”) per cui, rispettando la tradizione della pacifica convivenza, il giovane cristiano di Bogetici invitò alle sue nozze anche i vicini di casa musulmani e fra questi la ragazza con la quale per lungo tempo aveva fatto l’amore. Ma costei, per vendicarsi, con un bacio dato alla sposa cristiana, l’avrebbe affatturata, stregata, rovinata. Infatti, da buon religioso cattolico G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 189 e uomo del suo tempo (quando si indicavano nei Turchi “infedeli” i peggiori nemici della cristianità) il Pelizzer scrive: “Fu la Turca come vicina di casa invitata alle nozze; questa poi per sdegno con un bacio affassinò la povera giovane moglie di quello, che l’aveva goduta; la poverella si pose in un letto, e se gli ritirarono i nervi in guisa tale che le ginocchia li toccavano il mento”. Insomma, si era raggomitolata e rattrappita, dimagrendo; perché non le riusciva di alimentarsi: “ne si poteva cibare se non con cose liquide, che gli davano con un’ampola”. “Sette mesi stette nel letto”, posseduta dal diavolo, schiava della fattura. Dopo sette mesi, finalmente arrivò la salvezza. “Un giorno passando un Padre che serviva per Paroco, fu chiamato dal padre della giovane e pregolo, che volesse dargli qualcosa santa da portar adosso, acciò si potesse liberare da quella infermità. Sono genti di gran semplicità, di grandissima fede, bontà e divozione. Il Padre haveva un poco dell’habito di fra Tadeo da Tocco, morto pochi anni (or) sono con santità, che faceva grandissimi miracoli, e gli l’haveva donato il P. Custode Marino Brissimovich (recte: Ibrisimovié, ndr) di Posega, che fu a Capitolo generale del 1639. Gli pose quel poco d’habito adosso, cominciò a sentirsi meglio, e in termine di 15 giorni si rissanò affatto”. Niente esorcismi, dunque, bastò il potere prodigioso dell’amuleto. Un vero e proprio miracolo, che il Pelizzer volle far autenticare: “Feci io autenticar il miracolo, e lo mandai a Roma, acciò se per l’avenire s’havesse da formare processo per la sua canonizzazione, si ritrovi ancor questo mira- colo”. Il Pelizzer non poteva non credere ai miracoli, essendo un religioso; ma da buon Rovignese volle subito accostare al prodigio soprannaturale uno dei “miracoli” che si ottengono per via naturale: “Mi fu detto da un Padre, che con li occhi proprij haveva veduto l’esperienza, che uno, qual se ne stava moribondo per la pietra, essendogli datta delle polvere di pinpinella selvatica e bere vino, immediate fece la pietra e rissanò”. Ignoriamo quale fosse il male della pietra (probabilmente si trattava di un calcolo biliare o renale), ma sappiamo che dai tempi più remoti i Francescani solevano preparare svariati medicamenti con le erbe, fra questi il rimedio contro i calcoli biliari, renali e vescicali. Per inciso: la “pimpinela” — che troviamo anche nello strambotto “Pimpinela gaveva una gata che tuta la note fazeva la mata, la sonava la campanela, viva la gata de Pimpinela” —- è il nome 190 G.SCOTTI, Un Fratecon“Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 istriano del cinquefoglio (Potèrium sanguisorba) trasformatosi nello stram- botto citato in nomignolo o nome femminile: “Pimpinela de qua, pimpine- la de là, Pimpinela con cul spelà” (Pinguentini). Il turco a messa ed altre storie Tornando a quel mercoledì della seconda settimana di Quaresima del 1640 riprendiamo a leggere la Memoria del Pelizzer e troviamo un altro episodio interessante. “Questa matina giorno del glorioso S. Tomaso d'Aquino, in quel mentre che celebrano la messa, venne un Turco giovine bizaro in chiesa, e mi furò una candella dell’altare, e perchè il mio compagno Fra Pasquale stava nel coro e diceva l’oficio, se ne andò il Turco con quella candella, e gli pose sotto il naso, onde n’ebbe un buon spagheto di paura”. E con lo “spagheto” metaforico, così come con altre parole del dialetto istroveneto già incon- trate, Pelizzer rivela l’origine sua. Il sacerdote che celebrava la messa era lo stesso Pelizzer, il quale ci pare che se la rida nel rivedere la scena con gli occhi del ricordo. E sempre sulla scia dei ricordi, racconta altre storielle che a lui vennero raccontate dai frati di Visovac: “Mi fu raccontato dagli Padre medesimi, che successe una volta un gran miracolo a Belgrado. V’era un Gianizzero che vendeva farina, ma la mesco- lava con terra bianca; una povera cristiana andò a comperare, e perché questo Turco haveva cativissima fama, la vecchia gli dimandbò, se la farina era buona e non mescolata; rispose il Gianizzero: se non è buona, e sola farina, Iddio mi facci cangiare in un porco; andòla vecchia a casa e ritrovò la farina falsifica- ta, onde cominciò con lagrime a pregare il Signore, gli dasse il meritato castigo e si cangiò il Gianizzero in un porco”. Un altro prodigio del Dio cristiano? Il Pelizzer ci credette, aggiungendo alla storiella questo commento: “Ne è punto farsi meraviglia, perché in quel paese si vegono giornalmente miracoli”. Erano trascorse già due settimane da quando P. Paolo Pelizzer si trovava in visita al convento di Visovac quando fu deciso di compiere un’altra escursione a cavallo. Nel corso di quella che il Rovignese chiama “cavalenza” (cavalcata) per diporto, “incontrassimo un Turco bellissimo giovine vestito di scarlato e con li rivoltini delle maniche alla Croata di G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 191 damasco; questo così vestito arava con sei paja di bue; aveva alquanti figliuolini piccoli quali tutti ajutavano il Padre e s’affaticavano d’imparare. Questo Turco che arava era figlio d'un Turco vecchio che sembrava un gigante, haveva un petto intiero che gli sporgeva fuori un palmo. I suoi denti erano così grandi, che le mie onge del dito police”. Dopo questa descrizione, dalla quale traspare una certa ammirazione o simpatia del Pelizzer sia per il turco giovane bellissimo che per suo padre anziano e robustissimo, l’autore della memoria informa che il vecchio “haveva memoria della guerra navale del 1571” quella di Lepanto, precisia- mo noi, che segnò la sconfitta della flotta ottomana ad opera di quella cristiana formata soprattutto da galee veneziane, comprese numerose unità istriane e dalmate. “Il giovane che arava disse: andate, andate Padri a casa dal vecchio. Rispose il Padre Boghetich: venite ancor voi. Egli disse: lasciate quel frate giovine, che ari per me, cioè fra Pasquale mio compagno. Giunti che fussimo alla casa, subito stese un tapeto per terra, che così costumano mangiar li Turchi, portò della salata, delle olive, che molto belle sono in quel territorio, e spinò una botte del miglior vino che aveva in casa”. Continuando a descrivere il singolare evento, annotando diligente- mente ciò che lo mise a suo agio in quella famiglia musulmana, turca o turcizzata, P. Paolo scrisse ancora che a un certo punto venne fuori la “Bulla”, la vecchia moglie del vecchio capo famiglia, e insieme a lei comparvero le figliuole. “La vecchia bacciava il Padre Boghetich suo conoscente, le figlie baccia- vano il famiglio, che venne con noi, dicevano essere parenti, perché forsi quel famiglio uscito dalli infedeli si sarà fatto fedele”. Queste annotazioni non parvero molto convincenti al trascrittore del manoscritto originale, lo Zlatovié, che commentò: “È poco probabile che quel famiglio fosse un Turco convertitosi al cristianesimo. Anche quando queste conversioni avvenivano, raramente, il convertito non poteva rima- nere in territorio turco, ma doveva passare fra i giaùrri (cristiani). Molto probabilmente era la vecchia che era stata cristiana e s'era poi turcizzata, ed era parente di Padre Boghetich, sicchè lei soltanto lo baciò”. Una vera musulmana non avrebbe mai baciato pubblicamente un sacerdote cristiano. Ed anche il famiglio sarà stato parente del Boghetich, sempre secondo quel commentatore, per cui anche a lui era permesso baciare le giovani parenti turche e la loro vecchia madre. Una cosa, però, 192 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 era chiara: fra la gente del popolo non esisteva poi tutto quell’odio che i vertici religiosi e i governi dei cristiani e dei turchi volevano far credere o instillare. Ma torniamo alla Memoria. Da essa apprendiamo che la visita del Pelizzer al convento si concluse “i/ sabato della domenica 3. di quadragesi- ma”, giorno in cui l’illustre viaggiatore decise di tornare al convento di Crappano: “m’incamminai verso il nostro Convento di Crappano, per farmi traghettare sino a Spalato, e da Spalato sino Macarsca”. I confratelli di Visovac gli avevano sconsigliato un viaggio via terra, facendo presente che, dovendo evitare i distretti turchi di Scardona, del Cherca, di Drni$ e di Knin, avrebbe dovuto compiere un viaggio lungo e difficoltoso, faticoso per lui e il suo seguito. In quei giorni, per di più, cadeva la neve. “Quelli Padri non si fidavano di condurmi ivi per terra, prima per la lunghezza del viaggio e laboriosità, essendo le nevi; secondariamente perché dovevano passare per il teritorij d’un Sanziaco molto fastidioso, onde temen- do di qualche sinistro incontro, giudicarono meglio mi portassi alli Conventi della marina, che erano tre: Macharsca, S. Croce in slavo Xivogosta, e Zaostrogh”. Sosta a Pucisée sulla Brazza Ignoriamo quale fu l’itinerario scelto per raggiungere la costa; P. Pelizzer non ci illumina bene su questo punto, limitandosi a dirci che fu accompagnato dal P. Revdo. Custode, fra Marino e dal Rev. Padre Boghe- tich: “et giunsimo il sabbato sera a quella torre che stà per mezzo il Convento di Crappano, chiamassimo la barca e ci vennero a levare. Lasciassimo (i) cavalli in quel cortile della torre in terra ferma. Quando li Padri volsero partire, nacque non sò che disgusto tra il famiglio e quello del cortile, famiglio dico (di) uno dei Padri di Vissovac. Egli fece un affronto con tratener le briglie e le selle; onde che per esser venuti in campagnia mia, e per essere nel nostro stato, ricevei l’affronto in me stesso”. Così, dimenticando di essere un servo di Dio, votato all’umiltà, al perdono e alla carità cristiana, P. Pelizzer cedette alla violenza dell’istinto: “Ero giovine, e bizaro, risoluto me gl’avven- tai con tanto sdegno, con tante villanìe, con tante minacie d’andare dall’Illu- strissimo Conte e farlo mettere in una carcere, che ben subbito le selle (vennero) fuori, e le briglie; e li Padri rimasero tanto edificati della mia G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 193 persona, quanto stupiti di tanto sdegno, di tanto zelo, e di tanto coraggio”! Da Crappano l’impetuoso e fiero Visitatore rovignese ripartì di giove- dì diretto a Spalato: “// R. Pre. Lorenzo da Sebenico Guardiano di Crappa- no”, quello stesso che “m’haveva fatto condurre sù per il canale a Vissovaz, mi fece ancora per sua grazia condurre a Spalato”. In compagnia del Peliz- zer c'erano fra Pasquale e il Padre Guidotto del convento crapanese. “E giunsimo ad una terra dell’Isola della Brazza chiamata Pucischie, fussimo accolti da un tale Signor Sime Zupaneo Procuratore, con carità incredibile tanto delli huomini, quanto delle donne”. La sosta nella pittoresca borgata di pescatori durò cinque giorni. Durante i primi due il Pelizzer fu ospitato in casa del Procuratore insieme agli altri due confratelli che lo accompagnavano: “Dui giorni e dui notti stessimo in casa sua, casa tanto benefatrice, che fidono nelle mani de’ frati e la moglie e le figliuole, e li figliuoli. Il frate che era fra Domenico d’Ossero laico, sempre con le donne in cucina, a preparare il vitto con una carità inenarabile”. Padre Pelizzer volle in qualche modo sdebitarsi verso quella gente così cordiale, e lo fece tenendo una predica: “Recitai un sermone con il stellario della St. Vergine in Domo (?), onde quel popolo mi prese (in) grande affetto”. A Pudisce il Pelizzer rivide un certo Francesco Mladineo che aveva già incontrato in occasioni di una predica a Sanvincenti in Istria, e questo Mladineo, col fratello Trifone, volle ospitarlo a pranzo nella propria casa. Ecco come l’ospite racconta l’episodio: “Quando li Signori Mladineo, Trifone e Francesco (mentre quest’ultimo era mio conoscente nel tempo che predicavo a S. Vincenti in Istria) sepero, che mi trovavo dal Signor Simon, venero ivi per condurmi nel suo palazzo, un Palazzo belissimo, con una bella peschiera, con tutti li veri ritratti de prencipi e regi, et homini illustri, con horti con bellissime comodità”. Nonostante la piacevolezza della moglie e delle figlie di quel Simone Zupaneo, la bontà della loro cucina e la loro devozione ai frati, Padre Pelizzer avrebbe volentieri cambiato casa durante la sosta a Pucisée, trasferendosi in quel bellissimo palazzo dei Mladineo. “Ma perchè il Signor Procurator non voleva lasciarmi in modo veruno, si rissolsero di giocar alla mora, e quello che vinceva m'haveva da tenir in casa sua”. AI gioco della morra, tipico delle osterie dalmate, giuliane e friulane, vinse il signor Francesco Mladineo, il quale — racconta Pelizzer — “mi condusse nel suo Palazzo, ne fussimo regalati d’una buona cena, e buoni letti”. E più avanti: 194 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV,2004,p. 157-244 “Cinque giorni si tratenessimo in quel porto; e Giovedì notte fece una fortuna di bora si grande, che non si può esprimere; venne tanta neve, che fece strage grande d’animali; ne noi potessimo per quel giorno uscire di casa. Qui imparai a mangiare le foglie delle piante d’artichiochi roste, perchè il Signor Francesco ne fece arostire, et erano molto buone. Mangiassimo (pure) delle sardelle di Lissa, tanto esquisite e belle, che ne prima ne dopo mai mangiai così delicate”. E se lo dice un Rovignese bisogna credergli, perchè i Rovignesi di sardelle e d’altri pesci sono ottimi intenditori. Di nuovo in terraferma Come già accennato, il programma delle visite ai conventi dalmati prevedeva ulteriori puntate del Pelizzer a Makarska, Zivogosée e Zao- strog. Da Pucisée il Pelizzer ripartì il sabato; alla sua partenza “vennero e donne e homini à compagnarmi alla barca: perché il porto è lungo, mi seguitavano per terra in quel mentre che ci andammo per mare sino a che mi potevano vedere”. Giunto a Makarska di sera, il Pelizzer vi si trattenne poche ore, quel tanto per notare che la cittadina, con meno di mille abitanti, era tutta ristretta in poche centinaia di case (che formano oggi la Città Vecchia) con stradine a scalinata, ai piedi dell’erto, brullo e grigio Biokovo che rende ardue le comunicazioni col retroterra. Comunque solo da Makarska si potevano raggiungere i conventi da visitare, “uno dietro l’altro”, e sempre “da Macharsca si passano li monti per andar suzo in Bosna”, per cui il Pelizzer partì “subbito Domenica da Macharsca per Zaostrogh, e poi visitan- do ritomai a Macharsca”. In queste visite, che l’autore della Memoria descrive più in là meno frettolosamente, fu accompagnato dal Reverendo Padre Tadeo Vucotich che “fu già Custode” e conobbe pure “molti altri frati vagandosi, tra quali vi era un Chierico, fra Filippo da Pogliza, che s'era trasferito in queste parti per ordinarsi, e stava a Macharsca”. Dobbiamo ammettere che in questo punto della sua Memoria P. Paolo Pelizzer non riesce eccessivamente comprensibile. Riusciamo tutta- via a capire che il primo convento visitato non fu quello di Zaostrog, bensì Santa Croce di Zivogosée, nei pressi dell'omonimo villaggio (che tale è tutt'ora, formato di alcuni gruppi sparsi di case e di un porticciuolo, a G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 195 sud-est di Igrane sulla Litoranea), a sedici chilometri da Makarska e a tredici da Zaostrog. “E perché l’ora era tarda, ci avvenne alloggiare in S.Croce, sbarcassimo in terra. Si vide pure un altra barchetta simile alla nostra, che urtò con la prora nel lido del mare; e si videro uscire dalla barchetta quantità d’altri frati. Il cuore mi presagiva qualche male, cominciò a sospettare e ciò maggiormente, quanto che per il paese si camina sempre con sospetti”. A questo punto il trascrittore della Memoria fa seguire una parentesi con i tre puntini indicanti un brano omesso. Spiega però nella nota lo Zlatovié che in quel brano Pelizzer si era soffermato a lungo a raccontare che i frati di Zaostrog gli avevano portato delle lettere del Padre Tommaso Maravié, da lungo tempo nominato vescovo di Bosnia (ma consacrato a tale carica appena in occasione della visita del Pelizzer, nel marzo 1640, nella cattedrale di Sebenico) il quale si trovava in quel momento nel convento bosniaco di Rama, inchiodato a letto da un malanno. Nelle lettere, alle quali erano allegate le rimostranze scritte dei superiori di vari conventi di Bosnia, il Maravié riferiva allarmato: le autorità turche aveva- no saputo che, mandato da Roma, stava arrivando una spia per esplorare il Paese, sicchè quelle stesse autorità minacciavano lui (il Maravié) i conventi e le chiese francescane; pertanto pregava il Pelizzer di fare attenzione e di agire con la massima cautela in ogni cosa, altrimenti incombeva sull’intero Ordine francescano in Bosnia una grave disgrazia. Dopo essersi consigliato con i Padri che lo accompagnavano, il Pelizzer scrisse una nuova epistola al MaraviC, elencando i propri diritti e doveri quale Visitatore generale dell’Ordine, fra questi il dovere di convocare il capitolo dei francescani di Bosnia. Se il Maravid riteneva che il Capitolo non poteva tenersi a Rama o in qualsiasi altra località della Bosnia, lo facesse sapere; in quel caso aveva il dovere di venire in Dalmazia dove egli, Pelizzer, avrebbe convocato i superiori di tutti i conventi bosniaci e impar- tito loro le necessarie istruzioni e gli ordini. La lettera fu scritta nel convento di S. Croce descritto nella memoria “imperfetto, perchè è fabrica novella et è situato sotto quelli monti che girano l’Europa, ciò è l’Alpi adimandati Catena mundi”. Il Visitatore vi trascorse soltanto una notte. La mattina dopo, “recitato l’officio e celebrata la s. Messa, scrissi al Padre Provinciale”, consegnò la missiva ai confratelli di Zaostrog che se ne ripartirono sulla loro barca, e proseguì per buona parte della giornata nella visita pastorale al convento di Zivogosée, la cui costru- 196 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 zione aveva avuto inizio nel 1616. Sorse sulle pendici degli ultimi sproni del Biokovo, uno dei rilievi più tipici delle Alpi dinariche. La barba lunga fino all'ombelico Dopo altri due tagli operati dal curatore nel testo della Memoria, questa prosegue portandoci a Zaostrog, un villaggio distante sedici chilo- metri dall’odierno porto di Ploée. L’abitato, di origine romana, è raccolto sotto le ripide pareti calcaree del monte Rilié. Il convento francescano sorgeva sulla costa del mare. In esso l’ospite si fermò otto giorni, facendosi nuovi amici, fra cui il barbuto Padre Bartolomeo Kadlié ... “... il giovedì partissimo per Zaostrog. Il Convento di Zaostrogo ove rissiede il Padre Bartolomeo Cacich, huomo di grand’aspetto e veneranda presenza, di virtuose qualità freggiato, arichito d’una barba che gli giungeva sino all’umbilico, di statura semi gigantesca”. Quest'uomo non era un frate qualsiasi, ma il vescovo di Makarska e amministratore dell’antica diocesi di Duvno. Si spegnerà nel 1645 a San Giorgio-Suturaj sull’isola di Lèsina, dove riposano le sue spoglie, nella cappella che egli stesso aveva fatto costruire nel tempio di San Giorgio ed aveva donato, ancora in vita, a quella chiesa parrocchiale. Dopo aver tratteggiato il profilo di Padre Bartolomeo alias fra Bartul Kaéié Zarkovic, il Pelizzer fa una rapida descrizione del convento e rac- conta la partenza di Padre Pietro Boghetich alla volta dell’Italia avvenuta durante la sua visita a Zaostrog: “Questo Convento tra tutti in Provincia è il più bello. In Refettorio vi è una bella tavola di pietra viva, larga e grande. Li sacerdoti sono 8. Li chierici S. Li puti per vestirsi sono 5. Li famigli sono 4. “Venerdì della Domenica di passione, dovendosi partire per l’Italia, il Padre Pietro Boghetich sacerdote novello, venne alla colpa, e chiese perdono humilmente a tutti. Dissi al Monsignor Vescovo che gli ascoltasse la colpa, come quello che haveva notizia de’ suoi costumi. Il Vescovo così disse: Figliol mio, tu anderai in Italia, ove hai da operare in modo tale che non si dichi di te, che sei stato a slazzo, a vedere solo il mondo, ma che sei stato ad imparare. Qui sei vissuto honoratamente, così procurerai vivere honoratamente ove vai; acciò habbino a benedire il Padre, che ti ha generato, la madre, che'ha nutrito, G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 197 la patria, ove sei nato, il frate che t'ha posto il capuzzo, quelli Padri con quali hai conversato etc. Qui a Zaostrogh (mi) fermai otto giorni, onde ebbi occasione di praticare il Vescovo Bartolomeo Cacich, il quale sentendomi dire la messa con le nuove orazioni, che son solito sempre dire, da quel tempo mi prese singolare affetto, e disse, che le mie orazioni non potevano riuscire se non buone, e tanto maggiormente, quanto che sapeva, che quantunque si dovevimo partire il più delle volte all'alba, non mai però volevo tralasciare la messa. Mi disse che nella sua Diocese haveva più di cinquanta milla anime, che quando venne una volta a Roma portò cinquanta milla medaglie, e non bastarono; e che alcuni Ragusei, pensando fossero denari, aprirono li sachi ma rimasero delusi”. Proseguendo nella sua Memoria, il Pelizzer fornisce informazioni sulla regione attraversata: “In questi luoghi habittano cristiani divotissimi, come sono anco quelli di tutta la Bosnia”. Evidentemente, almeno per la Bosnia, riferiva quanto gli dicevano i confratelli. Secondo il suo racconto, i frati francescani erano amati dal popolo al punto che “gli huomini tutti corrono vegendo il frate à baciarli la mano, (e) sono tanto devoti, che camminano tutto il giorno perascoltare la messa”. In quei luoghi scarsamen- te abitati ciascun parroco-frate aveva la cura di “4 o cinque ville”; questo parroco decideva di volta in volta di celebrare la messa “in una campagna commoda à tutte le cinque ville”, spargeva quindi la voce, ed aspettava che arrivassero tutti i parrocchiani “sino à mezzo giorno”. I fedeli, a loro volta, “la mattina per tempo pigliano la sua meta, e vanno al luoco della messa”. In mezzo ad un prato, il parroco “rizza l’altare e celebra la messa, quale fornita mangiano li popoli, come fano (i) nostri quando vanno alle Rogazioni”. Tornando a parlare del convento di Zaostrog, il Pelizzer riferì che quei frati tenevano “pochi cavalli, per esservi pochi fieni”, scarseggiava il foraggio. Avevano però ben tre cantine ovvero canove in ciascuna delle quali erano sistemate: “40 bote di vino che ogn’una tenirà passa 30 barile”. Una quantità enorme, che ci induce a pensare ad un attimo di esagerazio- ne da parte del Rovignese. Il quale spiega che quelle botti non erano tutto; altro vino si trovava presso le singole parrocchie, che erano cinque. Inoltre, i frati avevano “butiri, formaggi, animali (in) quantità grande, di vigne haveranno quaranta e cinquanta homini che lavorano”. Di questi contadini al servizio dei frati, “molti vanno a lavorar per voto, e servono li Conventi li anni intieri”. Dal che si ricava che quei Francescani non se la passavano male, disponendo di viveri in abbondanza e di forza lavoro gratuita. 198 G. SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 I putti e la grammatica “... Li due Aprile, che fu lunedì santo, dopo pranzo contempo veramente cativo, ma per il poco transito ch'e sino al Convento di S. Croce non fù stimato, partissimo da Zaostrog, ch’à un dispresso furono 8 miglia, che tanto è da un luoco all’altro”. Padre Pelizzer, dunque, si accomiatò dai confratelli di Zaostrog col maltempo, imbarcandosi col vento di scirocco e veleggiando “in puppa”. Strada facendo, il tempo peggiorò ancora, “s’ingrossò in guisa che non solo portò un diluvio d’acqua dal cielo, da cui fussimo ben bagnati, ma anco con pericolo portava le onde vive nella barca”. Così, “e dal cielo, e dall’onde del mare regalati d’acqua”, giunsero “salvi per la Dio grazia nella spiaggia di S.Croce, ove fu tirata la barca in terra”. Poiché nel viaggio di andata da Makarska a Zaostrog Padre Pelizzer aveva fatto soltanto una sosta brevissima a S. Croce (Zivogosée), volle sostarvi un poco di più sulla via del ritorno per attingere altre informazio- ni. Esse riguardano gli inquilini del convento e forniscono, tra l’altro, una nuova prova di quanto intensi fossero i legami dei Francescani della sponda orientale dell'Adriatico (e della Bosnia) con l’Italia e le sue fonti di cultura. “Nel Convento di S. Croce, luogo novello, vi stantiano due laici, tre chierici, sacerdoti sei, dei quali quattro sono Parocchi, cinque putti, che allevano et ammaestrano per vestirli frati; due di questi putti erano picoli, ma quanto più picoli tanto più ben istruiti nella grammatica. Costuma la Provincia in ogni convento (tenere) quantità di giovani conforme alla possibilità di conventi; questi (giovani) servono in coro come chierici, fuori come famigli, e di più sono anco studenti. La sera il Padre Lettore li fà inginocchiare, li dà delli (brani) latini alla mente (da imparare a memoria, ndr), li fa recitare la lezione, con la successione del tempo gl'istruiscono bene nella grammatica, che fatti poi frati, et ordinati, li manda- no in Italia sacerdoti à studiare le (scienze) speculative e fan grande profitto; e la Provincia è piena di frati virtuosi, ne passava giorno che non si disputasse e discutesse qualche questione”. Dopo la nuova sosta a S. Croce, P. Paolo Pelizzer sbarcò la seconda volta a Makarska, il 4 aprile. Era il “Mercordi Santo”. Makarska viene presentata nella Memoria prima come città, poi cittadella, infine borgatel- la, “Cattedrale di Monsignore Vescovo Macariense”. G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Affi, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 199 “Questa cittadella è una borgatella. È situata al lido del mare in una bella pianura. In questa cità vi è un solo Turco chiamato Emin, cioè Daziario. Questo per havere il dazio, mi dicono che paga tredeci milla Reali al gran Turco. Io non lo potevo mai credere, ma mi dicono che è la verità, perchè non solo hanno il dazio del transito delle robbe, ma (ri)scotono anco da ogni casa de Cristian tre, quatro, cinque Reali, secondo la possibilità delle case; oltre a ciò per ogni debito che fà un cristiano, lo fa pagare un tanto”. Per comprendere meglio quanto ci dice il Pelizzer va ricordato che all’epoca Makarska era sotto il dominio turco, il quale non si faceva sentire con il suo apparato amministrativo, lasciato nelle mani dei funzionari cristiani del posto, ma unicamente con il “Daziario” che, oltre a riscuotere tasse e balzelli, controllava il commercio portuale: infatti attraverso Makar- ska, uno dei pochi sbocchi del pascialato bosniaco sull’Adriatico, passava un discreto traffico commerciale col retroterra prossimo e lontano. Posse- dimento turco dal 1499, Makarska resterà nelle mani degli “infedeli” fino al 1646. Esattamente sei anni dopo la visita del Pelizzer, infatti, passerà alla Serenissima Repubblica di Venezia. All'epoca la città era tutta accentrata nel fondo della vasta insenatura chiusa a sud-est dal promontorio di Oseja- va e a nord-ovest dalla penisoletta di San Pietro/Sveti Petar. Cantine segrete e ancora miracoli Il convento francescano, costruito nel 1400 sulle rovine di un’antica abbazia benedettina, era stato restaurato nel 1540 ed aveva subito una ristrutturazione nel 1614. La chiesa conventuale era ad una sola navata. Queste informazioni non le offre il Pelizzer, il quale, dopo l’accenno all’Emin, passa ad informarci sugli abitatori di quel convento, che ospitava dieci sacerdoti, tre laici, tre “puti che imparano” e cinque famigli. Quattro dei sacerdoti erano parroci e due servivano “/i Cristiani vicini” non inclusi nelle quattro “Parrocchie principali”. Quel convento era peraltro caratte- ristico per aver tutto doppio: “Sono in questo Convento due Refettorij, due cucine, due canove, una pubblica et altra secreta”. Ma era una caratteristica, questa, di quasi tutti i conventi situati in territorio sottoposto al dominio ottomano, per una ragione ben precisa: i Turchi, sapendo che nulla poteva essere loro negato, entravano spesso nei conventi soprattutto per sbafare. E i francescani erano costretti a tenere sempre aperte le loro cantine e i 200 G. SCOTTI, UnFratecon “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 loro refettori a questi ospiti poco graditi ai quali era giocoforza fare buon viso. Tuttavia, per evitare che siffatti ospiti insaziabili prosciugassero cantine e dispense, i frati tenevano parte dei loro viveri e delle botti in cucine e cantine segrete, le cui porte d’ingresso erano ben mascherate. Elencando alcuni dei beni del convento, il Visitatore non nasconde la propria ammirazione per dei “bellissimi paramenti nella sacrestia, ma tra tutti una pianeta di panno d’oro mista, che fà un belissimo vedere”. Nella chiesa, inoltre, vide “una cosa miracolosa degna d’essere registrata. Vidi una frezza scoccata nella capella, in cui è situato il choro, cioè nel volto, overo cielo del volto, che era formato di tuffo. Il ferro stava nel volto; il rimanente della frezza stava tutto fuori, e mi dissero, che erano passati 30 anni che quella saeta stava ivi affissata”. All’occhio attento del Rovignese non sfuggì poi un artistico crocifisso che gli ricordò uno simile da lui visto sull’isola di Veglia: “Il caso in questa guisa v'è un travo sopra l’altare grande, ficato d’ambi le parti della capela, che serve per la chiave, e nel mezzo del travo è un santissimo Crocifisso, come anco a Veglia”. Proprio a questo crocifisso era legata la presenza della freccia che stava conficcata da tre decenni sulla volta della cappella del coro: “Entrò un Turco in chiesa, tese l’arco con la saeta per ferire il Crocifisso, si ruppe la prima saeta; adirato, pigliò la seconda, (la) quale andò a colpire lungi dal Croci fisso, due se non 3 passa in circa nel volto della Capella. Fatto tocco il Turco dalla mano divina, cominziò come forsenato andare à dietro a dietro fuori della chiesa, e quando fù in capo al cimitero, che è compettente- mente lungo, cadete morto; e la frezza sino al mio tempo era ancora fissa nel volto. Sebene hora che copio il (manoscritto della relazione del) mio viaggio 1661 durando la guerra del Gransignore con la serenissima Repubblica, li Turchi hano abbruggiato et il Convento, e la chiesa, e la Capella, perche li Veneziani presero Macharsca”. Come si vede, il Rovignese ci ha appena raccontato un ennesimo miracolo. Il Pelizzer annotò pure che le porte di quel convento erano “tanto strette che bisogna (va) passar in coltello”. Anche questa particolarità si ripeteva “per l’ordinario per tutta la Provincia” francescana, i cui conventi, oltre alle porte, avevano anche “/e finestre assai piccole, sicché “per entrare bisogna entrare a coltello, overo serpeggiare, e ciò fanno, per quanto mi dissero, acciò li Turchi non possino entrare dentro con cavalli, e ben spesso s’urta con la testa, e lo sa il Padre Guidotto mio secretario, che urlò tante e tante volte; ma una volta urtò specialmente si forte, che per il gran dolore si gettò in terra”. G. SCOTTI, Un Frate con “I. Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 201 Tutt’oggi si vedono, nei conventi che hanno resistito al tempo e alla guerra, quelle vecchie piccole porte e finestre. Gabbanizza croata e berretta turca Continuando la visita a Makarska, che si protrasse per circa una settimana, P. Paolo Pelizzer affidò a Padre Guidotto una lettera da portare al Padre Provinciale di Zara insieme alle lettere che erano state scritte allo stesso Visitatore dal Provinciale della Bosnia. Si trattenne a Makarska “sino la 2. Festa di Pasqua”. La sera della domenica fu invitato a cena da un certo “Signor Martino Berclacich”, il quale “haveva un figliuolo maritato, che era stato più volte con le galere della mercanzia”, cioè era proprietario e capitano di una nave mercantile. Poichè in quelle regioni era necessario vestirsi “alla usanza del paese alla Croatta con la Gabbanizza e bereta turchesca”, il Pelizzer ne approfittò per rispedire a Rovigno con la nave parte dei suoi bagagli: “percui anco rimandai li miei stivali fatti alla Italiana, le braghe et il giuppone di pelle” dei quali non aveva più bisogno. Era più utile il folkloristico abbigliamento croato-turco che serviva a mimetizzarlo, se così è permesso esprimerci, nel viaggio attraverso la Bosnia ottomana. Il signor Martino Berclacich “era huomo di buonissima cosienza, huo- mo di gran credito e nella Turchia e a Venezia, e nel seraglio, et altre parti del mondo”, un uomo d’affari che tesseva anche buone relazioni diciamo così diplomatiche fra la Serenissima e la Porta, in una parola “luomo commo- dissimo per il paese”. Le lodi del Pelizzer erano peraltro meritate perchè quel signore, oltretutto, “fece una lautissima cena” e, “con tutta sincerità e cordialità d’amico”, offerse al Rovignese “la casa sua per habitazione in evento che venissero i Turchi in Convento, acciò potessi stare ivi senza ombra di timore: venite pure a casa mia e non dubitate”. Quando poi si trattò di partire, mise a disposizione dell’ospite i suoi cavalli: “e perché non si trovarono cavalcature, essendo le cavalcature magre alle marine per li pochi pascoli e carestie de fieni, non ostante che il suo Signor fratello cavalcava per il seraglio, mi graziò della sua cavalcatura gratis sino a Verdol, e mandò un famiglio acciò d’indi ritornasse il cavallo. Qui da un Veneziano che haveva la saliera (salina, ndr) fui regalato il sabbato d’un pesse pangaro che pesava otto libre, e mi recò gran stupore; perchè nell’Istria se arivano ad una libra, è gran cosa”. Nella Memoria, il Pelizzer non dice il motivo della sua cavalcata fino 202 G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV,2004, p. 157-244 alla località da lui indicata con il nome di Verdol. In quel luogo, sopra un monte, sorgeva una chiesa “intitolata S. Giorgio. Che per vederla si fà un’assesa”, un’arrampicata così ardua “che chi gli và una volta, non gli torna la seconda; questo Veneziano gli volse andare, e sceso che fu dal monte, rivolto alla chiesa di S. Giorgio disse: a Dio sveti Giure, vech nevidij mene, cioè a Dio S. Giorgio, mai più mi vedrai”. Dal che si capisce che quel “Veneziano” era tale soltanto perché suddito di Venezia proprietario di salina in territorio ottomano, ma in realtà era di etnìa croata. La chiesetta di S. Giorgio, posta su una delle sommità del Biokovo, esisteva ancora sul finire dell'Ottocento, come testimonia lo Zlatovid: “e tutt'ora — egli scrisse — essa è meta di pellegrini timorati di Dio che si arrampicano sin lassù per pregare”. All’epoca, davanti alla chiesa sorgeva una stele di pietra bianca interamente ricoperta di iscrizioni e fregi decora- tivi; un testo glagolitico secondo alcuni, gotico secondo altri, ma illeggibile. Biokovo: sentieri di capre Il 9 aprile, seconda festa di Pasqua, Paolo Pelizzer lasciò Makarska con i suoi accompagnatori, esattamente “in undici di compagnia, tre huo- mini che venivano per ritornarli cavalli, tre nostri famigli, io con due compa- gni, il Padre Taddeo et il Padre Matteo sacerdote”. Faceva da guida Padre Taddeo Vucotich che, attraverso la regione dominata dal Biokovo, doveva condurre il Visitatore fino a Imotski. “Il Padre Tadeo giudicò ben a lasciar la strada ordinaria, per sfugir l’occasione di passare per mezzo una fortezza turchesca adimandata Duare”, esattamente Zavdarje (che invece Pelizzer toccherà “al ritorno in patria”, passando appunto per Zavdarje ed Almissa/Omiò), una fortezza che alcuni anni dopo sarebbe stata conquistata dal generale veneziano Foscarini, come ricorda lo stesso autore della Memoria. “Invece di pigliar il camin verso occidente, che si sfuge quella gran montagna Biokovo”, Padre Tadeo “prese il camino verso l’oriente” seguendo un sentiero arduo sovrastante Tudepi, “e ci convenne salir sulla somità della montagna, posto tanto arduo e difficile, che sino al 1640 non praticai un passo tanto difficile”, annotò il Pelizzer. In quei tempi i Turchi non costruivano nè riparavano strade, e tuttavia c'erano passaggi meno e più agevoli su quelle balze montane. Il meno G. SCOTTI, Un Frate con“Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 203 arduo era quello seguito dalle carovane che scendevano verso il Litorale, che in località Radobolje si biforcava per Almissa e per il mare, e proprio in quel punto i Turchi avevano costruito Forte Zavdarje, riscuotendo i dazi doganali dai passanti e mercanti. Per evitare il pagamento dei balzelli e, ancor più, eventuali maltrattamenti ed aggressioni, Padre Taddeo scelse un sentiero poco frequentato, molto arduo, lungo il quale era però impos- sibile incontrare i Turchi. Il Pelizzer scrive che “in un luoco fu necessario il scavalcar”, cioè scendere da cavallo, proseguendo a piedi “per spazio di mezzo miglio, se non più” e per salire bisognò “aggiutarsi anche con le mani”. Una vera arrampicata, resa difficoltosa anche dalla neve che era caduta abbondante il giorno precedente la partenza del gruppo da Makar- ska. “La notte delli 8. Aprile, notte di Pasqua”, infatti, “cadette tanta neve nella somità della Montagna che la trovassimo tutta carica di neve”. L’unico abitato esistente in quel mondo “così sterile et horido” del Biokovo fu il villaggio di Vardol dove la compagnia sostò, accolta da un Conte Marco “homo spiritoso, ricco della lingua turchesca” che aveva imparato frequentando Costantinopili per affari. Questo Conte “haveva per moglie una figliuola del Signor Martino” nella cui casa a Makarska il Pelizzer era stato accolto. Così, dopo aver cenato col suocero la sera dell’8, la sera del 9 aprile cenarono col genero. “Venne incontro egli, la moglie, li figli, le figliuole, li famigli di tutti; con la riverenza ci bacciarono le mani conforme al costume del paese. Grande divozione all’abito di S. Francesco et alli suoi servi!” n In casa di quel Conte, che possedeva “molte case, ma case di legno, che tutte non fanno per una casa da galantuomo”, la comitiva di Padre Pelizzer cenò “alla Turchesca sopra il letto” che letto non era, ma un tappeto alias stuoia, 0, a dirlo col Pelizzer, “una stiora sottile fina stesa sopra la nuda terra”. Intorno a quella tavola si stava seduti “con le gambe incrociate”. La cena fu “una buona salata, un capreto rosto, una gallina lessa, buona carne salata, buon pane, buon vino; il tutto era posto in un grandissimo piatto di legno, che sembrava la luna in quintadecima”. Pelizzer passa a descrivere a questo punto la casa del Conte che inizialmente chiama Palazzo, e più avanti casupola: “una casupola di legno, larga due passa, alta altri due, ricoperta di tavole di faggio, lunga otto passa in circa: questa serve da camera, per cucina, per sala; ha à lattere la stala, la di cui porta è dentro della casa, onde le vacchette che ne haveva in gran numero, quando vogliono andar al coperto, passano per la casa, e vanno alla stalla”. 204 G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 Per ospitare quella notte il Pelizzer e i suoi accompagnatori, il padro- ne di casa “si spropriò del suo Palazzo” cedendo quell’unico vano agli ospiti. Il letto preparato dalle donne per il Rovignese fusistemato tra la porta che portava alla stalla, il focolare e la parete. Il letto era, come la tavola per la cena, una “stiora sotile”. Per coprirsi, gli ospiti si servirono “delle felzade, che portassimo con noi”. A questo punto il Pelizzer annota un piccolo episodio comico-drammatico: “M'’abatei essere coricato, quandole vacchet- te venero all’alloggio, et antrarono garegiando, mentre ch’ogn’una pretendeva essere la prima ad entrare nella propria maggione, onde mi convenne à rizzare per non rimanere calpestato da quelle”. Aria di monte, lunghissima vita “Dimandai quelli da Vardol, per qual causa habitassero in un luogo così sterile et horido? Mi risposero, che stavano volentieri ivi per più cause, prima per la salubrità dell’aria e mi fecero vedere tre vecchi, uno de quali haveva circa 110 anni, altro 120, il terzo 130, e mi dissero che ve n’è altri de 90 e de 100 anni: secondariamente, che ivi non erano molestati ne da infedeli ne da cattivi cristiani, volendo alludere ai Uscocchi, che inanti che la serenissima Repubblica di Venezia gli ponesse il freno con quella guerra d'Istria e del Friuli, andavano à depredare in quelle parti”. Quel conflitto che oppose Venezia all'Austria, protrattosi dal 1615 al 1617, fu detto infatti anche “guerra degli Uscocchi” o “guerra di Gradi- sca”, concludendosi con la pace di Madrid in base alla quale, bruciate le navi di quei predoni del mare, essi furono dispersi in varie località della Croazia. C'era però ancora un motivo per preferire la vita in quella solitudine: “tutte quelle famiglie, che hanno voluto partirsi” dalle terre sterili dell’entro- terra dalmato “per andare o oltre il fiume Sava nelle pianure d'Ungheria, overo in Istria, o altre parti” in cerca di miglior vita, di lavoro e di fortuna, non erano più tornate: “restavano estinte e morte”. A questo proposito i padroni di casa presentarono al Pelizzer “un vechiotto (il) quale era stato lungo tempo soldato a cavallo in Italia. Hor io veggendolo così semplice come gl’altri del paese, mi meravigliavo fortemente, ne potei contenermi che non dicessi: ‘ditemi in grazia, come è possibile che essendo voi stato in Italia tanto tempo siate nell’istessa semplicità, che sono questi altri, pur quelli che prati- G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 205 cano Italia sono viziosi?”. Rispose egli: “Padre, subbito ritornato in queste parti, ritomai nella pristina semplicità, il che credo havenghi non tanto dell’aria, quanto dal vedersi soggetti ad infedeli”. Una risposta, che potrebbe significare — o almeno questo ha voluto farci intendere il francescano — che bastava vivere sotto il dominio dei Turchi “infedeli” per ridursi allo stato incivile, primitivo: i Turchi non sono gli Italiani ... . Da Vardol Padre Pelizzer e i suoi compagni di viaggio partirono la mattina del 10 aprile, “terza festa di Pasqua”, accommiatandosi cordial- mente dal Conte Marco, al quale furono “fatti li dovuti rendimenti di grazie”. Camminando per oltre otto ore, finalmente “giungessimo ad Imot- ta ad hora di Vespero cioè in Convento di Imotta”. La località, oggi meglio conosciuta col nome di Imotski, sita nel punto di incontro delle regioni dalmata e bosniaco-erzegovese, era indicata nelle carte latine come oppi- dum o castellum Imota; il borgo, a centotrenta metri di altezza sul livello dell’omonima pianura, si trovava sotto il dominio turco dal 1467, al confine con i possedimenti veneziani, dei quali entrerà a far parte appena nel 1717 in seguito alla guerra di Morea quale “Acquisto Novissimo” della Serenis- sima Repubblica. Il primo convento francescano, costruito nel XIV secolo, sorgeva un po’ fuori di Imota, presso le sorgenti del fiume Vrlika. Qualche secolo più tardi, andato in rovina il primo non si sa per quale ragione, ne fu costruito un secondo — quello visitato dal Padre Pelizzer, sopra un’isoletta nel mezzo del lago Prolosko Jezero. Questo convento, rimasto deserto nel corso della “Guerra di Candia” in seguito all’esodo dei frati rifugiatisi nei territori veneziani in Dalmazia, sarà distrutto dai Turchi. Ricostruito dopo quella guerra, sarà anch’esso abbandonato dai francescani che nel 1715, al tempo di un ennesimo conflitto armato tra Venezia e la Turchia, si insedieranno ad Almissa/Omi$; i Turchi diedero il convento alle fiamme. Caduta Imota nelle mani dei Veneziani nel 1718, i Francescani costruiranno un terzo convento, stavolta nella stessa borgata di Imotski. Scene idilliache sul lago Imotski Nella sua Memoria, Pelizzer dedica poche righe alla tappa di Imotski, cominciando col presentare gli abitatori di quel convento: “vi stavano 8 sacerdoti, 4 chierici, tre laici, 4 puti. De’ sacerdoti 4 sono Parochi et hanno 206 G. SCOTTI, UnFratecon “Li Turchi”, Att, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 cinque cavalli”. E più avanti: “Sono atorno l’Isola in giro tre mano di pergolate, uno superior all’altra di altezza”. Dall’isoletta l'occhio abbraccia- va un ampio panorama: “Si vegono li monti pieni di animali e caprini, e pecorini, s'odono canti d’agneletti che si sente un miglio be, be, be, musiche di pastorelle, concerto di rane etc. che veramente è un diletto in un loco stesso tanta diversità di voce”. Non è proprio una poesia, e tuttavia, con un piccolo sforzo di fantasia, possiamo rievocare il quadro arcadico, idilliaco che il Pelizzer tentò di disegnare. Pelizzer ci informa, inoltre, che i Padri di quel convento avevano tre barche, “Czopali di legno per traghettare”. Pochi erano i paramenti di un certo valore, poichè “per le gran molestie de’ Turchi havevano trasferite alcune robe, come Paramenti, et altro a Pogliza ed ivi dato principio ad un altro Convento, ma li Turchi l’impediscono”. Anche qui, come aveva fatto con il “vechiotto” di Vadol che era stato per lunghi anni soldato in Italia, il Pelizzer chiese il perché si adattavano a soffrire in quell’ambiente ostile. “Ad un Padre che era stato in Italia, dissi: Caro Padre, havendo voi praticato quelle belle contrade d’Italia, per qual causa ritornate in queste miserie, in questi pericoli ad esser sempre molestati da infedeli?. Rispose: Padre M. Reverendissimo, la Patria . . .” Seguono alcune parole rese illeggibili da una macchia d’inchiostro, ma nulla ci vieta di pensare a una “Patria che chiama”. K*k* Con la tappa di Imota (Imotski), Padre Paolo Pelizzer concluse la visita ai conventi di quella che potremmo definire la Dalmazia turca. Proseguendo il viaggio, entrava nel Pascialato di Bosnia per compiere la seconda e più importante parte della sua rischiosa ma interessantissima missione, che si protrasse dal 22 aprile al 20 giugno. Siamo sempre all’anno 1640, !5 L'intera seconda parte di questo libro fu pubblicata da G. SCOTTI, “In Dalmazia e Bosnia un frate con “li Turchi”, sulla rivista La battana di Fiume, a. XXXIV, numero 124 di aprile-giugno e numero 125 di luglio-settembre 1997. In questo saggio ha subito lievi modifiche e qualche aggiunta. La prossima, terza parte era inedita finora. G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 207 TERZA: PARTE Nel pascialato di Bosnia “Il Venerdì mattina all’Alba partissimo da Imota otto frati, e 4 famigli. Qui principiò il Padre Pietro Cumbat d’Imota à servirmi e per segretario e per maggiordomo. Il Padre Guardiano d’Imotta con un cappellano, doppo ha- vermi accompagnato lungo tempo, ritornarono al Convento e 10 noi conti- nuassimo il viaggio”. Pranzarono “nella cima di una montagna”, dopo di ché avanzarono per un bel pezzo a cavallo, passando nei pressi di un abitato del quale il fiduciario del Generale dell’Ordine francescano non annotò il nome, limitandosi a definirlo “una terra de Turchi che haveva un bel campanile”, segno che vi abitavano dei cristiani. Proseguendo il cammino, arrivarono nella valle di Dumno (certamente Duvno), una piana carsica nella Bosnia occidentale che si estende per circa 150 chilometri quadrati a un’altezza media di 850 metri sul livello del mare. La piana è chiusa sul lato nord- orientale dalle pendici della montagna Ljubusa che si leva fino a 1800 metri. Avanzando nella valle, lungo il margine meridionale e sud-occiden- tale del monte Midena, la comitiva raggiunse il villaggio di Bukovica (“arrivassimo ad una villa chiamata Bukoviza”) dove fu deciso di far tappa. Là “fussimo recevuti per alloggio in una casa di devoti Christiani”. In quella casa, il Pelizzer vide “ilvero modo di conservare le case ele facoltà” un modo che avrebbe dovuto essere preso ad esempio dai paesi occidentali, sottoli- neava l’autore della Memoria: la famiglia-cooperativa, la grande famiglia unita. “Erano più fratelli ammogliati; uno tra gli altri, che era il più habile al governo, teniva la borsa, e tutti gl’altri rendevano a quello l’ubidienza; ne mai si separano, tutti stano insieme, così sono allevati dalli Frati”. A parte l’insegnamento dei Frati, è noto che in quelle regioni balcani- che la famiglia-cooperativa è una tradizione secolare che appena dopo la seconda guerra mondiale comincerà a spezzarsi, una tradizione comune sia ai cristiani che ai musulmani, in Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Serbia e Macedonia. L’unità della grande famiglia di tipo patriarcale veniva conservata soprattutto tra le popolazioni dedite alla pastorizia, e pastori erano gli abitanti dei rari villaggi posti per lo più ai margini della 208 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 Piana dove menavano i loro greggi anche i pastori dall’Erzegovina e i Dalmati di Imotski. Si deve a questa economia prevalentemente pastorizia la quasi totale scomparsa, oggi, dei boschi che accerchiavano rigogliosi, un tempo, la grande Piana di Duvno che ha preso il nome dal principale villaggio (oggi città) esistente nella valle. Da Bukovica la comitiva di Padre Pelizzer si portò l’indomani a Rama, nei pressi dell’omonimo fiume affluente della Narenta, una zona attraver- so la quale i sentieri portavano, per il monte Makljen, a Gornji Vakuf ed a Bugojno. A Rama giunsero “i! sabato in Albis ad hora di mezzo giorno”, sistemandosi nel locale convento che, come spiega il Pelizzer, era il “primo convento di Bosna de 17 conventi” di quello Stato; e l’illustre Visitatore volle ispezionarli tutti (“volsi vedere tutti”). Oltre al nome della località e all’ora dell’arrivo, Pelizzer purtroppo non dice altro di Rama. Da parte nostra possiamo soltanto evidenziare che, costruita intorno all’anno 1500 per volontà della famiglia Romanovié o Romani6, quel convento fu per tre volte conquistato e incendiato dai Turchi. I Francescani finiranno per abbandonarlo definitivamente nel 1687 portando paramenti ed arredi della chiesa e del convento a Sinj dove fondarono il convento che tuttora vi si trova. La tappa successiva, dopo Rama, fu la località di Fojnica: “e di Rama partissimo doppo la Domenica in Albis per Fojniza, ed erimo in compagnia sette frati e tre servitori”. Sempre la solita comitiva. Avarissimo di notizie su Rama e il suo convento, Pelizzer addirittura si ripete in più punti nel fornire informazioni su Fojnica, abitato sito nella valle del fiume Fojnitka Rijeka, una regione ricca di giacimenti minerari (pirite, antomonite, sfale- rite, cinabarite, limonite e siderite) e di sorgenti d’acqua minerale, sulla strada che, attraverso Kiseljak, porta a Sarajevo e Visoko. Tuttora, a sud di Fojnica, sul monte Banjski Brijeg, sorge un convento francescano, uno dei più antichi della Bosnia, risalente al XIV secolo. Questo convento, in tutta la sua lunga storia, fu sede di Vescovi bosniaci, di Vicari apostolici e di Provinciali. All’epoca della visita di Padre Pelizzer, la borgata contava “90 famiglie buone de Cristiani e sessanta de Turchi, però secretamente si ritrovavano moltissimi Frati entro. Qui era il Padre Tomaso Vescovo, il Padre Provinciale, il P. Camengrado, il P. Marino Briscimovich Custode, il P. Mateo Benlijch Guardiano e poi Vescovo di Belgrado, e molti altri Padri” segretamente riunitisi in quella località per una assemblea dei responsabili di tutti i conventi francescani della Provincia di Bosnia Argentina. Il G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 209 Vescovo Tommaso era arrivato da Visovaz in compagnia di Pelizzer, altri si erano uniti al Pelizzer a Rama. I nomi dei Padri citati poco prima, vengono nuovamente evidenziati nella Memoria, poche righe più sotto e nelle stesse righe vengono nuova- mente forniti i dati sulle famiglie cristiane e turche che formavano la popolazione della località: Cavalli e botti di vino “Fojnizza è una terra a somiglianza d’un Borgo, in cui sono, per quanto mi dissero, circa 90 case de famiglie Christiane e 60 de Turchi. Giunsimo al Convento di Fojniza, che quantunque havesse nome d'esser serato, nulla di meno quasi che in carcere; vi era il Vescovo Tomaso, il Provinciale, il P. Camengrado, il P.Marino Briscimovich Custode, il P. Mateo Benlich guar- diano di Fojniza, che riuscì poi Vescovo di Belgrado, e molti altri Padri”. Fa seguito una descrizione del luogo: “Il Convento stà situato nel mezzo d’una montagna altissima quale predomina il contorno con la terra di Fojniza, ha la montagna che occupa da una parte le finestre delle celle, che per essere la montagna altissima, rende malinconia grande. Qui hano pane squisitissimo, come si dice: Pane di Fojniza non si può dire di più; hano vini dellicati, pesci del fiume. (La) Sagrestia ricca e di argento e di Paramenti, Calici vedere sono tanti, che non mi curai contarli; 14 Croci d’argento grande, piciole e mezane”. A proposito dei tesori del convento e della chiesa conventuale di Fojnica, va detto che fino agli ultimi decenni del XIX secolo vi si conser- vava ancora una casula di broccato con sopra, ricamato in oro, lo stemma del re ungaro-croato Mattia Corvino (1458-90); secondo la tradizione, era stata ricamata dalla regina Caterina, moglie del sovrano bosniaco Stefano Tomas. Sarà donata dai francescani di Fojnica all'imperatore asburgico Francesco Giuseppe I nel 1889. Tuttora nel convento di Fojnica si trova una ricca biblioteca con libri antichi, e vi si conserva una raccolta di lettere e decreti delle autorità turche, insieme a collezioni numismatiche, diari, cronache, fotografie, trascrizioni di antichi documenti. Proseguendo nella descrizione del convento, Pelizzer scrive: “Stalla con quantità de cavalli, uno tra gli altri che cavalca il Padre Guardiano meco in compagnia, uno delli più superbi cavalli, che habbi visto 210 G.SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 in tutto il paese. Vi è (poi) la canova piena di botte altissime, per l’ordinario hanno botte che teniranno alcune 40 sino 50 somme di vino, la somma importa due barille; li cerchi sono 4 e più diti larghi, e grossi due e tre diti, tutti di ferro; nel fondo hanno una fenestra, perla quale entra uno di quelli famigli a lavare la Botte. Questo è il loro Convento principale come da noi Zara. In questo Convento si fermassimo dal martedi sera sino la Domenica del sabba- to inanzi la seconda Domenica di Pasqua”. Padre Pelizzer e i suoi accompagnatori lasciarono Fojnica il “Sabato matina avanti la Domenica 2. di Pasqua” diretti a Visoko. Ripetendosi anche su questo dettaglio, più avanti precisa: “Partissimo sabbato mattino per Visoki; fui accompagnato dal P.M.R.Provinciale, e dal Padre Guardiano di Fojniza, et altri della compagnia ordinaria, che eravamo 6 fratti, 8 cavalli, con quelli che conducevano la provisione nelli Arazi, e tre famigli”. Rapida- mente traccia, quindi, l’itinerario percorso: “Cavalcassimo lungo spacio di strada, perla valle vicino al fiume, che quanto più caminavimo, tanto più si andava dillatando, e sempre appariva maggiore. Passassimo una campagna chiamata Gomioniza, nel mezzo della quale si è la strada magistra, che si passa dal Seraglio (Sarajevo, ndr) a Costantinopoli e và anco a Bagna Luca; questa fu passata con gran sospetto e timore. Quelli Padri, quando passano strade maestre, sempre le passano con gran timore, e per l’ordinario vanno sempre per le strade secrete, per fugire li sinistri incontri delli Turchi”. A Visoko, che il Pelizzer scrive Visoki e Visochi, perchè così si chiama- va ai tempi suoi, i sei frati arrivarono quello stesso sabato “ad hora di pranzo, e pransassimo bene, lodato il Signore”. Quel pranzo fu anche allietato dalle note della gusla suonata da uno della borgata: “Giunti che fossimo a Visochi, venne un secolare in quel mentre che disnavamo à sonare il fiolino (gusla) del paese, che rendeva una malinconia non poca”. A questo punto, visto che il Pelizzer omette del tutto la descrizione del convento, forniamo qui delle rapide informazioni attingendo alle note del trascrittore della Memoria. Quel cenobio, egli ci dice, ebbe una vita per nulla facile; su di esso, anzi, spesso “si abbattè la rabbia turca”, sicché i Francescani saranno costretti ad abbandonarlo nel 1688, portando con sé tutti gli oggetti d’arte e preziosi che si trovavano, compresi gli arredi della chiesa che furono trasferiti a Bosanska Gradiska. Va anche ricordato che ancor prima dell’arrivo dei Turchi in Bosnia il convento di Visoko era stato distrutto dagli eretici “patareni” detti “bogomili”, più tardi ricostruito. G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 211 Nella chiesa conventuale era venerato il corpo del Beato Angelo Zvizdovié da Travnik, ritenuto dai fedeli cristiani eccezionalmente miracoloso. Du- rante un incendio però quel corpo andò bruciato. Sito vago e dilettevole Posto alla confluenza del fiume Fojnica nel fiume Rama, Visoko era un borgo-fortezza sulla antica strada Bosna-Neretva che collegava la costa adriatica alla pianura pannonica. La prima menzione del castello risale al 1355, mentre il borgo sorto ai suoi piedi è ricordato dal 1363. Divenne successivamente un centro commerciale molto importante grazie soprat- tutto alla presenza di mercanti Ragusei che fondarono una forte colonia. Ritiratisi i mercanti di Ragusa nella più ricca Fojnica (per via delle minie- re) dopo il 1430, Visoko decadde. Cadde nelle mani dei Turchi nel 1463 e, pur decadendo ulteriormente fino a ridursi a un villaggio, all’epoca della visita del Pelizzer era comunque una delle località più importanti del Pascialato di Bosnia. Lo conferma anche la Memoria del frate rovignese. “Visochi è una terra turchesca, la più bella, che sino ad hora habbi veduto, un scito nobilissimo, vago e dillettevole agli occhi, in una bella pianura vicino al fiume Selesnicza (si tratta del ZeleZnica, affluente del Bosna, che scende dalla montagna Treskavica: siamo già nella Piana di Sarajevo); à sette moschee con sette meciti (minareti), che vol dire cam pani- li; nella cità tra casa e casa vi sono orticelli con alberi fruttiferi, che vestiti di fiori m’atraevano in guisa tale che non potevo saciarmi di mirarli. La cità e grandotta, il scito è belissimo, se fosse fatta da Christiani sarebbe una oivà (?). Per mezzo della cità, cio è al dirimpetto, sbocca il fiume Bosna nel fiume Selesnicza e forma un fiume solo detto Bosna; questo camina perla pianura di Visochi serpeggiando, che tal volta non vi sono che 3 passa di terra tra aqua e aqua. A questa descrizione innegabilmente bella, segue un riferimento al convento francescano: “Li Fratti hanno un bel horto, che và gradatim (cioè, disposto a scalini, ndr) come quello di Pirano. Vi è una bella fontana vicino alla scieppe (siepe) dell’horto, ove la sera vengono li Putti, e de Christiani e de Turchi, ivia giocare atorno la fonte; e vidi che li Putti Christiani pigliano per la mano li putti delli Turchi, e dicono: andiamo alla fonte, che faremo a voi, quello che fanno li 212 G.SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 nostri sacerdoti a noi; li conducano alla fonte e li gettano dell’acqua sopra il capo, come se li avessero battezzare”. A parte l’interpretazione del Pelizzer frate, a noi pare bello comunque questo episodio, dimostrando che — come sempre — sono i bambini a insegnarci che l’uomo dall’uomo non può essere diviso dalla religione o da altre diversità. Il gioco li rendeva amici. Dopo la visita al convento di Visoko, Padre Paolo Pelizzer e i suoi accompagnatori decisero di proseguire alla volta di Sutjeska. Nella sua “Memoria” il frate rovignese scrisse: “Il Lunedi mattina giorno di S.Giorgio celebrai la S.Messa all'alba conforme il mio costume; quando però si doveva viaggiare, e si partissimo per Sutiska, e perchè era necessario passare per mezzo la cità, per passare un ponte, bisognò partire valde mane”. Se abbiamo ben capito, Pelizzer e i suoi compagni di viaggio non partirono da Visoko quel lunedì mattina, ma uno dei giorni seguenti, e stavolta prima ancora che sorgesse l’aurora — molto presto (valde mane), con lo scuro — per poter passare inosservati. Attraversarono il ponte proprio nel momento in cui il muezzin, salito sul minareto più alto fra i sette che svettavano in quella borgata, recitò la prima preghiera della giornata: “Quando fussimo per mezzo al più alto dei merciti, il Turco che và à gridare, e serve per Campana statutis horis diei et noctis, posta la testa fuori della fenestra, cominciò gridare: alaj jughen, che è quella hora che noi soniamo l’ave Maria”. Un vojvoda “terribile” Allontanatasi da Visoko, la comitiva di Padre Pelizzer camminò “al- quanto per boschi fra colline, e poi nel discender da un colle entrassimo in una belissima pianura, la più fruttifera e più dilettevole che si possa esprimere, e tanto rendeva maggior vaghezza, quantoché non è più, ma come collinete basse, ed è tanto fruttifera che, come mi raccontano quelli Padri, che sia necessario quando cresse il formento, mandar quatro, o cinque volte le peccore e rarefarlo”. Stavano attraversando la “campagna di Bielopoglie” come ci dice lo stesso autore della Memoria, il quale continua la descrizio- ne del paesaggio così: G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 213 “Vi sono campi adimandati campi di Rè, che senza mai letamargli fruttano abbondandissimamente; la maggior parte di questa grande valle è dei Christiani, ne serve altro che per formenti e vigne, non si vede però un minimo fruttaro (frutteto), ne altra sorta d’alberi. Passati questa valle giungessimo ad un fiumicello addimandato Krestionizza. A lattere sinistro vi è una terriciola turchesca con un campanile, e discosto da questa un tiro di moschetto”. Della comitiva che accompagnava Padre Pelizzer faceva parte, come ricorda la Memoria. “il Padre M.R. Provinciale che tra tanti altri cavalcava meco in compagnia, dubitando (cioè temendo) d’incontrare un tale Vojvoda cio è Capitanio turco di cui voleva la fama, che atteriva e spaventava tutti quelli che l’incontravano, fece fare il viaggio per vie insolite e secrete, e fu il viaggio più lungo al dopio”. Maa nulla valse la fatica: lo incontrarono ugualmente e dove meno se l’aspettavano. Racconta il Pelizzer: “Giunti a Sutisca, il detto vojvoda era nella forestaria del Convento, onde fussimo necessitati passare per altra via, per entrar nel Convento”. Sul convento di Sutjeska, nella Memoria si legge soltanto che “e assai magnifico per il paese e s'addimanda S. Gio. Battista”. Il caso volle che il giorno dell’arrivo del Pelizzer fosse proprio “il giorno della consacrazione della chiesa”, la quale “era grande con li suoi baladori”, sicchè “si scorgevano d’ogni intorno comparire le creature, come tante formiche, siche vidi quel tempio pieno, come il nostro di Rovigno, quando in giorno festivo si celebra la prima messa”. Mentre se ne stava nel convento di Sutjeska — e vi rimarrà fino al sabato mattina — Padre Pelizzer ebbe la lieta sorpresa d’incontrare “i/ Pietro Lipanovich, quale fu meco studente in Catignola”. Padre Pietro, all’epoca Guardiano a KreSevo, era capitato appositamente a Sutjeska per rivedere il Rovignese, al quale portò “quantità di regali, un agnelo bianco, un nero, un lodro di vino bianco et uno di nero, un piato di paperognoli, con fogace azime etc. e fece portare il tutto da diversi garzoni, e gli precedeva tutti”. Arrivati al cospetto di Padre Pelizzer, “danzando fecero una giravolta alla mia presenza e baciò mi la mano fece riponer il tutto: questo era Guardiano di Crescevo, era stato molto tempo in Italia e perché era adornato con molte virtù, lo feci Custode”. In altre parole, sdebitandosi per i doni, il Rovignese promosse il compagno di studi a Cotignola di Ravenna a un grado superiore nella gerarchia dell'Ordine francescano. Ne aveva la facoltà. 214 G.SCOTTI, UnFrate con“LiTurchi”, Attî, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 Tappa a Olovo/Piombo Conclusa la visita al convento di Sutjeska, il frate rovignese si rimise in cammino con la sua compagnia, avendo come prossima meta una borgata già a quell'epoca nota per una sorgente di acqua termale che raggiunge i 30-34 gradi sulla strada per Zavidovici e Han-Pijesak. “Sabbato mattina partissimo per Piombo sei Fratti, tra qualli v'era il Provinciale et il Guardiano di Sutisca, trè garzoni et otto cavalli”. La meta, dunque, era Olovo. Piombo è la perfetta traduzione italiana del nome di quella località posta nel punto d’incontro dei fiumi BioStica e Stupéanica, che alimentano il Krivaja. La prima menzione di questo abita- to ai piedi dell’antico castello di Olovac, la si trova in un documento raguseo del 1382, nel quale si accenna a una miniera di piombo, divenuta poi famosa nella prima metà del XV secolo: plumbum dulce e/o plumbum suptile. Anche qui si venne a formare una nutrita colonia di mercanti di Ragusa che, tra l’altro, avevano ottenuto in appalto dalle autorità turche la “gabella” ovvero il Dazio. Il convento francescano di Olovo, costruito sul finire del XIV secolo, sarà distrutto nel 1687, quattro anni dopo il fallito assedio di Vienna dell’esercito ottomano. Il viaggio da Sutjeska a Olovo è così descritto dal Pelizzer: “Salissimo una montagna addimantata Liesnizza, la stessa è di cinque miglia incirca; da questa montagna si vede il vestigio della città regale de Regi di Bosna e (il) Castello di Bobovaz: sta situato sopra d’una collina cinta d’altissimi monti senza alcuna vallada, di che stupij molto. Mi dicevano li Padri, che nella Chiesa di Sutisca sono sepolti trè Regi di Bosna. La discesa di questa montagna chiamano Sachido, dissesa difficile, a lattere destro un gran bosco d’Abbeti, a lattere sinistro molti monti pellati (brulli) e nel mezzo un fiumicello”. L’accenno a Bobovac ci permette di precisare che in quel castello si conservavano i tesori della corona bosniaca. Costruito non si sa quando a nord-est del monastero di Sutjeska, dal quale dista due ore di cammino, su una solitaria altura rocciosa, si componeva di due parti, superiore e infe- riore. La prima, in cima al monte, aveva una torre quadrata con in mezzo il cortile: la seconda, posta venti metri più in basso su una terrazza di roccia, era composta dalle sole mura di cinta che formavano un rettangolo largo venticinque e lungo quaranta metri, con al centro una cisterna. Questo castello servì spesso come residenza dei sovrani di Bosnia. Soprat- G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Att, vol XXXIV, 2004, p.157-244 215 tutto al re Tvrtko I. La prima menzione del castello di Bobovac risale al 1349, anno in cui fu assediato dall’imperatore serbo Du$san. Nel corso delle guerre di successione, all’inizio del XV secolo, fu conquistato dagli Unghe- resi. Fu poi preso dai Turchi al comando di Mahmud-Pascià il 21 maggio del 1463. Nel 1626 sarà abbandonato e finirà per cadere in rovina. Riprendendo ad annotare quantovisto nel viaggio verso Olovo, Padre Paolo Pelizzer scrisse: “Entrassimo poi nella valle e fiume di Vares, così addimandato da una terra ivi vicina, che s'addimanda Vares, la chiesa di cui è San Michele. In questa valle sono più di 40 fucine, che governano il ferro . . .” La valle di Vares attraversata dal Pelizzer e compagni era (e lo è tuttora) ricca di miniere di ferro. La stessa Vareî, sita 36 chilometri a nord di Sarajevo nella lunga e stretta vallata solcata dal fiume Stavnja e dal fiumicello Vares ad oltre ottocento metri sul livello del mare, sorse come colonia di minatori. I primi documenti che ne fanno menzione risalgono alla fine del XVI secolo, ma l’estrazione e la lavorazione del ferro risalgo- no a tempi remotissimi, tant'è che nel V secolo là dove si è sviluppata Vareò era sorto un insediamento di mercanti e artigiani. Richiamandosi espressamente alla Memoria di Padre Paolo Pelizzer da Rovigno, l’Enciclopedia Jugoslava annota le “quaranta fucine esistenti nel 1640, azionate ad acqua” eccetera, riassumendo poi il seguente brano del Pelizzer: “Entrai per curiosità in una (di quelle fucine, ndr) e vidi come il martello solo a forza di aqua batte il ferro. Li mantici, o folli sofiano il fuoco, e perché prima non haveva veduto mai. A lattere sinistro di questa valle sono monti di ferro, cioè le pietre sembrano ferro”. Ad Olovo la comitiva di P. Pelizzer giunse sul far della sera. “Giungessimo ad hora di Compieta a Piombo, una terra situata a piedi d’un diruppo alto dritto, tutto sasso e una bella terra ancora non vidi migliore in Bosna”. Prima preoccupazione del Padre Pelizzer, appena giunto ad Olovo, fu quella di sostare in preghiera nella chiesa del convento, che ci viene subito descritta (non sempre in termini comprensibili): “La nostra chiesa è grande, il coro parimente è grande, nel mezzo del Coro v’è la parte della Sacristia accomodata: una sedia, li di cui forni- menti della sedia si levano tutti, si chiude la porta e poi si ritornano li fornimenti della sedia, ne alcuno si può accorgere che ivi vi sij la porta; 216 G. SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 eciòfannoin diversi Conventi, perciò non sappino li Turchi le cose preziose”. Se non abbiamo capito male, quella “sedia” ovvero gli scanni del coro, e quei “fornimenti” che si potevano levare, ossia smontare e/o spostare e poi rimettere al loro posto, servivano per mascherare l’accesso alla parte segreta della sagrestia nella quale i frati tenevano gli oggetti preziosi ed artistici della chiesa e del convento. Il perché di questo stratagemma, Pelizzer l’ha spiegato molto bene: per non farli cadere nelle mani dei Turchi. In particolare, la sagrestia del convento di Olovo era “ricchissima de Calici d’Argento, de superbi Paramenti, de voti d’Argento un'infinità”. Uno di questi ex voto sarà poi inviato dallo stesso Padre Pelizzer: “ne ò mandato uno ancor io largo un palmo, in rendimento di gratie alla Santissi- ma Vergine, che m’ebbe condotto in buona salute alla mia Patria, il che non credevo maj”. Riprendendo la descrizione della chiesa, il Visitatore scrive: La Madonna dei miracoli “In capo al Choro, appoggiato al muro, v'è l’altare grande; il Choro non ha cappella, et vi ha una Palla (pala) dell’assunta della Serenissima Vergine, mano dell’istesso pittore che fece la palla nostra di santo Andrea in Rovigno. Quanto alla B.Vergine miracolosa, vi è poi una cappellina, un semivolticello, a guisa d’un semicerchio entro un passo di muro, et ivi è una Immagine di Maria Vergine dipinta di glorioso S. Luca sopra la tavola di legno; un quadro simile a questo, che ho in cella nel Convento di Rovigno, con il Bambino nel grembo, con questa differenza che quella tiene le mani incrociate, e questa le mani giunte palma a palma, et è un quadro, ma più tosto bis lungo un brazzo incirca per ogni parte poco più. La Capella è situata a lattere sinistro entrando dalla porta della facciata grande attacata al principio del Choro, per mezzo d’una porta della chiesa che và in Claustro. Vergine tanto miracolosa, che lingua non può esprimere; sono graciati non solo i fedeli, ma infedeli ancora”. Infatti a chiedere l’aiuto soprannaturale della madre di Gesù (consi- derato dai musulmani uno dei loro profeti) venivano anche le bosniache di fede islamica: “Comparivano talora le donne turchesche supplicando il Guardiano che lasci la porta aperta sino alla 4 e 5 hora di notte, et dalla porta del claustro sino alla Capella caminaronno con le ginocchia nude sopra la terra sino alla presenza della Imagine di Vergine Serenissima; e per quanto mi raccontarono G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 217 quelli santi vechioni, veramente quelli Padri vivono da Santi, danno le donne turchesche li più belli epiteti alla Vergine, che sentir si possino, cosa che mi fece stupire”. La cappella della Madonna era diventata una meta di pellegrinaggi quotidiani. Sulla strada che dalla “terra di Piombo” e cioè dalla borgata di Olovo portava alla chiesa del convento francescano — una strada “che è lastricata, o per dir meglio salizzata con pietre tonde grosse, e sarà lunga più di cento passi” — si vedevano talvolta delle macchie di sangue, il sangue che usciva dalle ferite che si provocavano i pellegrini camminando in quel modo, “secondo che il popolo Christiano — come scrive il Pelizzer — si pone in ginocchi nudi dalla terra all’adoratione della Santissima Vergine”. Le folle più folte di pellegrini arrivano il 15 agosto, festa dell’Assunzione: “Per la festività dell’Assunta, che è il titolo della chiesa, vengono le genti della Dalmatia et da tutte le parti dell’Oriente, come corrono le genti alla Madonna degli Angeli d’Asisi; e sicome ivi sono mandate squadre di cavalli con sopra li soldati, acciò moderino il furore del numeroso popolo, così a Piombo sono mandate squadre di Gianizzeri, acciò faccino lo stesso; e perché Piombo ha molti colli in faccia, tutti quelli colli, quando si porta in processio- ne il tipo miracoloso, tutti sono carichi di lumi che sembrano cieli tempestati di stelle. La Capella è mal tenuta per causa del fumo delle candelle, e mi dissero quelli Padri, che li Turchi non permettono il fabbricare. Comparso io innanzi questa Santissima Imagine della Vergine non potei contenermi per spacio di 3 quarti d’hora di versar copia grande di lacrime”. Turchi: balzelli e ricatti Prima di andare avanti col racconto del Pelizzer, approfittiamo dell’annotazione da lui fatta sul divieto imposto dalle autorità turche di “fabbricare”, nel significato, molto probabilmente, in questo caso, di pro- cedere a restauri e riparazioni nella chiesa, per fornire alcune informazio- ni. I Turchi facevano pesare il loro dominio anche in altri modi. Così sulle ricche elargizioni che facevano alla chiesa ed al convento di Olovo i pellegrini e tutti coloro che qui venivano a implorare grazia o ad esprimere gratitudine per grazia ricevuta, quasi sempre essi ci mettevano le mani. Stando a un commento di S. Zlatovié alla Memoria del Pelizzer, i Turchi di Olovo “imponevano al convento francescano balzelli, tasse e tutti i tipi di 218 G.SCOTTI, UnFrate con“LiTurchi”, Atti, vol. XXXIV,2004, p. 157-244 imposizioni, ricatti e prepotenze che riuscivano a inventare”. I frati, “pur di conservare la religiosità nel mezzo della barbarie dei Turchi infedeli, soppor- tavano, subivano soffrendo e resistevano. Così davano tutto quello che ave- vano; ma i Turchi chiedevano ancora denaro e sempre denaro; i frati finirono per impegnare a Ragusa gli ex voto ed altri oggetti preziosi della chiesa e del convento in cambio di 500.000 grossi che diedero ai Turchi; ma questi continuarono a chiedere denaro, minacciando il fuoco e la spada”. Infine, quando non avranno più nulla da dare, i Francescani fuggiranno da Olovo al di là del fiume Sava - questo avverrà nell’anno 1687- lasciando nel convento soltanto il Padre Guardiano per custodire il cenobio vuoto e la chiesa dalle pareti nude. A quel punto i Turchi, “vedendo che gli si era essiccata la sorgente dell’oro e del tesoro — citiamo ancora lo Zlatovié — incendiarono chiesa e convento”. Infine Shefer-Pascià, governatore della regione, fece demolire gli edifici dell'una e dell’altro per costruire con le loro pietre castelli e harem a Crna Rijeka. Ma torniamo alla Memoria di Padre Paolo Pelizzer, il quale, dopo averci informato di aver pianto per tre quarti d’ora davanti all'immagine miracolosa della Madonna, spiega uno dei miracoli narratogli dai confra- telli di Olovo. “Mi raccontarono tra tanti e tanti miracoli uno veramente degno d’essere registrato, e tanto maggiormente, quanto che accadete in uno infedele” e cioè a beneficiarne fu un Turco. “Nella somità del diruppo v’è una pianura, quanto il diruppo è grande, alto come (il) campanile di S. Marco, dritto, come si è detto, e sotto il diruppo è la strada che conduce il popolo della terra di Piombo nella nostra chiesa. Questo infedele fu assalito sopra della pianura da suoi nemici tutti a cavallo, et egli ancora veggendo che non poteva resistere a tanta forza, si diede alla fuga, li nemici lo incalzavano, certi d’averlo nelle mani, perché sapevano molto bene il sito, onde non credevano mai, ch'egli si precipiterà giù del diruppo; giunto l’infedele all’estremità del diruppo, invo- cando il nome della santissima Vergine et il suo adjuto, si precipitò con il cavallo, quali illesi egli e il cavallo si ritrovavano sopra la strada prealegata, libera dalle mani de suoi nemici, et incolume andò alla capella a render grazie alla miracolosa Vergine. Hor chi vedesse uno che stando a cavallo sopra il campanile si precipitasse giù e che illeso si trovasse al basso, non si potrebbe dire, se non, che è un gran miracolo di Dio”. Ad Olovo Padre Paolo Pelizzer fu accolto con tutti gli onori, e imman- cabilmente lo fa sapere, lo sottolinea. Un giorno, ritiratosi nella sua cella, G.SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 219 la ritrovò “tutta ornata di fiori, di tapeti finissimi, de coltre de seta, capezzali di panno d’oro”, facendogli annotare: “sino allora non vidi tanto di buono”. La sosta dell’illustre Visitatore ad Olovo/Piombo durò poco più di tre giorni, quindi si rimise in viaggio alla volta di un altro convento. Nella Memoria leggiamo: “Mi trateni in Piombo dal Sabbato sera sino al martedì mattina, nella quale partissimo solo in 4 Fratti e li due Turchi. Li fratti erano il Padre Giovanni Ongaro da cinque chiese attuale definitore, il padre Cubat, Fra Pasquale et io; dicevano, che questa strada non era bene andar in moltitudine grande, eravamo però con li Turchi e li due garzoni con 8 cavalli”. Il definitore, ovvero assistente del Provinciale, era chiaramente un frate italiano, probabilmente triestino. I due Turchi erano stati assegnati alla scorta di Padre Pelizzer per dargli maggior sicurezza durante la nuova tappa del viaggio che li avrebbe portati a Srebrenica nella Bosnia orienta- le. Dal nome latino di quella località, Argentina, l’intera Provincia bosnia- ca dell'ordine francescano aveva assunto il nome di Bosnia Argentina. Frati vestiti alla turchesca Uscendo da Olovo, Padre Pelizzer e gli altri tre suoi confratelli, accompagnati da due Turchi amici, ritennero opportuno vestirsi “alla turchesca, eccettuato però il turbante”, perché, stando a quando avevano spiegato all’autore della Memoria, “ai Christiani non era lecito portare il turbante”, sicché il travestimento fu soltanto parziale. “Li due Turchi erano uno vecchio l’altro giovane amicissimo de Fratti e della religione. Si risolsero quelli Padri di Piombo in viaggio e (per) strade tanto pericolose darmi in compagnia quelli Turchi, sì a ciò potessero per il viagio discorere e che noi passassimo securi, perché in quel paese incontran- dosi due turme (carovane, ndr), due soli parlano, l’uno d'una turma e l’altro dell'altra, e quelli due soli discorrono; sì anco perchè nel viaggio non v'è huomo più fedele del Turco, quando gli siete raccomandato, e più tosto che lasciarvi far torto o insulto, perderà la vita”. E questo è l’encomio più bello che un cristiano, per di più alto prelato, poteva rivolgere a degli “infedeli” in quell'epoca. Padre Pelizzer, tutto sommato, cercava d’essere obiettivo nei giudizi. Anche quando si trattava delle opere d’ingegno, fra queste i ponti. 220 G. SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vo XXXIV, 2004, p. 157-244 “Passassimo il fiume detto Olovo ciò è Piombo, da cui piglia il nome la terra, perché in fatti vi erano miniere di piombo, e lo passassimo un ponte rialto bello e vago, e ben piccolo, hoc unum est che il ponte è tutto d’archi di pietra viva, a suoi sentatorij della stessa pietra; li suoi appogi schenali cioè sono come nelli nostri refetorij; sopra li sentatorij le spaliere di legno, così ivi di marmo, una pietra quadra grande bianca et altra rossa, che apportano gran diletto al viso, e per questo mi dissero che costava quel ponte tra mille e cinquecento reali”. “Cavalcassimo un pezzo vicino a questo fiume, e scostatisi da quello in un’amenissima valle e collinette, che per essere il tempo della primavera, non si poteva vedere cosa più degna; perché non essendo in queste parti vigne, si veggono li prati verdeggianti, ricoperti di fiori di vari colori; campi seminati, fruttarij fioriti, fiumi, fonti, boschi di alberi altissimi”. La strada percorsa da quegli otto uomini e altrettanti cavalli passava lungo una stretta valle fra non alte colline fittemente ricoperte di boschi con qualche radura. “Innanzi che giungere in Argentina facessimo molte salite e molte discese abenché non ardue, ma peressere l’hora tarda dopo l’Ave Maria propriamen- te atterivano. Giungessimo al Convento a 3. 0 4. Hore di notte, più morto che vivo, per la gran stanchezza; bisognò levarmi di peso da cavallo, e subbito cadei in terra come morto; mi portarono in refettorio, li lombi m’erano spicati, non potevo voltarmi in modo alcuno, mi venne la febbre e quello che più importa non v'era altro letto, che un poco di paglia per mè, e li altri sopra le nude tavole. O Dio, con quanta ansietà e quanto desiderio desideravo il mio letto!” Ci sarà anche un poco di esagerazione in queste parole del Pelizzer, ma bisogna pur considerare il fatto che aveva trascorso in viaggio l’intera giornata, e non era certamente allenato a tanti strapazzi. “Christiani signori . . .”° donne e danze Il convento nel quale sostò Padre Pelizzer nella primavera del 1640 era uno dei più antichi dell’ordine francescano in Bosnia, ma sarebbe sparito come molti altri sul finire del XVII secolo, dopo che i frati lo avranno abbandonato nel 1686 per sfuggire alla rabbia dei Turchi sconfitti sotto le mura di Vienna tre anni prima. G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 221 La lunga cavalcata aveva ridotto Padre Pelizzer a uno straccio. Nella sua Memoria leggiamo: “4 giorni continui mi durò il dolore delli lombi, la mattina fecero provisione di letto”. E qui, quasi prevedendo che qualcuno, leggendo le sue memorie, avrebbe potuto considerarlo un uomo poco resistente alle fatiche, spiega: “Ordinariamente questa strada di Piombo (cioè da Olovo a Srebrenica, ndr) si fà in due giornate, ma il Turco la volse fare in una”. Mettendo a dura prova il Rovignese. Il quale, proseguendo la narrazione, passa a descrivere rapidamente Srebrenica e il convento. All’epoca la località era poco più di un villaggio, sorto nel primo Medio Evo nel punto in cui s'incontrano due fiumiciattoli: Crvena Rijeka e Ciéavac. L'abitato era sovrastato sul lato orientale da una fortezza. Gli abitanti di Srebrenica erano per lo più legati alla locale miniera di piombo e zingo (ma conteneva anche argento) ed erano in maggioranza cristiani. Ricordando l’arrivo a Srebrenica (Argentina), Padre Pelizzer scrisse: “Comparvero quelli Christiani signori di Argentina a riverirmi e mi furono portati moltissimi regali delle cose mangiative. Argentina, detta d’argento, al giorno d’hoggi vi sono molte cave e fosse nelle quali le scaglie e le pietre sono tempestate d’argento: è situata tra monti tutti coltivati nele somità, è a guisa d'un borgo. Su questo monte sono le miniere dell’argento. L’aqua, che scaturisse da questi monti, rende le pietre del fiumicello giale come zafrano; in quest'aqua non possono vivere nè rane, nè serpenti, nemmeno si può bere”. Dopo questo brano dedicato alla borgata ed alla sua miniera, la Memoria passa a descrivere il convento francescano: “Il Convento è nel mezzo del borgo, Convento antichissimo come anco la Chiesa, una anticaja oscura. Vi è una parte del claustro tutta fatta a volto, vi sono due dormitorietti, uno di sotto, l’altro di sopra con 12 celle in circa, che se fosse tenuto in ordine, sarebbe bello. V’è un refettorio largo con la facciata che guarda sopra il fiume tutta aperta, indi due finestroni; stando alla tavola si gode un bel fresco, si vede la verdura, che consola, s’ode il mormorio dell’aqua, e perchè in faccia v’è una fontana, corrono le donne a lavare in quella li drappi e tutto il giorno s’odono soni di battadori. Dall'altra parte del convento sopra un altissimo monte v'è una fortezza turchesca con alquante case, et meccit (minareto) domina e si vede sopra tutto il convento. Sopra un altro monte più avanti v’è il vecchio vestigio della fortezza antica”. Al quinto giorno, passategli la febbre e la stanchezza, Padre Paolo Pelizzer fu condotto in uno dei poderi del convento. 222 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 “Il giovedì il Pre Difinitore Giovanni ci condusse in villa, un luogo ove i Padri hanno boschi, prati, seminati molti campi con due o 3 case loro, e ci condusse in casa d'un certo buon vecchio adimandato Zorzi sismatico”, dunque un Dorde serbo-ortodosso. In questa casa, per dare il benvenuto al Visitatore, si diedero convegno anche alcune donne sulle quali s'indugiò curioso l’occhio del frate, che ci ha lasciato una compiaciuta descrizione della più giovane e più bella: “Vennero alquante gentildonne del paese, una tanto semplice, chenon si può dir di più. Vi era una belissima giovine adimandata Marta, era vestita tutta di nuovo, haveva una veste turchesca addimantata Bilunch, le papuce zale, faceva una comparsa bela, giocava d’ochio nobilmente, né stava con quella semplicità, come stavano le altre donne; questa era putta, ed haveva li occhi neri, come una mora, onde potevo dire con Davide: Delectasti me Domine in factura tua, et ebbi grandissimo diletto, tanto naggiore, quanto che (la ragazza) godeva rompere delle nocelle, e portarmene le mani piene. Il Pre. Difinitor Giovanni fingeva di volerne ancor lui, ma non gli le voleva dare, e quando si levava per toglierle per forza, scampava fuori d’una porta della casa, e entra per l’altra, vicino alla quale sedevo io, et ansiosa, et ridente, e fretolosa me le porgeva, che, a dir vero, non ebbi tanto gusto in tutto il paese. Leggendo questo testo ci pare di assistere a una vera e propria scena di corteggiamento, a un approccio amoroso. Nemmeno i francescani resi- stevano ai vezzi e alla bellezza di una fanciulla. Ed è bello che Padre Pelizzer non abbia fatto mistero del piacere che ne ebbe, così come non ci nasconde l’episodio delle danze seguite all’incontro con le gentildonne: “Dopo il pranzo si cominciò a ballare all’usanza del paese”. Quindi al momento del commiato, il Definitore Giovanni regalò ai presenti, a nome del Rovignese, numerose monete d’argento, dette aspri: “gli donò quantità di aspri, moneta d’argento, a nome mio”. A Saline, futura Tuzla La Memoria di Padre Pelizzer continua raccontandoci che il Visitato- re e la sua scorta ripresero il viaggio “il sabbato mattina prestissimo avvian- dosialla volta di Saline superiori, una villa così addimandata, perché in quelle montagne fanno il sale”. Si tratta dell'odierna Tuzla, il cui nome deriva da “tuz” che in turco significa appunto “sale” (tuzlà=salina) e nelle cui G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 223 vicinanze da secoli esistono giacimenti di sale che diedero origine a due colonie di minatori. La stessa regione al cui centro si trova Tuzla (ma c’è anche una località detta Tu$anj, anch'essa col significato di “salina”) si chiamava Sol (Sale) prima dell’arrivo dei Turchi ed era un territorio sotto il dominio ungherese sino alla fine del XIII secolo, poi entrato a far parte dello Stato bosniaco. Il territorio di Saline ovvero Sol fu anche un forte caposaldo della cosiddetta “Chiesa bosniaca” e cioè della setta eretica dei “bogomili”, “patareni”, contro la quale i papi condussero una lunga guerra servendosi, tra gli altri strumenti, anche dei Francescani. Tra la fine del quattordicesimo e la metà del quindicesimo secolo, nei territori delimitati dai fiumi Bosna e Drina, furono costruiti ben dieci conventi dell'Ordine francescano, due dei quali nel territorio di Sol-Sali- ne, alias Tuzla. Sotto il dominio turco quel territorio si estendeva nel bacino del fiumicello Jale, a destra ed a sinistra del suo corso medio e superiore. Successivamente la regione fu suddivisa nei Comuni turchi, ovvero nahèe, di Saline di Sopra e Saline di Sotto ovvero Gornja Tuzla e Donja Tuzla con gli omonimi abitati al centro di ciascun distretto. Quando i Turchi giunsero da queste parti, nel 1460, trovarono a Saline Inferiori un convento francescano con la chiesa di San Pietro e una fortezza, mentre a Saline Superiori, un abitato molto più piccolo del primo, distante da quello nove chilometri, c'era un altro convento del medesimo Ordine, con la chiesa di Santa Maria. La rapida e continua espansione delle due Saline ovvero Sol porterà alla nascita della odierna città di Tuzla, la seconda per grandezza e importanza, dopo Sarajevo, nella Bosnia-Erzegovina. Avviandosi verso quella località, Pelizzer e i suoi accompagnatori costeggiarono il fiume Kisevica che scorre non lontano dalla Drina. Nella Memoria scrisse: “Partissimo in sei tutti vestiti alla turchesca, cavalcassimo lungo spacio di tempo al lido del fiume, che passa per l’Argentina, chiamato Chisevizza, e quanto più s’andava inanci, tanto più spaciosa diveniva la valle e longe vedessimo il fiume Drina, più veloce del Danubio, e sarà come Pò in Italia, et quando esce dal letto, innonda tutte quelle campagne. Camminassimo verso un alto monte chiamato Voler. Mi dicevano, essere sopra quel monte un lago, e quando quel lago manda fumo, subito si genera tempesta. Facessimo discesa profonda, e dal profondo vedessimo una fortezza in forma di piramide, che sembrava toccasse il cielo. Retrovassimo due fiumi, 224 G. SCOTTI, UnFrate con“Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 l’uno chiamato Jadar, l’altro Drinizza, questo à lattere destro, quello a sinistra e uniti formano un fiume solo”. Lo Jadar è un affluente della Drina nel quale si versa dal lato destro, come giustamente scrive il Pelizzer, a sud-ovest dell’odierno villaggio di Lesnica. Anche il Drinica è affluente della Drina, e soltanto con questo grande corso d’acqua, che segna il confine tra Bosnia e Serbia, si forma un unico fiume. “Cominciassimo a salire, e salissimo tanto alto che quella fortezza, che pareva toccasse il Cielo, ci sembrava nel profondo dell’abisso. Scoprissimo il borgo di quella fortezza chiamato Crislat. Pransassimo ad una casa di quelli, che erano descendenti delli patroni di quella fortezza, gente Christiana, quale ci accolse al meglio che potè: haveva questa famiglia poderi di 12 miglia in circuito, tra terreni, campi, boschi, prati, e seminati, ma perchè era molestata grandemente da Turchi passeggieri, per essere sul passo, erano poveri”. Ripreso il cammino dopo il pranzo, sul quale il Pelizzer tace, la piccola comitiva fu costretta a viaggiare fino a tarda notte prima di trovare un alloggio. Si legge infatti nella Memoria: “Non potessimo giungere ad altro allogiamento, quasi sino le tre ore di notte, e giungessimo finalmente ad una casa Christiana, che teniva l’hosteria; la ritrovassimo piena di Turchi, (e) scismatici (serbi), ubriachi, onde bisognò fermarsi fori all’aria, e dormire sopra la paglia, a bonora partissimo avvanti che fossero svegliati ubriachi”. Camminando speditamente, Padre Pelizzer e compagni giunsero nel- le immediate vicinanze del convento al quale erano diretti nel momento in cui da quello uscivano alcuni Turchi: vi avevano trascorso comodamente la notte. Cristiani: “Canaglie” e turchi “Bestie” Le prime annotazioni che troviamo nella Memoria di Padre Pelizzer al suo arrivo a Tuzla, e più esattamente al convento francescano di quella località indicata dal rovignese come Saline Superiori, contengono alcune frecciate all’indirizzo degli “infedeli” turchi: “Il nostro servitore, per nome Gregorio, pratico del paese e della lingua turchesca, questo servitore in tutta vita sua accompagnava Commissarij e Provinciali, cominciò a dire: presto, presto à cavallo; salimmo frettolosamen- G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 225 te (perchè erimo dismontati), si fece inanti questo Gregorio e salutò li Turchi, che venivano verso di noi, e perchè eravamo poco lontani dal Convento, si finse ancor egli Turco. Questi turchi venivano dal Convento et ivi erano stati alloggiati, e ben trattati. Or senta il lettore, che premio danno queste bestie alli poveri fratti: disse Gregorio in lingua slava, che la maggior parte di Turchi parlano con quella, et io intendevo benissimo: ‘da dove venite o fratelli?”. ‘Veniamo, rispose un Turco, da queste Gjidije’, che in lingua nostra è come dire canaje, de fratti. E bene, come trattano? Come ci tratteranno; vi tratte- ranno bene, rispose il Turco, se gli darete di buone bastonate, perché hanno di tutte le cose, ma bastonateli bene, e vi daranno quanto sapete desiderano’. Se con le proprie orecchie non havessi io sentito, havrei creduto, che ciò fanno per farmi paura. ‘Orsù lasciate far a noi’, disse Gregorio. Noi giungessimo a Gradovarh al Convento ad hora di messa”. Il Convento di Gradovarh ed altri miracoli Qui va fatta una piccola osservazione: “gjidije” non ha il significato di “canaglie” come ci dice il Pelizzer, ma quello molto meno offensivo di birichini, monelli, nel peggiore dei casi: “ragazzacci di frati”. Tuttavia, avendo essi, i Turchi, sostenuto la tesi delle bastonate come mezzo di persuasione, non meritavano altro da un cristiano che l’appellativo di bestie. Può anche darsi che il Pelizzer abbia erroneamente scritto “gjidije” al posto di “gnjide”. In questo caso il significato sarebbe oltremodo ingiu- rioso, e cioè “pidocchi”, “nullità”, “uomini da nulla”. Da quanto detto all’inizio di questa tappa, il convento si trovava a Saline Superiori, alias Gornja Tuzla. Qui, invece, il Pelizzer fa il nome di Gradovarh. Molto probabilmente si tratta di un toponimo, nel significato di “castello in cima al colle”, che indicava la posizione dominante del convento nella zona di Saline. Una precisazione ci viene fornita dallo stesso Pelizzer: “Questo convento è in un bellissimo sito eminente, da cui si scopre 4 giornate di paese. Stà posto tra Saline superiori e Saline inferiori” Più avanti troviamo una descrizione della chiesa e del cenobio, e il racconto di un prodigio. Si comincia dalla porta: "La porta del Convento è picola al solito del paese, ma tutta fodrata di diverse sorte di ferro”. Perché mai quella porta corazzata? Lo chiese il Visitatore ai confra- telli di quel convento, anche perché non ne aveva vista un’altra simile 226 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 prima di allora. La cosa gli fu spiegata col racconto di un Turco sacrilego e di quel miracolo al quale abbiamo già accennato. Leggiamo: “Dimandai per qual causa, non havendo ancor veduto nessuna porta in simil guisa armata; mi risposero, che per diffenderla dalle percosse dei Turchi”. A questo punto ci si attende la descrizione del convento, e invece Pelizzer ci porta in chiesa: “Il tempio è grande e bello. Il choro è tanto grande, che occupa mezza chiesa. La palla dell’Altar grande è d’una bonissima mano, v’è poi una palla grande nel mezzo della Chiesa con la SS.Vergine miracolosa. Questa, per quanto mi riferiscono, quando il Turco prese il regno, li Christiani portavano la palla di questa Stma Vergine, che stà nel mezzo tra le altre figure di perfettissima mano, per salvarla dalle mani delli infedeli”, ma giunti “vicino al fiume Drina, s’abbatterono in un Turco, che cavalcava tutto armato, et anco armato d’una lanza (lancia); or veggendo questo Turco li Christiani, che portavano via la palla, allestò la lanza e ferì la pittura della B.V. sotto l'occhio vicino al naso ...” E fu il miracolo! “Subbito scaturì il sangue, e perché la pittura è in tavola, tentarono li Christiani radere via quel sangue, ma giammai fu possibile”. Il miracolo, però, non finì con il sangue della Madonna. “Il cavallo del Turco, dopo haver fatto questo colpo, cominciò andar indietro tanto che (finì per precipitare) assieme con il turco nel fiume, e per miracolo della Stma Vergine s’impetrì il Turco, la lancia, et il cavallo, et al giorno d’oggi il sabbato sera si vedono rivogliendo 0 tombolando per le onde, overo per il fondo del fiume”. Raccogliendo e riferendo questo racconto, il Rovignese ci tenne a precisare: “Tanto mi riferirono quelli Padri per cosa certa, che vi sij il vero. Io non lo ho veduto”. Giurava però di aver visto il sangue sull'immagine della Madonna dipinta su legno: “vidi bene l’imagine della V. Santa con la ferita et il sangue uscito; e di ciò che nella sua visita ne formò processo il Monsignor Vescovo Girolamo, il quale pongo, qui registrato con quella semplicità e penna, che è stato scritto senza una minima correzione o altera- cione”. Dopo aver descritto il miracolo avvenuto nella chiesa del convento francescano di Tuzla, nella sua Memoria Padre Pelizzer rimandava a una testimonianza, sempre relativa al miracolo: “Exemplar ai di 7. bre 1639”. Evidentemente quel documento, datato settembre milleseicentotrentano- ve originariamente doveva essere allegato al manoscritto della Memoria, G. SCOTTI, UnFrate con“Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 227 trascritto di propria mano dallo stesso P. Paolo Pelizzer, come egli precisava. Purtroppo non è giunto fino a noi. Il trascrittore ottocentesco S. Zlatovié si limita a sintetizzarne il contenuto in una nota in calce, spiegando che si trattava del verbale di un’indagine, scritto in latino e in italiano, firmato dai religiosi del convento i quali chiamarono a testimoni anche gli anziani del luogo. Questi giurarono che il miracolo era veramente avvenuto. La versione fornita dal documento era questa: quando i Turchi con- quistarono il convento francescano di Zvornik, i frati che vi dimoravano si trasferirono a Saline Superiori portando con sè il quadro della Madonna che un lanciere turco trafisse con la sua arma: dalla “ferita” sprizzò il sangue, il turco e il suo cavallo caduti nelle acque del fiume furono trasformati in macigni che rendono il fiume turbinoso. E furono molti - turchi, cristiani ortodossi e cattolici — ad assistere al prodigio. Il documento che lo documentava era firmato da quindici frati, dal Segretario Cancelliere della Provincia francescana di Bosnia Fr. Paulus Papich e dal vescovo Fr. Hieronimus Lukich episcopus Drivastensis, Vica- rius Apostolicus Bosnae, nec non Administrator Scardonae. Aggiungiamo, per completezza d’informazione, che alcuni anni dopo la visita del Pelizzer al convento di Saline/Tuzla, i francescani saranno costretti ad abbandonare questa località, trasferendosi a Gradovac, dove dapprima costruirono la chiesa nella quale fu esposta l’immagine miraco- losa della Vergine, e successivamente presero a costruire il convento. Che non fu portato a termine a causa degli ostacoli e violenze delle autorità ottomane. Tornando al 1640 ed a Saline, leggiamo nella Memoria: “Questo Convento veramente quanto è povero di fabrica, tanto è più rico d’un belissimo sito, tanto eminente, che si scuoprono tante e tante giornate di paese, è dotato d'un bellissimo bosco verso oriente e mezzo giorno, verso occidente à la valle che và a Saline inferiori, e si veggono passare moltitudine di cavalieri, de caroze del paese, che sono carette, che vengono tirate da 4 cavalli. Al pari si và a diporto, come andai io nella somità della colle, d’onde si vede tanto a lattere dextro, quanto a sinistro, e valli, e colli, e monti riguardevoli coltivati, verdeggianti, belli, che sembrano fatti con il penello tutti li colli e monti coltivati nella somittà che recca un stupore a vederli. Si veggono gran parte delle case di Saline superiori et inferiori, borgo situato nella valle”. Con questa pennellata lirica, Padre Paolo Pelizzer si accomiatò da Saline superiori e dal convento di Santa Maria. Noi, invece, vogliamo 228 G. SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 ricordare che anche quel convento fu abbandonato dai frati dopo la sconfitta subita presso Vienna dall’esercito turco e in seguito a un regime di repressioni instaurato nella Bosnia ottomana; i religiosi raggiunsero allora la Slavonia, mentre a Gradovarh i Turchi impalarono il Guardiano fra Taddeo Soiko, l’unico ch’era rimasto. La sua tomba diverrà meta di pellegrinaggi e luogo di non pochi miracoli. “Lunedì mattina partissimo da Gradovarh, per andare a visitare il Con- vento di Saline inferiori, che per essere poco strada niuno delli Padri volsero montare a cavallo. Vennero in mia compagnia il P.M.R. Nicolò Cugliano- vich, già Commissario della Provincia, già Difinitore, quale fi fatto da me difinitore anco nel capitolo di Rama. Venne il R.Pre. Fra Giovanni delle Cinque chiese Difre., et il P. Pietro Cubat”. A questo punto il Visitatore fornisce alcune notizie sulla località, nella quale si contavano ben tredici minareti. “Questa terra di Saline inferiori è un luogo molto delicioso et ameno, stà in una valle frà colli fruttiferi, verdeggianti, ombrosi, dilettevoli alla vista; (dal) l’una e l’altra parte della valle vi sono case, meziti al nr. 13. La valle sarà larga un quarto di miglio in circa. Si veggono nella valle scherzare e giuocare li putti turcheschi, tutti vestiti di rosso. Si veggono signori grandi come Beghi, chia- mati prencipi in quel paese, spassegiare per il fresco, chi a cavallo, chi senza”. Villa Bianca ovvero l’odierna Bijelina Dopo aver tracciato un lirico affresco della località (Saline Inferiori alias Donja Tuzla), Padre Pelizzer passa a dirci del convento che sorgeva quasi al centro della borgata. Era piuttosto piccolo e, stando a quel che leggiamo nella Memoria del Rovignese, decisamente brutto: “Il Convento è cinto da case da trè parti, del lato destro, sinistro e da dietro; la chiesa è alquanto discosta dal Convento, che è più tosto spelonca, che Convento. Il primo ingresso è la cucina, si va in refettorio oscurissimo. Vi sono sopra 4 camarette, il tutto oscurità, che anco nel bel mezzo del giorno, quando più risplende il sole, sia necessario l’andar con lume accesa. In questo Convento (i) fratti sono come in una carcere”. Ben diverso è il discorso sulla chiesa: “La chiesa stà nel più bel sito, che sij in questo luogo, sta sopra un collicello in eminenza che domina al tutto; è compettentemente grande con li G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 229 suoi ballatorij o poggioli attorno, per capir (contenere) più del popolo Chri- stiano. Andai per curiosità di sopra e nel spuntar la scala, viddi l’altar maggiore che rendeva tanta divozione, che scaturirono quantità di lacrime dagli occhi miei! Mi dicevano li Padri, che per la bellezza del sito della chiesa più e più volte i Turchi tentarono scazar li fratti per gettar a terra la chiesa, ma Iddio l’ha sempre protetti”. Non riuscì a proteggerli, però, nel corso della guerra fra l’Austria e la Turchia dal 1683 al 1699: in quel periodo i francescani fuggirono in Slavonia, abbandonando convento e chiesa alla mercè degli “infedeli”. L’abbozzo pelizzeriano si conclude con questa rapida pennellata: “Tra la chiesa e la scieppe del Convento vi è un campanile de matoni mal composti, tutto chiuso, e dentro vi è un orologio, che batte l’ore ma disordinatamente”. Il martedì mattina il Visitatore ed i suoi accompagnatori ripartirono da Saline inferiori per tornare a Gradovarh, “e acciò li Turchi non ci vedessero, partissimo all’alba ed ivi stessimo quella notte”. Da Gradovarh ovvero da Saline superiori, Padre Pelizzer doveva raggiungere una località che egli chiama in quattro modi diversi in diversi punti del testo: Belgrado, Belgrado d’Argentina (da Biograd = Città bianca), Villa bianca e Villa Alba; ma non siamo certi che si riferisca sempre alla medesima contrada. Prima della partenza, da parte del Padre Guardiano, gli furono con- segnati del denaro e un cavallo: erano stati di un Parroco morto da poco che, per l’appunto, “haveva alquanti reali et un bellissimo cavallo”. Il Pelizzer porterà sia il quadrupede che i soldi a Rovigno dove, non essen- dovi “comodità di stalla” nel convento, l’animale sarà “venduto a beneficio della fabrica per 50 ducati di moneta veneziana”. “Mercordi partissimo doppo il vespero con 5 Fratti e famiglij (. ..) doveva andare a Belgrado, ma per haver il fiume Savo innondato, invece d’incami- narsi a Belgrado d’Argentina, traversassimo a Gradovarh”. E più avanti: “Arrivassimo ad un benefattore in viaggio, e fossimo bene accolti. La mattina passassimo un bel bosco, il nostro viaggio era per Villa bianca...” Questa Villa potrebbe essere, anzi è l’odierna Bijelina, distante otto chilometri dal fiume Drina, attraversata dal fiumicello Da$nica che è un affluente della Sava. Siamo nella regione detta Semberìa nella Bosnia nord-orientale, nell’angolo tra il corso inferiore della Drina e il corso della Sava, appunto, abbracciando una vasta e fertilissima pianura aperta a nord verso il bacino pannonico, mentre sui lati occidentale e meridionale è 230 G. SCOTTI, UnFratecon “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 delimitata dagli ultimi sproni della Majevica e di altre montagne. In questa pianura, oggi fittamente punteggiata di villaggi, Bijelina è il maggiore abitato e sta quasi al centro della regione. Nelviaggio verso Villa Bianca/Bijelina i Padri che lo accompagnavano mostrarono al Pelizzer “una cosa veramente degna”. “Una grotta sopra un colle, nella quale v’era impressa una rocca de quelle, che filano le donne, una zappa, un bambino nelle fasce, e un sedere. Dimandai, che misterio era questo. Mi dissero quelli Padri: che da una fortezza vicina, quando l’inimico ottomano prese il paese, fugì una povera donna con un fanciullo portato sopra la schena; portava di più una rocca, et una zappa, e giunta questa poverella anelante e sitibonda, stanca e lassa, si pose a sedere; e la pietra, come se fosse di cera, cedette sì al sedere della donna e (al) bambinello, sì alla zappa, come anco alla rocca, con la quale come novello Mosè fè scaturire l’aqua et (anche) al giorno d’oggi scaturisce (da) quella pietra aqua”. Continuando il cammino, “doppo l’haver passato un bel bosco di faggi, cominciassimo à vedere una grandissima pianura, più grande che la Lombar- dia, tutta allagata per l’innondazione della Sava”. Proseguendo per un tratto sulla pianura, giunsero finalmente alla meta verso mezzogiorno: “Giunti alla Villa Alba in mezzo giorno, et indi partissimo doppo riposo per Modrice, che stà al piede del monte nella pianura; terra con quantità di Moschee”. A Villa Alba, come il frate rovignese indica la località di Bijelina in Bosnia, non esisteva allora né esiste oggi un convento francescano, nè la Memoria lo menziona e/o descrive. La sosta in quella località fu peraltro molto breve: qualche ora per riposare e di nuovo in cammino. Modriéa: un Convento brutto e malinconico La prossima tappa del viaggio era Modrica, una borgata situata ai margini estremi della Posavina bosniaca, sulla sponda destra del fiume Bosna e del suo affluente Dusa. La località fu conquistata dai Turchi appena nel 1536 nel loro tenta- tivo in parte riuscito, di dilagare nella Croazia. Il convento francescano di Modriéa, risparmiato dai dominatori ottomani per un secolo e mezzo, sarà abbandonato nel 1685 quando l’intera popolazione di fede cristiana della borgata e dei dintorni, esoderà in Slavonia. G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 231 L’impressione che fece il convento di Modrica all’illustre Visitatore dell’ordine francescano non fu certamente bella. “Il Convento di Modrice è il più angusto, bruto e malinconico di tutta la provincia. Gli passa un fiume da un lato attacato al Convento, ornato d’arbuscelli. Ha(vvi) nel Convento una chiesioletta soterranea come una cella con un crocifisso dipinto sopra un foglio di carta. Un miglio lontano ha(vvi) un bellissimo tempio, più grande della nostra chiesa nel Capo d'Istria, con li ballatori intomo entro la Chiesa, per la capacità della gente che concorre in quantità (nel) giorno della festa”. Quel convento malinconico e brutto veniva spesso inondato dalle acque del fiume Bosna. Si racconta che nella seconda metà del XVI secolo, durante il pontificato del riformatore del calendario Gregorio XIII, papa dal maggio 1572 fino all’aprile 1585, una sua preghiera produsse il mira- colo di allontanare il fiume dal convento di mille passi e per circa cento anni la dimora dei frati più non subì alluvioni; ma nel 1666 il fiume aggredì nuovamente quell’edificio, spazzandolo letteralmente. Poco prima che le acque se lo portassero via, i frati riuscirono a salvare i mobili e le loro cose insieme alle reliquie dei santi, portando il tutto a Dakovo in Croazia. AI tempo della visita del Pelizzer, Padre Guardiano di Modrica “era tal Pre. Michele di piombo, huomo savio e Padre della Provincia, vecchio, il quale possedeva francamente la lingua turca”. Altro il Visitatore non ci dice di quella sosta, che si protrasse “sino la Domenica, e doppo pranzo partissi- mo per Brod”. Testimoni, ai giorni nostri, delle tragedie seminate dalla guerra fratri- cida fra serbo-ortodossi, croato-cattolici e bosniaco-musulmani protrattasi dal 1991 al 1995 nell’ex Jugoslavia, testimoni di pulizie etniche, di esodi biblici, di distruzioni di chiese e di moschee, e di immani stragi, leggiamo con una attenzione particolare le pagine della Memoria scritta da Padre Paolo Pelizzer nel diciassettesimo secolo. Vi troviamo molte somiglianze con quanto avvenuto nei nostri tempi, che comprendono anche la seconda guerra mondiale. L’attenta lettura dei brani che seguono ci fornirà un’ul- teriore conferma del ripetersi di certi eventi nella storia. “Passata la Bosna a sguazzo, giungessimo finalmente al traghetto del fiume Savo sotto cità di Brod. Passato il traghetto, andassimo alla casa del curato, ch'era in mezzo alla cità di Brod”, 232 G.SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 Al confine fra gli imperi Siamo, dunque, a Brod, ma quale delle due che sorgono, dirimpettaie, da una parte e dall’altra della Sava, che segnava un tempo il confine tra l’impero ottomano e l’impero austro-ungarico ed oggi il confine tra Bosnia e Croazia? La storia ci dice che nel Medio Evo, prima dell’arrivo dei Turchi, Brod era un unico abitato sparso su ambedue le sponde del fiume unite da un ponte. Anche dopo l’occupazione turca, che si estese in questa regione nel 1536, le due parti continuarono a formare un'unica città perché ambedue sotto il dominio turco. I Turchi saranno cacciati dal borgo sparso sulla sponda sinistra del fiume, in Croazia, appena nell’anno 1691. Da allora la parte sulla sponda destra, bosniaca, sichiamò Turski Brod, poi Bosanski Brod, e Slavonski Brod ossia Brod di Slavonia quella sulla opposta sponda, prendendo a svilupparsi in città a se stanti. Slavonski Brod divenne sede del Capitanato austriaco della Krajina. Ai tempi suoi, quindi, il Pelizzer conobbe una sola Brod, nella quale c’era una chiesa cristiana, ma non un convento francescano. Sicché, dopo aver trascorso la notte in casa del curato, la mattina seguente celebrò la messa e si preparò subito dopo “alla partenza per Posega”, oggi Slavonska Pozega. Per raggiungere PoZega, la comitiva di Padre Pelizzer avrebbe dovuto seguire il tracciato delle strade costruite dagli antichi Romani, quegli stessi che nella zona dell’odierna Brod avevano fondato Marsonia e, nel luogo in cui sorge Po ega, nella feconda Vallis aurea, l’abitato di /ncerum attraver- so cui passava la strada che collegava le città, pur esse romane, di Mursa (l’odierna Osijek) e Sciscia (Sisak). Pozega di Slavonia aveva sostenuto un ruolo importante nelle guerre con gli eretici Bogomili bosniaci prima e contro i Turchi dopo. Nel 1227 fu il punto di partenza delle crociate contro i seguaci della “Chiesa bosniaca”; nel 1238 il re ungherese Bela IV vi insediò l’Ordine cavalleresco dei Crociati assegnandogli estesissimi poderi. Dal 1536 al 1691 fu, come Brod, in mano ai Turchi. Oggi di quel dominio è testimone soltanto una fontana, la “Tekia”; risale alla medesima epoca il convento francescano che però si presenta nello stile barocco di un restauro subito nel 1708. In quel convento, al quale era diretto, Padre Paolo Pelizzer non mise però piede. La visita alla città stessa gli fu sconsigliata e presto sapremo il perché. Riprendiamo il filo della narrazione del Rovignese: G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 233 “La mattina, celebrata la messa, si preparassimo alla partenza per Pose- ga, e non andassimo a cavallo, ma in sedia del (parola illegibile, forse: calesse o carozza) à tiro di quatro. Volevimo intrare nel borgo di Posega, ma i Christiani ci aducevano bonissime ragioni per le quali si doveva sfugire Posega. La prima era che li nostri Christiani in quella campagna avevano amazzato un vladica, che vol dire vescovo, arcivescovo (suddito) del Patriar- ca di Costantinopoli Greco sismatico”. Pulizie etniche di tre e più secoli fa Quei cristiani non si erano limitati ad uccidere il vladika ortodosso, ma avevano compiuto una vera e propria strage di serbi. Parlando di questo crimine, il Pelizzer non è molto chiaro, ma ci par di capire che, per ogni visita pastorale, il Patriarca si facesse pagare dal vladika un forte tributo in denaro, tributo che il vladika di Pozega, a sua volta, faceva pagare ai fedeli cristiani, sia ortodossi che cattolici. Questi ultimi, ritenen- dolo un abuso, a un certo punto si ribellarono, ammazzando il vladika e la sua scorta dopo aver loro teso un agguato fuori città. Ecco come il Pelizzer narra il fatto: “Quello (il Patriarca) vende quella visita; riceve un tanto da uno delli Vladiki, e questo poi per riffarsi del denaro esborsato et avanzare qualche cosa, voleva il tributo non solo dalli sismattici suoi sudditi, nostri capitalissimi nemici, peggio che Turchi, ma anco dalli nostri Cattolici: questi si unirono assieme, lo aspettarono nella campagna di Posega con tutta la sua corte e comittiva, ch’era con callogeri, Preti, e Turchi, di scorta in vinti quatro”. Li ammazzarono tutti, seppellendo poi i cadaveri, cavalli compresi, in alcune grandi fosse comuni. Nel riferire il fatto il Pelizzer non spende una sola parola di biasimo o condanna; anzi, ci pare che approvi l’eccidio essendone stati vittime dei cristiani scismatici, indicati come “capitalissimi nemici”, peggiori dei Turchi. Si compiace pure del fatto che gli autori di quella strage non furono scoperti: gli assassini seppero ottimamente ma- scherarla. Ecco la descrizione che ne fa l’autore della Memoria: “e tuti sepelirono con loro ancora cavalli nelle grandissime fosse (nello) spacio de una notte, e scavate e poi col terren di sopra la verdura coperto; così che non si mai seppe del loro occaso”. Ascoltato questo racconto, Pelizzer si lasciò facilmente convincere a 234 G.SCOTTI, UnFrate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 passare alla larga da Pozega ed a scegliere come prossima meta la località di Velika. Era necessario allontanarsi al più presto anche perchè, come ci racconta lo stesso Pelizzer, la sua presenza in quella zona non era passata inosservata; i serbo-ortodossi (“scismatici”) avrebbero potuto attentare alla sua vita. “Era sparsa la fama, che io era il VIadika del nostro Pontefice, che andavo (ri)scotendo il tributo per lui; onde li scismatici, per vendicarsi del loro Vladika, machinavano cose grandi, onde dicevano li Christiani: se si và per Posega, passar bisogna per il borgo, ove potrebbe nasser qualche confusio- ne, onde è meglio passare a lontano verso Convento di Velika”. Così Pelizzer potè vedere Pozega di Slavonia soltanto da lontano: “Nel viaggiare vedessimo (il) castello di Posega, e soto (la) cità più grande de Brod, ha 14 Moschee; vi sono quantità di case Christiane, ha una nobil campagna, che si possi ne scentire ne vedere”. Nuove tappe: Velika e Na$ice Dopo aver sorpassato PoZega, la comitiva dell’illustre Visitatore fran- cescano rovignese stabilì come prossime tappe del viaggio le località di Velika e NaSice. A _Velika giunsero “alle venti tre hore”, si legge nella Memoria, che così prosegue: “Velika si adimanda tutto quel paese vicino ad un fiume, che corre perli horti delli Padri, addimandato Velika; e da questo fiume tengono il nome tutti quelli contorni”. Servendoci delle indicazioni fornite dalla Memoria, non ci è difficile individuare sulla carta geografica la Velika in cui sorgeva il convento francescano. È tuttora poco più di un villaggio, dista meno di dieci chilo- metri da Slavonska Pozega, ai piedi delle colline del Papuk e del Krndija nella Posavina o Slavonia occidentale. La zona è tutta una ragnatela di fiumicelli e fiumi. Descrivendo il convento di Velika, Pelizzer spende meno di due righe: “Il Convento ha due dormitorij, uno sopra l’altro; la Chiesa è bellissima, netta, omata di nuove cose, come balladori, altari, banchi, choro etz”. Il che significa che quel tempio era stato costruito da pochi anni. “Il Sabbato mattina, celebrata la S.Messa, partissimo per Nasize, erava- mo in 23 a cavallo”. G.SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV,2004, p. 157-244 235 Nasice è oggi una delle più importanti cittadine della Slavonia, ameno di cinquanta chilometri ad est di Slavonska Pozega, sparsa sulle basse pendici settentrionali del monte Krndija. Il primo documento che menzio- na questa località risale al 1229: Nekche, possedimento feudale dapprima dei Templari e poi di varie famiglie feudatarie. Fece parte dei domini turchi dal 1536 al 1691 come Brod, Pozega e l’intera regione. La presenza dei Francescani a NaSice in quell’epoca è ricordata tuttora dalla chiesa e dal convento di quell’ordine, la prima in stile gotico ma più tardi baroc- chizzata. All’epoca della sua visita, Pelizzer scrisse: “// tempio di Nasize è uno delli belli tempij quanto al vaso, ma li homamenti sono rovinati, è più grande di S.Francesco di Zara, si veggono vestigij di volti, le fenestre lunghis- sime con intagli antichi, si scuopre esser stata una gran fabbrica. Stà un choro nuovo fatto alla rustica; l’altar maggiore grando e bello e moderno. A lattere sinistro vi è una pittura antica dello Spirito santo bellissima”. All’epoca i dintorni di NaSice, e non soltanto di questo abitato, erano ricoperti da estese paludi. Non c’è da meravigliarsi, perciò, nel leggere questo appunto del Pelizzer: “L’aria è pessima, e pure è in un bellissimo scito”. “Il giomo 22 (maggio) partissimo in 10 e cavalcassimo sino che giunges- simo alla cura di Pre fra Andrea d’Almissa, ove fussimo trattati egregiamente, e riposatisi alquanto, salissimo li destrieri e si incamminassimo verso l’allog- giamento del Pre Pietro capellano del Vescovo, ove eravamo aspettati con gran desio, e con gran preparamenti. Quivi trovassimo (il) fratello del Pre. Marino Brisimovich Custode, quello che con suo padre ci condusse a Velika, per liberarci delle mani scismatiche”. s Padre Pelizzer non lo ha annotato e noi perciò ignoriamo i nomi delle località nelle quali fece tappa, ospite del curato e del cappellano, anch'essi francescani. L'autore della Memoria così prosegue: “Al mercordì matina cavalcassimo verso il passo della Sava, ove erava- mo aspettati dal capellano di quella villa. D’indi traghettammo il fiume Savo, andassimo verso Saline inferiori, e poi per Gradovarh, e poi a Piombo”. In queste poche righe è tracciato il lungo itinerario del ritorno in Bosnia; fu ripercorso il cammino già fatto per raggiungere la Slavonia. Altrettanto telegraficamente il Pelizzer descrive una lunga sosta al con- vento di Olovo: “Il martedì doppo la Pentecoste vennero al Convento di Piombo tre causi del passà a dar ordine, che fosse portata la feramenta à Bagna Luca per la fabrica del suo Palazzo”. 236 G. SCOTTI, UnFratecon “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 Da Olovo il cammino fu ripreso quattro giorni dopo. “// Sabbato mattina partissimo per Sutisca”, passando per Vares a trentasei chilometri da Sarajevo. Da Sutjeska Padre Pelizzer ripartì “/a sera di Lunedì inanti la festa del Santissimo Sagramento” e precisamente il 4 giugno, diretto a Visoko, ma stavolta non per rivedere quel convento bensì “per andar a veder la cità del Seraglio di Bosna, fondaco delle mercantie, che passano da Venezia a Costantinopoli, e da Costantinopoli a Venezia”. In altre parole, la tappa di Visoko servì per fare di lì un salto a Sarajevo, la capitale del Pascialato. Sarajevo, un ghetto per li cristiani Nel suo breve viaggio a Sarajevo, intrapreso per appagare una curio- sità personale, non essendoci in quella città conventi dell’Ordine da visita- re — il frate francescano rovignese fu accompagnato da tale Michele da Sarajevo che si unì a un gruppo di mercanti cristiani “Cavalcassimo di notte in 12 di noi, e giungessimo a Visochi alle 6 hore di notte: si fermassimo ivi sino la seguente sera. Venne il Signor Michele del Seraglio, per condurmi con poca compagnia per non dar all’ochio del Turco, e per non aggravar quelli signori mercanti, (i) qualli, quando capita vescovo o superiore de fratti, fanno eccessi di cortesie, e perché pochi giorni innanzi molti dispendi fecero al Frà Tomaso vescovo novello, non era di dovere aggravare tanto quella Christianità. “Indi andassimo solo in quatro, il Signor Michele col Padre capellano, e fra Pasquale ed io; giungessimo all’alba alla nostra habitazione. Li Christiani stanno in una contrada separata da Turchi, e si chiudono, come fanno li Ebrei nel Ghetto di Venezia”. La stretta valle nella quale si estende Sarajevo era punteggiata da rari e sparsi villaggi prima della conquista turca avvenuta nel 1435. Il nucleo storico della città, nel punto in cui scorre il fiume Miljacka, sorse dopo quella conquista e prese il nome di Saraj (serraglio = palazzo del sovrano), poi quello di Saraj-ovasi (Campo intorno alla reggia), successivamente Saraj-kasabasi (Città del serraglio), infine slavizzato in Sarajevo, nome quest’ultimo menzionato per la prima volta in un documento del 1501. “Inanti pranzo ci condussero il Signor Mattio Collona et il signor Paolo Antonio a vedere le principali cose della città, ma non vollero ch’andassi vestito alla turchesca, dubbitando de qualche vania turchesca; andai vestito G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 237 da fratte col mantello; poco lungi alla piazza s’incontrassimo con un sacerdo- te turchesco Softè, alto, grosso che sembrava un gigante col turbante in testa: questo fù il primo, che mi fece sudare de sudori mortali, mentre cominciò domandare: chi è costui? D’onde vienne, ove và, da che paese è costui? Quando gli ebbero risposto a trè interogazioni, ch’ero un figliuolo d’un mercante Christiano, che venivo dallo studio e che andavo a ritrovar li miei Parenti, impacientati quelli Signori dissero in colera: che hai da cercare tu queste cose, và via; all’hora disse (il) Turco tre volte; ‘poturci se papaz’, che vol dire, fatevi turco, monaco”. Con la paura messagli addosso da quel gigante di Turco, Padre Peliz- zer continuò tuttavia la visita a Sarajevo, sudando “sudori mortali”: “Io, come dissi, gietavo sudori mortali, ne vedevo l’hora (di) ritrovarsi a casa; ma la curiosità di vedere le cose della città, mi spronava alla pazienza. Addimendai per qual causa mi persuadeva à farmi Turco; risposero che fanno per costume ad ogni Christiano che se gli affaccia, perché pensano (di) guadagnare l’indulgienza plenaria. Sbigottiti che fossimo da questa bestia sacerdotale, vedessimo la piazza delle mercantie delli Hebrei, che vi sono molti volti simili a quelli della Piazza San Marco (a Venezia) ma non di quella finezza; mi fecero veder la doànna (Dogana) ch'è a guisa d’un chiostro tutto pieno di balle mercantili. Vegessimo (pure) la Calle de fabbri, la Calle delli Orefici tutto ben ordinato. Vi stava a sedere un Turco in una bottega con maestà grande, e mi dissero quelli Signori, che quasi tutte quelle mercanzie erano di sua giurisdizione”. Allora come nei secoli successivi, il cuore pulsante di Sarajevo era la contrada dei mercanti e degli artigiani, detta Basc’ciarscìa; è in questa contrada che condussero Padre Pelizzer, il quale non a caso mette al primo posto la “piazza delle mercantie degli Hebrei”. Costoro, sempre numerosi a Sarajevo a cominciare dalla seconda metà del XVI secolo, erano venuti dalla Spagna come profughi. Il ghetto di Sarajevo, detto Cifuthan, si trovava tra le vie Ferhadija e Cemulush ed era stato costruito nel 1581 per ordine del visir del tempo, Siavush-Pascià. Il “Palazzo dei ragionieri” ed altri monumenti Nel prosieguo della visita a Sarajevo, Padre Paolo Pelizzer e i suoi accompagnatori ammirarono vari palazzi, fra cui una specie di banca 238 G. SCOTTI, UnFratecon “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 dell’epoca, il cosiddetto “palazzo dei ragionieri” (Tefterdari) dove gli fu offerto da bere un liquido nero (caffè turco?) che al solo vederlo gli fece schifo: “Mi condussero a vedere il Palazzo del Teftedari, che vol dire thesoriero. Vi era una gran sala quadra, con tutto il pavimento ricoperto d’un gran tapeto, e atorno vi era quantità di capezzali (cuscini) di panno d’oro (ricamato in oro), quali servono in quelle parti di cadreghe. Stavano due Turchi sedendo in terra appogiati alli capezzali. Si ponessimo a sedere, dimandarono a quelli Signori: chi ero, d’onde venivo? Gli risposero, che ero stato a studiare in Italia lunghissimo tempo, e che ora andavo a Belgrado a vedere li parenti; fecero portare quella robba nera, che chiamano Serbetta, e la portarono in tazze bellissime di porzelana, questo lo bevono con grandissimo gusto, ma a mè faceva nausea; io non volsi bevere, quelli Signori mi scusavano con dire, che non ero assuefatto; e lori dissero: ‘faremo portare del buon vino’; dissero che non occoreva, perchè ero a digiuno”. Quelli infedeli di Turchi, che l’autore della Memoria dipinge, quando può, a foschi colori, si videro così rifiutare sia il caffè che il vino: offesa grave fatta loro dal Pelizzer, che non se ne rese conto nemmeno. “Mi fecero vedere il Palazzo del Begh; in questo v’erano di spechi grandi. Vidi il suo gabinetto con bel scrittorio, tavolino d’ebano. Passassimo per palazzo del Giudice, ma per la moltitudine di gente non salissimo scale, dassimo un’occhiata alla sfugita, vidi ch'era un palazzo molto bello”. Il Pelizzer non tralascia occasione per evidenziare le molestie subite dagli “infedeli” e lo fa anche nel seguente brano, nonostante a molestarlo fossero dei bambini per loro natura bricconcelli: “Li putti ci venivano dietro cacciandoci come che fossimo tante capre, venivano gridando dietro di noi: sche, sche, termine con il quale cacciano le capre, che m’arrabiavo come un cane, gietavo sudori mortali. Mi scapò la pazienza, dimandai, perchè fanno queste insolenze, e volevo percotterli con il cordone. Ma quelli signori: non per l'amor di Dio, Padre non fatte, habbiate pazienza, Vi veggono vestito da frate e sanno che essendo in nostra compa- gnia, siamo Christiani, e perché li Christiani come hanno per relazione portano la barba simile a quella delle capre, per questo dicono sche, sche. Dissi io: habbiamo pare la barba grande; non importa, sanno che semo di quella nazione”. “Vidi in cima d’un colle un poco di fortezza quadra, una bagatella, giusto simile à quella di Duare sopra la Vruglia. Mi condussero a vedere la principal G. SCOTTI, Un Frate con“Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 239 Moschea, ma perché alli Christiani è proibito l’entrar dentro, la vidi stando di fuori. Vidi un gran chiostro rotondo con collone (colonne) di marmo, di mediocre grossezza, una bella fontana nel mezzo, ove si lavano li Turchi inanzi che entrano in Moschea. Nella strada poi v'è un’altra fonte, alla quale corrono li sitibondi”. Anche da questa sommaria descrizione si capisce che siamo nella Basc'ciarscia, di fronte alla Moschea di Alì-Pascià, uno dei capolavori dell’architettura turca, costruita tra il 1560-61 nel centro storico della città ai piedi del monte Trebevi6, nella conca solcata dal fiume Miljacka. L’uno e l’altro non sfuggirono all’attenzione di Padre Pelizzer che così continua: “Mi condussero in un luogo eminente, dal quale si scuopriva tutta la città grandissima e vasta in una bella valle al piede d’un alto monte detto Trebe- vich, gli passa un fiume per mezzo. La città è sparsa parte al piano, e parte al colle la parte del colle non si può vedere per cagione delli alberi. Mi dicevano esservi cinque cento Moschee”. Ottanta minareti All’epoca del viaggio di Padre Pelizzer, tra le case di Sarajevo svetta- vano alti circa ottanta minareti, e c'erano delle moschee con più minareti. Il numero di moschee indicato in questa Memoria, pertanto, è certamente gonfiato. “Viddi una machina rotonda fatta a volto, piena di mercancie. Il giorno del Santissimo, ascoltata la messa prepararno quelli Signori un lautissimo pranzo e doppo pranzo andassimo a vedere la contrada dei Cristiani, quali tengono le mercancie in canove sotto terra, e ciò mi dissero per cagione del fuoco, perchè più volte s'erano abbrugiate. La strada de Christiani (oggi ricordata con il toponimo di Vlaska mahala, alias Quartiere Latino, ndr) sarà più lunga della riva di Rovigno, si camina sempre al coperto, le botteghe de ambidue le parti”. Con queste annotazioni sulla visita a Sarajevo, praticamente si conclu- de la Memoria di Padre Paolo Pelizzer da Rovigno che, come abbiamo potuto notare, non perde mai occasione di ricordare la sua Rovigno e l’Italia. Visitò successivamente i conventi di Kre$evo, di Fojnica e di Rama, dove presiedè il Capitolo provinciale del suo ordine; ma tutti questi eventi 240 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 sono sintetizzati in meno di dieci righe. Intanto, ancora qualche parola su Sarajevo: “Rissolsero quelli Signori, che partissimo per Crescevo, ma di notte, perchè si doveria cavalcare per gran parte della città. Partissimo dunque bonora (di) sera, che li Turchi erano nella Moschea: hebbi massime di vedere la contrada della Moschea senza rimorso, e se bene era de prima sera, veggevo molto bene, passassimo per la Moschea”. Qui “la Moschea” significa il quartiere di Basc’ciarscìa (al cui centro si leva la moschea di Alì-Pascià) nel nucleo storico di Sarajevo. Uscendo da Sarajevo, P. Pelizzer osservò: “Viddi di belle case con le sue vedriate, cosa che non si vede pel la strada romana d’Ancona per Roma, ne meno per la Fiorenza, et altre città della Lombardia e Romagna. Cavalcassimo tutta la notte con splendore di luna. Giungessimo poco inanzi il pranzo al Convento, passassimo per Crescevo, che è un borghetto con case d’ambidue le parti, innanzi al quale v’è una bella piazza con un albero di smisurata grandezza: quivi era Guardiano Pre. Pietro Lipanovich, quale feci succedere Custode ...” Kresevo sta 55 chilometri a nord-ovest di Sarajevo, in una conca nella quale confluiscono alcuni fiumicelli, sulla strada che, passando per Ki- seljak, collega Sarajevo e Visoko. Il convento francescano di Kresevo, tuttora esistente, è uno dei più antichi della Bosnia. Dalla sua fondazione, avvenuta nel XV secolo, fu più volte incendiato e rinnovato; e tuttavia nel suo archivio si conservano ancora vari documenti turchi e una cronaca dello stesso convento che va fino al 1765. La Memoria di Padre Pelizzer si conclude con questa frase: “Da Crescevo andassimo a Fojniza lì 11 Giugno, Convento principale della Provincia, questo fu l’ultimo visitato”. Posta nella valle solcata dall’omonimo fiume, Fojnica è una borgata le cui origini risalgono all’inizio del XV secolo, epoca in cui fu menzionata come miniera di pirite. A sud dell’odierno abitato, in località detta Banjski Brijeg (sorgenti di acqua minerale) è ancora in piedi un convento france- scano. Risale al XIV secolo. All’epoca della visita di Padre Pelizzer era sede del vescovo primate della Bosnia. In quel convento risiedevano pure, in quei tempi, i Vicari apostolici e i Provinciali. Nonostante incendi e devastazioni subiti nei secoli (l’ultimo restauro risale al 1863-69) vi si conserva una ricca biblioteca e una rara collezione di lettere e decreti di autorità turche, di diari, cronache, corrispondenze. G. SCOTTI, Un Fratecon “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 241 La visita di P. Paolo si concluse nel convento di Rama sul fiume omonimo, affluente del Neretva, sulla strada che porta a Gornji Vakuf e Bugojno. In quel convento Paolo Pelizzer, nella sua veste di Commissario del generale dell'Ordine, convocò tutti i Padri Guardiani ed altri superiori dei vari conventi francescani bosniaci, e questo avvenne nel giorno della festa di San Pietro apostolo. Il dibattito in quell’assise fu acceso e lungo, sicché si concluse appena nel giorno di San Giovanni: per voto unanime e con soddisfazione di tutti, fu eletto a Padre superiore della Provincia bosniaca il Padre Martino di Rama. Tornò così la pace e cessarono i contrasti fra i religiosi e i vescovi. Padre Pelizzer — passando per Zadvarje ed Almissa/Omiò — potè tornare in Istria. 242 G. SCOTTI, Un Frate con “Li Turchi”, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 157-244 SAZETAK: REDOVNIK S “TURCIMA” - Autor ovim djelom rekonstruira ne samo biografiju rovinjskog franjevca Paola Pelizzera, koji je svojemu redu postao uglednim propovjednikom, obnasao visoke duZnosti i uspje$no obavio teske politiéko-diplomatske zadafe, nego i jedno njegovo dugo putovanje po Dalmaciji, Hercegovini, Bosni i dijelu Slavonije, koje je poduzeo 1640. godine. Kroz putopis predstavlja zanimljive aspekte politiéko-druStvenog stanja koje je u to vrijeme vladalo u krajevima kojima je prolazio, zatim Zivota kràéanskog i islamskog Zivlja u tim zemljama te uvjeta u kojima su djelovali franjevatki samostani pod okriljem osmanlijskog polumjeseca. Tekst se koristi jednim dragocjenim dokumentom: izvjeséem ito ga je rovinjski fratar napisao po zavr$etku putovanja i podnio svojim pretpostavljenima. To izvjesée u rukopisu dozivjelo je razne zgode i nezgode. Tragom dnevnika, koji je autor mjestimice dopunio da bi olak$ao Citanje, rekonstruirano je putovanje koje moze biti interesantno za razumijevanje novih povijesnih dogadaja. Prvi dio rezerviran je za Pelizzerov Zivotopis, centralna tema drugoga je njegov put u Dalmaciju, na pojedine otoke i u Hercegovinu, dok u treéem, najduljem dijelu, rovinjski franjevac opisuje razdoblje provedeno u Bosanskom pasaluku i dijelu Slavonije. Povrh povijesno-zemljopisnih bilje$ki, zanimljivi su i opisi odnosa izmedu Zitelja razliditih vjeroispovijesti, stavova turskih nositelja vlasti te stanja crkava i samostana. Autor, pomocu ove rekonstrukcije, zeli ponukati Citatelja da iznova otkriva povijest balkanskih krajeva i Zitelja, te ga u isto vrijeme priprema da je ponovno iséitava u novom svijetlu, neovisno o ranije nametnutim nam gledanjima. POVZETEK: REDOVNIK S TURKI — S tem prispevkom avtor ne rekonstruira samo Zivljenjepisa frantèi$kanskega redovnika iz Rovinja, Paola Pelizzerja, ki je v svojem redu postal ugledni pridigar, dosegel visoke funkcije in uspesno opravil tezke politiéne diplomatske naloge, ampak tudi redovnikovo dolgo potovanje iz leta 1640 po Dalmaciji, Hercegovini, Bosni in po delu Slavonije. Delo prikazuje zanimive aspekte politièéno-socialne situacije tistega Casa na obmodjih, ki jih je obiskal redovnik, zivljenje kr$tanskih in muslimanskih Ijudstev v G. SCOTTI, Un Fratecon “Li Turchi”, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 157-244 243 tem teritoriju ter okoliséine, v katerih so sluZbovali frandiskanski samostani v senci tur$ke oblasti. Tekst se okoriséa dragocenega dokumenta: porotila, ki ga je napisal redovnik iz Rovinja ob zakljuéku svojega potovanja in ki je bilo izroéeno predstojnikom. Rokopis omenjenega porodila je naletel na razne dogodke. Na podlagi dnevnika, ki ga je avtor ponekod dopolnil za laZje branje, je bil izdelan zanimiv itinerari] za razumevanje nam zgodovinsko blizjih dogodkov. Ce je prvi del posveten Pelizzerfevemu Zivljenjepisu, je drugi osredoto©en na njegovo potovanje po Dalmaciji, po nekaterih’ otokih in po Hercegovini, medtem ko v tretfem, obseZnejiem delu, redovnik iz Rovinja pripoveduje o obdobju, ki ga je prezivel v Bosni in deloma v Slavoniji. Poleg zgodovinsko-zemljepisnih podatkov je zelo zanimiv tudi opis narodnih nos, odnosov med ljudstvi razliéne veroizpovedì, stalista tur$kih oblasti in stanja cerkev ter samostanov. Na podlagi te avtorjeve rekonstrukcije se v bralcu porodi Zelja po spoznanju zgodovine in prebivalstva Balkanov, kar ga privabi k ponovnemu branju z drugaénim pristopom od tistega, ki nam je bil doslej vcepljen. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 245 L’ARALDICA PUBBLICA DI ROVIGNO D’ISTRIA GIOVANNI RADOSSI CDU 929.5+929.6(497.5Rovigno) Centro di ricerche storiche Saggio scientifico originale Rovigno Dicembre 2004 Riassunto — Dopo che nel 1968, coautore A. Pauletich, era uscita dalle stampe la ricerca “Stemmi di podestà e famiglie notabili di Rovigno” (1970), dieci anni or sono, a corona- mento di una lunga operazione di revisione e d’integrazione documentaria, uscì nel volume XXIII (1993) degli Atti del Centro di ricerche storiche, il saggio “Stemmi e notizie di famiglie di Rovigno d’Istria”. A quel segmento si aggiunge ora la ricerca sulla raccolta araldica pubblica rovignese, stemmi e simboli della Serenissima e dei rettori veneti, della municipalità e d’altre realtà associative più o meno fondanti della realtà economica, religiosa ed umana della città, compresa grossomodo tra il secolo XIV ed il XIX; rispetto al manoscritto del Natorre, sono stati individuati ben trentasette nuovi reperti (ventinove se confrontati con la documentazione di D. Petronio), mentre per taluni è stata ‘corretta’ l’attribuzione. In totale i blasoni rappresentati a ricerca e documentazione ultimate sono ottantotto, mentre i manufatti oggi non reperibili ammontano a sedici unità. Introduzione Dopo che nel 1968, coautore A. Pauletich, era uscita dalle stampe la ricerca “Stemmi di podestà e famiglie notabili di Rovigno” — nel volume III (1970) della benemerita Antologia delle opere premiate del concorso ‘Istria Nobilissima’, dieci anni or sono, a coronamento di una lunga opera- zione di revisione e di integrazione documentaria, potei pubblicare nel volume XXIII (1993) degli Arti del Centro di ricerche storiche, il saggio “Stemmi e notizie di famiglie di Rovigno d’Istria”. Voleva essere anche quella una riconferma dell’urgenza degli studi araldici nel territorio del nostro insediamento storico, necessari alla compilazione degli elenchi complessivi di tutte le famiglie, estinte e fiorenti nel passato remoto e prossimo, con cenni storici, blasonatura e relativa figurazione dello stem- ma, poiché molti manufatti erano andati ‘smarriti’ e si segnalavano nuovi probabili danni al patrimonio araldico locale. 246 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atri, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 Questo secondo progetto si prefiggeva, tuttavia, il solo ed unico di- chiarato interesse di individuare i blasoni delle famiglie rovignesi, “reperi- bili o non — ma comunque documentati”, tralasciando del tutto le armi gentilizie appartenenti ai rettori veneti rubinensi; ne risultò un corpus araldico tra i più interessanti dell’area istriana, per la doviziosa presenza di famiglie cittadinesche ed anche popolari, a scapito di quelle patrizie o nobili, ovvero per talune curiosità e varietà araldico-scultoree, dovute all’alta percentuale di stemmi parlanti. Si poté in tal modo individuare in questa “vegetazione lapidarea parietale” determinati significati “più o meno reconditi o pregnanti” da costituire una delle chiavi caratterizzanti ed interpretative della matrice culturale e civile della città. A quel segmento si aggiunge ora la ricerca sulla raccolta araldica pubblica rovignese, stemmi e simboli della Serenissima e dei rettori veneti, della municipalità e di altre realtà associative più o meno fondanti della realtà economica, religiosa ed umana della città, compresa grossomodo tra il secolo XIV ed il XIX; rispetto al manoscritto del Natorre?, sono stati individuati ben 37 nuovi reperti} (ventinove se confrontati con la docu- mentazione di D. Petronio*), mentre per taluni è stata ‘corretta’ l’attribu- zione. Meo Già nei primi tempi della presenza veneziana a Rovigno, il potere civile risiedeva nell’area di quello che sarebbe stato il futuro palazzo Pretorio, le cui prime strutture datano al 1308, “dove si trovava la dimora ! Ovviamente furono prese in considerazione anche le famiglie di nobiltà generica (vita more nobilium) e di distinta civiltà. 2 La Raccolta fu“Disegnata da me Gaetano Natorre fu Angelo qual diletante per proprio genio, e non per studio. (...) Pensai di dividerla in due volumi, ciascunodiviso in parti: nel primo una sucinta descrizione di tutte le racolte Antichità; Nel secondo la dimostrazione delle Antichità medesime in CLXXI Tavole, disegnate a semplice lapis, e correlativamente disposte nel più possibile ordine riguardante ciascun punto, località, e contrada che esistevano, e che vi esistono. Volume Secondo. Rovigno anno 1851”. Il documento, mancante del I volume, è depositato presso la Biblioteca Civica di Trieste, che qui si ringrazia perla collaborazione. Per un approfondimento, cfr. RADOSSI, “Stemmi e notizie”, 193. 3 Questi i nominativi: Baffo, Balbi, Benzon, Cicogna, Commenda dell'Ordine di Malta, Comune di Rovigno (5), Contarini, Diedo, Ferro, Foscarini, Giustinian, Leone marciano (5), Loredan (2), Malipiero, Minio, Ordine dei Francescani, Ordine dei Serviti (2), da Ponte, Premarin, Steno (2), Zorzi, Ignoti (4). 4 Domenico Petronio, barbiere rovignese (1854-1924); per ulteriori notizie, cfr. RA DOSSI, “Stemmi e notizie”, 194-195. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 247 dei podestà veneti (successivamente restaurata nel 1752); il pianterreno, nella sua parte interna, era adibito a prigione oscura, mentre sul davanti, verso piazza S. Damiano s’apriva la Loggia piccola (murata nel 1723 ed adibita ad uffici ed archivio nel 1738), dove i podestà tenevano udienza”). Essa “prova che i Comuni si andavano affermando con nuove costumanze civili. Quella specie di androni formati di un semplice tetto, sostenuto da colonnini o pilastri, e che si costruivano in vicinanza del Palazzo publico, ci avvisano che siamo all’epoca dei comizi e degli arenghi. Oramai il popolo, padrone della sua volontà e della sua forza, raccoglie le leggi nei primi statuti, legando armonicamente in quel codice i canoni della giusti- zia, i provvedimenti della salute, le norme del lavoro, i diritti e i doveri dei più umili e dei maggiori, nei rispetti della vita e della morte. I podestà si recavano nelle loggie a sopravvegliare agli incanti e alle vendite, a procla- mare con voce del banditore le terminazioni e i nomi degli assuntori dei dazi e degli ufficiali alle vittuarie e alle misure; gli anziani vi andavano a esporre i desideri della universalità oppure a chiedere la limitazione delle servitù feudali, il rifornimento dei fondachi, l'aumento delle cisterne e dei pozzi”°. Fu questo uno dei primi spazi dove le facciate si ‘adornarono’ di stemmi, una parte dei quali sono giunti sino a noi”. “Uno tra i primi edifizi sorti quando i Comuni cominciarono a esten- dere la loro opera di domestica tutela, è il Fontico, instituito per premu- nirsi contro i casi di carestia e contro la fame in tempi di guerra o di epidemie, e che forniva le biade a un prezzo di poco maggiore del costo”; anche la sua ‘area’ fu luogo privilegiato per l'esposizione di armi podesta- rili, leoni alati ed altre insegne. Non si sa con precisione quando sia stato istituito il Fondaco rovignese, ma è certamente d’antica data. Esso “esiste- va anteriormente al 1498; si sa del resto che fu istituito colla cessione da parte del Comune delle sue terre affittate a terratico di frumenti (...). I 5 BUDICIN, 206-207. © CAPRIN, I, 254-255. ? Il Palazzo pretorio conobbe numerosi ampliamenti e restauri, “in particolare nel 1460 e 1678-79. (...) AI primo piano c’era la grande Sala del Consiglio (...), ampliata nel 1739 dal Podestà Ferigo Contarini che vi aggiunse l’atrio. Il cortile interno (...) mediante una porta con stemma accartocciato e iscrizione di Antonio Zorzi, oggi irreperibile come l’altro stemma Zorzi del 1579 (che si trovava sopra l’ultimo gradino della scaletta che portava al cortile interno) dava accesso alla parte del Palazzo pretorio verso Sottomuro dove si apriva la cosiddetta Loggia della riva (sec. XV, chiusa nel 1704)”. (BUDICIN, 207). 8 CAPRIN, I, 258. 248 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 Fondaci (locali) erano due. Quello di S. Damiano (ora Casino Civico)? era prima del 1489. Il secondo in Piazza grande fabbricato l’an. 1747. V’era anche un Edifizio per deposito di frumenti, denominato ‘Granajo’, ove in adesso è il Tribunale, allora di un solo solaio, fabbricato l’an. 1680. Quan- do poi questo Granajo fu convertito in Monte di Pietà l’an. 1772, si eresse un altro Granajo (l’attuale Caserma) pure d’un solo solaio!°. (...) Il Fon- daco (di S. Damiano, n.d.a.) vendeva anche olio al minuto per comodo della povera gente sin dal 1622 dietro ordine del Podestà veneto Giacomo Barbaro (vedi)”!!. Gli altri luoghi araldici rubinensi, sono praticamente individuabili e facilmente reperibili nell’area urbana più ristretta ed antica, delimitata dall’ambito insulare che dal Pretorio si sviluppava in progressiva leggera salita fino alla ‘Collegiata’ di S. Eufemia; la cinta urbana, ed in particolare i tratti prossimi alle torri ed alle porte (Valdibora, Dietrocastello, S. Croce, Porton della Pescheria — Arco dei Balbi, Porton del Ponte), hanno costi- tuito i siti preferiti per collocarvi le testimonianze araldiche lapidee. In queste calli che hanno conservato ancor oggi quasi intatta la loro struttura originale di sapore medioevale e, ad un tempo, di tipica atmosfera vene- ziana, si possono ammirare significative testimonianze dell’araldica locale e veneta, nei luoghi primigeni, ovvero in nuove collocazioni, in particolare sulla facciata e nell’atrio del Palazzo pretoreo. Purtroppo, l'impianto urbano del vetusto centro storico è stato in buona parte modificato, sia per necessità di restauri o di inserimento di nuovi flussi del traffico, sia per motivazioni difficilmente comprensibili ed ° “Nel 1872 ospitò le prime strutture della neoerigenda Manifattura Tabacchi (...), vi ha oggi sede il Centro di ricerche storiche dell’UI di Rovigno”. (BUDICIN, 208). !0 | fondaci erano governati da una sola amministrazione con proprio statuto, la quale si chiamava Collegio delle Biave; i suoi membri si dicevano ‘Residenti’ ed erano ‘sei Cittadini e sei del Popolo’, in carica per un anno. Il fondaco ‘faceva prestanza di frumenti per semine che per antica consuetudine veniva retribuita non in grano, ma in contanti; erano esclusi dal ‘Collegio’ i negozianti di biade e farine, i proprietari di barche soliti a navigare con questi carichi, e gli aventi interesse nelle medesime. Erano proibite le vendite private di frumenti e farine. “Sotto il regime francese questo istituto fu soppresso l’anno 1810”. (RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 300-301). !! “«Quest’olio tenevasi in Pile nel Fondaco in S. Damiano, e lo si vendeva di poi nel Camerino eretto nello stesso Fondaco (...) con misure di vetro bollate né potevasi vendere a forestieri. (...) Questo Fondaco avea lunga gradinata esterna di pietra che mettea al piano superiore; (...) al muro di questa scala, ed all’altezza di mezzo uomo da terra, eravila sbarra con catenaccio di ferro perla berlina; e sotto la grondaja vedevasi ancora a’ nostri giorni il foro e la trave della carrucola per la tortura della Corda. Sopra la porta era il Leone alato (vedi). Questo edificio fu convertito in Casino Civico” nel 1841, quando andò distrutto il leone marciano. (RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 301-302). Cfr. anche (Ibidem) le voci ‘Fondaco in Piazza della Riva, e del Porto’ e ‘Fondaco in Piazza Grande”. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 249 accettabili, che hanno visto questa città, il suo territorio e la più vasta area istro-quarnerina subire interventi assolutamente inopportuni e menoma- zioni di forme e contenuti che hanno sortito lo stravolgimento violento del tessuto umano (l’esodo di gran parte della popolazione romanza dopo il secondo conflitto mondiale) e quindi anche di quello storico-artistico, culturale ed urbanistico-architettonico. Il notevole sviluppo urbano ed industriale ha significato, a conti fatti, il sacrificio dell’originalità del paesaggio e dei suoi aspetti storicamente più peculiari, esteriori ed ‘intimi’, che vanno a costituire l’identità culturale. Non va, infatti, dimenticato che quando Venezia si piegava sotto il fardello della sua lunga decadenza, Rovigno — come del resto le altre città e castella dell’Istria, smantellate o incorporate le mura entro le nuove costruzioni, “aveva alzate all’orlo estremo della sua isola le ultime case con le finestre libere, aperte sul largo e splendido cristallo marino. Molti (edifici) erano scomparsi, le piccole chiese rivolte ad altri usi: (...) tutto cominciò a mutare, sotto gli occhi, giorno per giorno; (...) l’insegna della morta Signoria”, lapidi e stemmi sopra il Porton del ponte, venivano rimossi assieme alla torre. Comunque su quelle tradizioni, consacrate da vincoli, da storie di famiglie!’, da abitudini secolari poco poterono il tarlo del tempo e le alterne vicende degli uomini: difatti, la città conserva inalterata la sua impronta che le viene anche dal numero cospicuo di stemmi e d’insegne, da quella collezione araldica disseminata sul e nel Palazzo pretorile, sulle Porte, sul e nel duomo, sulla Torre dell’orologio, sulle case “senza intona- co, fatte scure dal tempo”, quasi fosse tuttora “abitata da una grande famiglia che custodisce le reliquie degli avi, e che non si è punto esaurita, ma continua la storia delle proprie discendenze. (...) Cinque secoli interi, passati tra vittorie e sconfitte, tra ambascie ed allegrezze, dei quali a noi giunge un lontano scintillamento come dalle stelle che splendono senza illuminare la notte”. Ricorderemo che nel Cinquecento le lapidi murate sugli edifici, torri, porte e mura “erano in tanto numero da lasciar credere che le nostre città avessero voluto tramandar a quel modo la cronaca del tempo, delle istitu- zioni e degli uomini. Le epigrafi affidavano un rettore alla immortalità, !2 Vedi RADOSSI, “Stemmi e notizie”, op. cit. 13 RADOSSI, Monumenta, 28-29. 250 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 perché aveva fatto scavare un pozzo o una cisterna (...), rivestito a nuovo il coperto del Pretorio, o rabberciato il parapetto di una scala. (...)”. E per siffatto stato di cose, già nel 1474, il Senato veneziano “forse per soppri- mere sino la larva di una signoria personale” aveva deliberato che i dogi non avrebbero potuto più esporre la loro arma!*, per vietare quindici anni più tardi ai podestà, mandati al governo dei comuni istriani!, di esporre all’esterno dei luoghi pubblici la loro effigie, il loro scudo ed altri segni d’onore: “nondimeno [e fortunatamente, Rovigno] e le nostre città ser- ba[ro]no tavole ricordative sui palazzi municipali e fontici, sulle logge, sulle porte e sulle case private”"°. *** La prime testimonianze araldiche rubinensi, si possono far risalire, in effetti, sia allo scudo di Bertoldo Gastaldione del 1208-1209, che allo stemma Barbadico [Barbarigo — vedi] del 1331” in pietra bianca d'Istria, di singolare bellezza, esposto oggi sulla facciata del Palazzo pretorile!*, ovve- ro all’evoluzione del simbolo della Serenissima — il leone marciano nimba- to, in oro ed argento (vedi), inciso in una delle placchette esalobate del piede del ‘Reliquiario di S. Eufemia’, databile tra il 1401-1413" ed, infine, alla splendida formella rettangolare lapidea raffigurante la seconda ver- sione (alias) dello stemma cittadino del secolo XIV-XV (vedi)?! Il numero considerevole di stemmi in pietra esistenti, costituisce una documentazione storica, oltre che araldica, di non scarso rilievo sia per 14 “I Dosi che sarà da tempo in tempo, no possa metter le so arme in luogo algun fuora de palazzo; e quelle che ghe son, sia levà via”. (CAPRIN, II, 117). Ben più ‘distruttiva’, dalle conseguenze pesanti, sarà l’iniziativa del Senato del 1619. !5 “Sia statuito che oltre una semplice arma con il solo nome e cognome del rettor et in uno loco in palazzo, non si possa metter in alcun altro luogo publico altra pittura, moto, lettere, o, altro in commemoratione di rettor alcuno”. (CAPRIN, II, 118). !6 CAPRIN, II, 117-123. Si ricorderà che, visto il mancato rispetto delle disposizioni, il Maggior Consiglio assegnò, ancora nel 1693, ad Antonio Cappello, podestà e capitano di Capodistria, i fondi necessari “per cancellare le inscrittioni erette a Publici rappresentanti” in quella città e nel territorio! !? In verità, i due presunti stemmi dei Gastaldi rovignesi, sono ovviamente antecedenti, ma l’incertezza che caratterizza quest’attribuzione, impone prudenza di giudizio ‘cronologico’. 18 Il reperto, sconosciuto al Petronio (!?), adornava il muro di destra (!) della Porta S. Damiano. !9 Manufatto minuscolo ma elegante, in oro ed argento, inciso in una delle placchette esalobate del piede del ‘Reliquiario di S. Eufemia’, custodito nella sacrestia dell’insigne Collegiata della città; si riconduce al dogado di Michele Steno (vedi). 20 “Questo stemma del Comune di Rovigno era sopra la casa Comunale civico N° 1.” (PETRO- NIO, “Repertorio”, 14). G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 251 quanto riguarda i casati rappresentati — che sono 28 — sia per l’arco temporale — che va dal 1331 al 1913 (stemmi cittadini gemelli sull’edificio del Liceo), sia infine per la fattura particolare di non pochi di questi rilievi, alcuni dei quali sono opera egregia di tagliapietre non solo locali (molto apprezzati!), ma anche veneziani, almeno per quanto riguarda taluni casati più in vista della Repubblica Veneta. A questo punto è doveroso e fondamentale “rilevare come purtroppo pochi sono gli stemmari e gli armoriali esistenti, ed in questi i disegni dello stemma della medesima famiglia (cfr. qui i Soranzo — vedi) spesso sono dissimili?!, di modo che non sempre si è in grado di dire quali figure, partizioni e smalti siano esatti”. È ovvio che siffatte diversità sono attribui- bili sia all’imprecisione e, molto più di frequente, all’incompetenza degli artisti — scultori o pittori — chiamati a realizzare il blasone. Per tale motivo è stato necessario in questa ricerca e nella conseguente individuazione dello stemma, riportare blasonati anche quegli che si discostano in modo più o meno sostanziale dagli “autentici”, confortati da elementi araldici probanti. *kok Il corpus araldico pubblico di Rovigno si trova esposto, com'è stato già ricordato, in numerosi segmenti del più vetusto conglomerato urbano, con una considerevole presenza all’interno ed all’esterno del Palazzo munici- pale; circa il 50% degli stemmi (qui compresi i leoni marciani), si trova ancor sempre esposto nelle sedi originarie, su facciate e nell’interno del Pretorio, porte cittadine, vere puteali, pilastri e interni di edifici, preser- vando in tal modo dall’opera demolitrice dell’uomo questa determinante e quindi non trascurabile pagina dell’illustre passato della città. Pertanto, la galleria di araldica pubblica rovignese risulta essere costi- tuita dalle seguenti categorie: 2! Infatti, ogniqualvolta si parla di nobiltà veneziana (e quindi anche “autoctona” istriana d’epoca veneta!), bisogna ricordare che il cognome non copriva un’unità familiare compatta, essendo in effetti la casada patrizia veneziana, e veneta in genere, simile alla gens romana, cioè un insieme di famiglie che avevano in comune il cognome e l’origine, spesso nemmeno questa, almeno in forma documentabile, come lo stemma, non sempre identico per tutti i rami del casato. “(...) Casa Corner (vedi), ramificatissima, aveva almeno tre rami, quelli di S. Polo, della ca’ Granda a S. Maurizio, e della Regina, dotati di grandi sostanze, e tutta una gamma di linee, qualcuna di mediocri fortune, qualcuna povera, qualcuna addirittura barnabotta. Lo stesso succedeva per altre grandi famiglie. Ogni ramo si distingueva, nelle casade veneziane, con l’indicazione della contrada in cui era domiciliato, e tra tutti c’era soltanto una vaga solidarietà del nome”. (ZORZI, 445). 252 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 a) stemmi gentilizi di podestà 52 esemplari, b) stemmi comunali? 14 esemplari, e) simboli e insegne di associazioni o confraternite 6 esemplari, f) leoni marciani 9 esemplari, g) stemmi non attribuiti 7 esemplari. In totale i blasoni rappresentati a ricerca e documentazione ultimate sono ottantotto?, mentre i manufatti oggi non reperibili ammontano a 16 unità. Questa collezione araldica è senza dubbio, come già indicato, non solo cospicua”, ma anche una delle più variegate, e quindi, una delle più interessanti dell’area istriana grazie alla “complessità” e pluralità degli apporti culturali e sociali in essa presenti, ciò che testimonia della notevole considerazione politico-militare e amministrativa di cui Rovigno godesse in ambito veneto (specie nei secoli XVII-XVIII)?. Tutti gli stemmi sono nella loro forma di estrazione veneta, con scudi di tipo gotico per i primi secoli e del tipo detto “torneario”, di forma rettangolare sagomata con la tacca nell’angolo superiore destro (per inserirvi la lancia durante la batta- glia!); nel secolo XV, alla fine del Quattrocento e nel corso del Cinquecen- to, entrarono in uso quelli a “testa di cavallo” (o “testa di bue”), ben presto surclassati da quelli che presero il nome di “tipo veneto”, di forma quasi rettangolare con in testa due piccoli ricci e nel mezzo tre fogliette stilizzate che con la loro equilibrata ed insuperata eleganza si imposero, all’epoca, su tutti gli altri; alla fine del Cinquecento e nel corso del XVII secolo prevalsero, infine, gli “stemmi accartocciati”??. Ovviamente, in questi ar- 22 Non sono stati inseriti in questa ricerca due emblemi civici: 1) Lo stemma impresso sul frontespizio dello “Statuto Municipale di Rovigno, Datto alla Stampa col Publico beneplacito sotto il glorioso reggimento dell’Illustrissimo, et Eccellentissimo Signor Giovanni Premarin (vedi) Podestà della medesima Città l’anno MDCCXX” (Venezia, Lovisa, 1720) - che presenta una croce piana ed un riccamente ornato scudo; 2) Lo stemma comunale attualmente in uso, così blasonato: “d’argento alla croce di rosso; lo scudo timbrato da una corona di città o marchionale è contornato da due rami d’olivo e di quercia, decussati alle estremità e legati da un nastro con i colori croati”. (ALDRIGHETTI, 342). 23 Sei blasoni sono di attribuzione sconosciuta, uno dei quali presenta lo scudo praticamente ‘vuoto’. 24 Prendendo in considerazione la presente raccolta e quella già ricordata degli stemmi di famiglie cittadinesche locali, la galleria rubinense conta ben 145 manufatti. 25 “La città, immune dalla malaria imperversante sulla costa istriana, e raramente molestata dalla peste, dotata di una popolazione numerosa, fiera e intraprendete, conservò una notevole floridezza. ‘Porto e scudo della Dominante” veniva definita”. (PARENTIN, 103) 26 Mano a mano che lo scudo andò in disuso quale parte dell’armamento militare, esso assunse le forme più svariate; nell’età barocca per l’estro e la fantasia di scultori e pittori gli scudi evolsero nella G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 253 redi lapidei troviamo “rappresentato tutto il vario armamento dell’araldi- ca italiana in genere e di quella veneta in particolare. Predominano nelle figure gli animali e non pochi sono gli stemmi parlanti nei quali la figura suggerisce o risponde in tutto o in parte al nome della casata. Con questa ricerca e la conseguente pubblicazione dei risultati, abbia- mo inteso offrire un modesto ma articolato contributo alla recente presa di coscienza della civiltà di casa nostra che ha fatto proprio l’assunto che il retaggio storico ed il patrimonio culturale ed artistico hanno bisogno di una globale salvaguardia, al di là di ogni “selezione” o apriorismo, e possibilmente in loco; gli stemmi, come ogni altro reperto archeologico, documentale e artistico, sono così diventati oggetto della tutela “legale” pubblica, contro le alienazioni prodotte da sconvolgimenti politici che si sono susseguiti lungo un arco di tempo di duecent’anni, durante i quali si sono avvicendate almeno sei amministrazioni statali e due rovinosissime guerre mondiali che hanno preso di mira spesso e volentieri il patrimonio artistico, storico e culturale della città. La scomparsa (o la mutilazione) qui documentata di una parte del fondo araldico cittadino, anche in tempi recenti, può costituire sufficiente indicazione di quella temperie e dei suoi deleteri risultati. Basti pensare che rispetto al Natorre?” - Angelini’, i mancanti sono ben 7 [Dolfin, Lombardo, Pisani (?), sconosciuto, Stemma civico, Zen, Zorzi,], assenze del resto confermate anche da D. Petronio? e Pauletich-Radossi. La maggior parte dell’attribuzione delle imprese è stata resa possibile grazie alla ricca documentazione araldica di cui l’autore ha potuto dispor- re nella biblioteca del Centro di ricerche storiche di Rovigno*; importante è stato l’apporto degli studiosi che operano nell’ambito del Centro rovi- gnese. I disegni, meticolosi e puntuali nei loro particolari, sono realizza- forma, con l’aggiunta di elmi, cornici, pennacchi, o motivi ornamentali quali teste di leoni, conchiglie, rami di palma, foglie di acanto ed altri ancora; in quell’epoca prese impulso l’uso di porre ai due lati dello scudo degli elementi con funzione di sostegno come animali, figure umane o chimeriche (si vedano in particolare i due stemmi dogali del grande affresco nella Sala del Consiglio, nel Pretoreo). 2? La famiglia è proveniente “da Nauplia di Romania in Grecia”. (BONIFACIO, 10). 28 In RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 409. 29 Per le origini di questa famiglia, cfr.“ BONIFACIO, 9, 39 e 57. 30 La ricca e spesso particolareggiata ‘storia locale”, relativa all’opera dei singoli rettori rovignesi, è stata suffragata dallo spoglio delle numerose pagine del saggio di ANTONIO ANGELINI fu Stefano Podestà Veneti di Rovigno, pubblicato nella annate V-VII (1850-1852) del periodico L'ISTRIA di P. Kandler. 254 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 zione accurata dell’architetto rovignese Bruno Poropat?! (81 pezzi), atten- to cultore del patrimonio architettonico regionale. A tutti costoro i sensi della mia più profonda riconoscenza. 3! Taluni disegni sono stati ripresi dai ‘blasonari’ citati, ovvero: dal manoscritto NATORRE 12 riproduzioni, da D. PETRONIO 3, da altre fonti 6 raffigurazioni. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 255 = ) SEO ISTE ;) BAFFO Esemplare piuttosto raro dello stemma dei Baffo, scolpito in bassorilievo staccia- to su lastra calcarea, certamente appartenuto per le sue ‘caratteristiche scultoreo-aral- diche’ al podestà veneto Mattio Baffo [1492-1493 (?)], è oggi murato sulla facciata del palazzo pretorio. Di provenienza ignota (secondo BUDICIN, 207, “dalla Torre del Ponte”), l'oggetto, che risulta sconosciuto al Natorre e al Petronio (?!), è in buone condizioni di conservazione, nonostante parzialmente monco in capo. Esattamente un secolo più tardi il casato darà ancora un rettore a Rovigno, Francesco Baffo (1592- 1593), con arma alias, più sotto qui trattata. “Questi vennero da Mestrina, furono Tribuni antichi, et erano molto savij, ma tosto si scorucciavano, e spesso si pacificava- no, questi fecero edificar la Chiesa di S. Secondo, tutta del suo aver”. (ANONIMO, “Cronaca”, 7). Infatti, si sa che “ i Baffo vennero da Parma a Mestre, e poscia a Venezia nell’827. Edificarono nel 1034 la chiesa, ora distrutta, di S. Secondo in isola, e nel 1222 quella di S. Maria Maddalena, nella qual contrada vuolsi che possedessero un castello, detto Castel Baffo. Rimasti nel 1297 del Consiglio, produssero uomini distinti. Una donna di questa casa, fatta col padre prigioniera dei Turchi, divenne moglie di Amurat III, e nel 1568 madre di Maometto III. Esercitò costei un lungo dominio sopra Amurat, e conservollo sopra Maometto, né lo perdette che sotto Acmet, il quale la relegò nel vecchio serraglio. [Nota: Non una Baffo, ma una Venier fu la ‘Sultana Veneziana’. Si chiamava Cecilia ed era la figlia di Niccolò e di Violante Baffo (di qui l’errore!). Rapita nel 1537, quando aveva dodici anni, dall'ammiraglio turco Kaireddin Barbarossa, fu destinata all’harem del sultano Selim, del quale divenne la favorita col nome di Nur Banu (donna di splendore). Fu la madre del 256 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 sultano Amurat III, che ebbe per lei grande venerazione. Morì nel 1583]. Un Lodovico Baffo, valoroso Sopracomito di galera, operò nel 1650 azioni ardite contro i Turchi, si diportò bene nella conquista delle fortezze di S. Todero e Turlulù nel regno di Candia, nel 1656 trovossi alla battaglia dei Dardanelli, e nel 1657, come direttore della galeazza capitana Morosina, intervenne alla vittoria sopra le galere barbaresche a Scio. Di lui congiunto fu quel Giorgio, nato nel 1694, e morto nel 1768, che va celebre fra noi per le sue poesie in dialetto veneziano. Con Giorgio andò estinta la famiglia”. (TASSINI, 47 e 723). Nel 1945 il censimento della popolazione istriana rilevò la presenza di un cospicuo numero di famiglie Baf (?), a Caldir, Parenzo, Pola, Villa di Rovigno, Gradigne, Pedena, Previs, Vermo. Cfr. NATORRE, tav. XXIX. D, f. 48; ANGELINI, VI, 52; PAULETICH- RADOSSI, 138. Scudo a testa di cavallo, entro comparto a ruota con bordura liscia. Arma: partito d’oro e d’azzurro con tre bande dei colori opposti. Dimensioni: (diametro) 50 cm. BAFFO Arme gentilizia appartenuta verosimilmente al podestà veneto Francesco: Baffo (1592-1593) scolpita in bassorilievo sulla parte superiore del pilo un tempo esistente G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 257 nel mezzo della ‘Piazza della Riva’, più sotto un’ampia cartella epigrafa (iscrizione sconosciuta); infatti, “su un ristretto selciato cinquecentesco, s’alzavano gli stendardi pubblici: un pilo centrale (con stemma Baffo) con antenna, abbattuto nel 1900; due colonne laterali sormontate l’una dalla statua di S. Eufemia (sostituita in epoca francese o austriaca da un S. Giorgio), l’altra dal leone veneto a tutto tondo; nell’Ot- tocento le due sculture furono sostituite da fanali a petrolio, mentre nel 1904 al posto delle colonne vennero messi due candelabri con fanali a gas”. (BUDICIN, 205). Con l'abbattimento del pilo centrale, è andato distrutto anche lo stemma che è pertanto oggi irreperibile (il disegno sta in NATORRE, tavv. XIII e XIII A, ff. 17-18). Scrive l’ANGELINI (VII, 84) in proposito: “Stemma con aquila a due teste è pure sopra la colonna media dello Stendardo in questa Piazza, ma l’aquila taglia le fascie trasversali dello scudo. Ciò non pertanto non si andrebbe forse lungi dal vero fissando l’erezione di quello sotto il reggimento di questo Podestà Francesco Baffo, che certamente poneva il suo stemma e all’una [erroneamente la chiesetta di S. Croce, n.d.a.] e all’altro [lo stendardo, nd.a.], come usavano i veneti rappresentanti di porvi il proprio stemma su quanto veniva costruito di ragion comunale”. Durante il reggimento di Francesco B., “onde togliere la corruttela introdotta nel Consiglio, [egli] decretò li 6 settembre 1592, che li debitori al Fondaco per danaro avuto sopra frumento, e per qualunque altro modo non potessero ballottare il prezzo del frumento medesimo, né i padri, né i figliuoli di essi debitori. [[noltre a seguito della sua attività] “fu arrendato ai 16 marzo 1593 il dazio dei due Torchi comunali delle olive, denominati ‘Vecchio’ e ‘Nuovo’, colle condizioni che il ‘Dazier’ non avesse del ‘nocchio’ (sansa) utile di sorta alcuna, ma che quanto sopravanzasse al bisogno della caldaja, ed a quel che ognuno era in libertà di prendere per suo uso, e non per vendere, passasse a benefizio del comune. In seguito questo avanzo per parte presa nel Consiglio dei 22 gennaio 1595 erasi devoluto a benefizio di S. Eufemia per la provvista dei paramenti. Non so poi né quando, né per qual disposizione il ‘nocchio’ abbia passato tutto a vantaggio del proprietario, com'è d’uso, né come e quando a benefizio della chiesa sia stato al ‘nocchio’ surrogato l’olio della morca che raccogliesi in apposite fosse denominate ‘Ciocche’’. (ANGELINI, V, 223, 288). Comunque, “fanno le memorie più antiche questa Casa originaria di Parma, ed asseriscono essere ella venuta habitar prima sulla spiaggia vicina, cioè a Mestre, indi a Venetia l’anno 872. (...) Si trova compresa nel numero delle Patrizie, che restarono del Maggior Consiglio nell’anno 1297, ed ha dato alla Patria varij Senatori, e Ministri di utile talento. E singolare la prigionia ò schiavitù di ....... Baffo, che passando al reggimento di Corfù, e sorpreso da Corsari Turchi, restò con la figlia d’isquisita bellezza nelle catene degli Ottomani, onde con ascendente di fortuna improvvisa, sottratta la figlia, e tradotta in seraglio divenne Consorte d’Amurath III e madre d’Amurath VI, e fu l’arbitra quasi sovrana de’ loro Regni (...)”. (FRESCHOT, 237-238). I Baffo si trovarono a Musestre o nella vicina Mestre nella seconda metà del secolo IX; di là capitarono a Venezia dove nel 1034 costruirono la chiesa di S. Secondo, nel 1222 l’altra di S. Maria Maddalena sul luogo dove anticamente esisteva il castello dei Baffo circondato da acque (i Baffo di Chioggia, evidentemente originari dal territorio padovano, vivevano contemporaneamente al ramo dei Baffo di Venezia ed erano ascritti nel Consiglio riconosciuto nobile delle loro città, rimanendovi fino alla caduta della Serenissima). Scrive il DOLCETTI (V, 8-16) che “Giovanni Baffo della Maddalena notaio nel 1299 sia lo stesso individuo Zuane rimasto del Maggior 258 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovignod’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 Consiglio nel 1297. Filippo, figlio del Patrizio Zuane, fu padre di Andrea, Capitano, nel 1326, della Riviera d'Istria; (...) [Zorzi, figlio di] Zuane detto Turco, prese parte nel 1310 alla congiura di Baiamonte Tiepolo. (...) Da Lorenzo, fratello di Donado Baffo, discende Marco a cui venne nel 1485 tagliata una mano e la testa per avere contraffatte delle lettere. Altri di questo ramo, estinto verso il seicento, dimorarono per motivi diversi ad Arbe, a Capodistria, a Cefalonia, a Zara. I Baffo furono anche ascritti nella nobiltà di Traù. (...)”. Cfr. CORONELLI (due varianti), 30; PETRONIO, “65 Stem- mi”, f. 3; AMIGONI, a. 1942, 134 [“1297, estinta 1768: (...) In seguito aggiunsero in cuore uno scudetto ovale di argento carico di un’aquila di nero, armata e coronata d’oro”]; MORANDO, 227-228. Scudo accartocciato. Arma: “porta partito d’oro, e d’azurro con bande de colori opposti, in cuore un scudo ovato d’argento con un’Aquila [bicipite (?)] negra, membrata, e coronata d’oro”. (FRESCHOT, 237). Dimensioni: (presumibili) a) cartella epigrafa: 15 x 30 cm.; b) stemma: 15 x 20 cm. Sa R Piede, "ITS ite L BALBI Stemma gentilizio epigrafo su vera di cisterna in pietra d’Istria scolpito in bassorilievo, appartenuto al podestà Cesare Balbi (1619-1620), come confermato dalle iniziali “ C // B” incise ai due lati e con la datazione in punta “1619”; il manufatto, unitamente a due coperchi di sarcofago, si trova quasi certamente in sito originario, in G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 259 località “Pulàri” nel circondario di Rovigno, al sommo di un pozzo artesiano di epoca romana (?), presumibilmente ‘riattivato’ grazie all’iniziativa del rettore veneto; è in precario stato di conservazione per azione corrosiva eolica e presenza di licheni. Non sarà inutile qui ricordare che il luogo esprime nel toponimo (latino ‘Pullariae’) la sua natura di ‘fonte’ di acque. Nell’/stria (V, 289) ANGELINI registra che nel “1619. Cesare Balbi, onde togliere l’abuso potabilissimo dei Fondacchieri, che non osservava- no alcun ordine nel dispensar le ricevute farine, confondendo li ‘colti’ per modo, che ve n’erano più a mano, e ciò per non render conto di ‘colto’ in ‘colto’, convertendo quel danaro in uso particolare proibiva sotto pene severe con terminazione 22 ottobre di non più confondere i ‘colti’, dovendo proceder questi con ordine in guisa, che finitone uno fosse portato subito il danaro nello scrigno sotto chiave. Per impedire qualunque pregiudizio, che dal maneggio del danaro di un anno poteva derivare al comune, il general da mar Francesco Erizzo decretava li 27 nov., che l’elezione del Fondacchiere fosse per sei mesi solamente, spirati i quali cpn rendi-conto, non potess’egli per modo alcuno ritornar nel detto off.0 prima d’un anno”. Le prime notizie sicure di quest’an- tichissima famiglia veneta ci indicano che essa “fu compresa fra le patrizie del 1297. Tranne il Dogato, coprì le più elevate magistrature e le più alte cariche militari. I due fratelli Nicolò e Giovanni ebbero nel 1203 dal re di Ungheria ampio privilegio. Almorò, senatore, nel 1350 ebbe il comando supremo delle navi operanti nell’Istria. Bernardo, di Nicolò ed il nipote Nicolò nel 1453 combattendo valorosamente contro i Turchi rimasero prigionieri a Costantinopoli. Pietro (n. 1440) coprì importanti cariche militari e ricuperò Padova caduta nelle mani dell’imperatore Massimiliano; nel 1512 andò ambasciatore al Sultano di Egitto e nel 1513 a papa Leone X. Dotto ecclesiastico fu Marco, figlio di Giovanni, che divenne arcivescovo di Corfù. Luigi (m. 1580) fu studiosissimo e morendo lasciò una ricca libreria. Nel principio del sec. XIX Rizzardo I ebbe per moglie Alba Corner, dama della Croce stellata e di Palazzo della impera- trice d'Austria. (...)”. (SPRETI, I, 476-478). I Balbi sono noti a Rovigno anche quale famiglia cittadina, con il capostipite Balbi mistro Alessandro, “taiapiera da Venezia, 1682” (BENUSSI, Storia, 346). Cfr. ANONIMO, “Armi”, 5, 94; BAXA I (2 varianti); BENEDETTI, Contributo, 319 [“di rosso, alla fascia mezza d’oro(a destra) e mezza d’azzurro (a sinistra)”];, BENEDETTI, VIII, 5 (“Filippo conte di Pola, 1655 v. lapide nell’interno della chiesa di S. Francesco a Pola”); AMIGONI, a. 1942, 135; PAULE- TICH-RADOSSI, 79; AA. VV., Famiglie, 33 ["N.H. N.D. Patrizio veneto (m.f.)”]. Scudo accartocciato (?). Arma: di rosso alla fascia partita d’oro e d’azzurro cucito. Dimensioni: a) vera di pozzo (leggermente ovale) 60 x 130 x 140 cm.; b) stemma: 19 x 24 cm. 260) G. RADOSSI, L’araldicapubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p.245-394 BALBI Blasone gentilizio appartenuto al rettore veneto Danie/ Balbi (1679-1680), scol- pito in pietra istriana “sotto l’iscrizione sul muro del coro di S. Eufemia nel Duomo” (PETRONIO, “Repertorio”, 10 e “65 Stemmi”, 8), ora nel medesimo sito, in ottimo stato di conservazione. Infatti “Santa Eufemia di Calcedonia, ora Scuteri nell’ Asia, poco distante dal Bosforo, e di faccia a Costantinopoli, venne a Rovigno a gala del mare l’anno 800, giusta la seguente Iscrizione, ch’è posta nella parrocchiale, e che si legge nel coro di detta Santa, sul muro, in pietra d’Istria, con cornice, sotto la reggenza di Daniel Balbi, l’anno 1680: D. EUPHEMIAE TUMULUS EX CHALCEDONIA ANNO DCCC. IUL. XIII // AD HUIUS MONTIS CALCEM A PIA MARIS PRO- CELLA DUCTUS // A MONTE INTIME RECEPTUS GEMINA JUVENCULA AD APICEM ELATUS // UNDA SAXEA MOLLE SAXU. JUMENTIS SUAVE JUGU. ONUS LEVE // RUBINENSIUM VERE GEMMA TUTELA FELICITAS NUMEN // HIC ADORATUR. / DANIEL BALBI PRAETOR POSUIT // MDCLXXX”. (KANDLER, Istria, IV, 153). [Questa la versione ripresa dal Codice membranaceo del secolo XIII-XIV: “In questa Arca evvi il sepolcro di S. Eufemia, arrivata il giorno tredicesimo di Luglio del secolo ottavo. Da Calcedonia fu trasportata dalla pietosa onda alle falde di questo monte. Si aprì il Monte per riceverla, da due giovenche fu condotta all'apice. L’onda si rese dura, e sassosa, il sasso tenero, e molle. Ai giumenti riuscì un giogo soave, un peso leggiero. Verace gemma, tutela, felicità, Nume del Popolo di Rovigno. Qui si adora. Daniel Balbi -Pretore. MDCLXXX”]. Ecco come lo studioso rovignese Antonio Angelini illustrava l’operato di questo podestà nel 1850- 52, nell’ISTRIA kandleriana (a. V, 294; a. VI, 95-96 ed a. VII, 7): “ [Durante la sua reggenza] furono approvate dal Senato veneto con decreto 6 luglio le due parti del G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 261 consiglio, l’una riguardante la fabbrica d’una pubblica cisterna, l’altra la ricostruzione del molo. (...) In quanto poi alla cisterna, credo non se ne facesse più motto fino all’epoca delgoverno franco-italico. Illago ch'era circondato di mura, posto al limitare della città, voleasi ridurre a pubblica cisterna. Si demolirono le mura, si eressero tre muri interni, il comune vi spese 108.000 franchi, e l’opera rimase imperfetta. (...) Nel giorno 10 ottobre moriva il medico Iseppo Sponza, ricordevole per aver servito lungamente la patria con grande carità. Il popolo mediante il consiglio decretatagli agli 8 settembre 1682 una iscrizione che fu posta nel tempio a perpetua conoscenza. (...) Sotto questo Podestà fu eretto il nuovo Granajo, ossia Fondaco in ‘Riva-Grande”, ora ‘la Piazza’, nel qual sito in presente è la provvisoria Corte di Giustizia, e fino ancora all’epoca 1814 il ‘Monte di Pietà’, e prima del Fondaco era luogo vacuo, che serviva per ‘berlina di animali’. L’erezione di questo nuovo fondaco rilevasi dalla seguente Iscrizione in pietra, posta al di sopra dell'Arco, rifatto, come accennai al millesimo 1678-79, ch'è quello tra l'odierna Corte di Giustizia, ed il Palazzo pretorio, ora ‘Capitanato Distrettuale» HYERONIMUS PISANI // OPT. PROVINCIAE PRAESES. // DANIEL BALBI // INTEGERRIMUS RECTOR // FAUSTA PARE- LIA // NOVUM HORREU. // PORTUM INCONCUSSU. // BONA OMNIA // PORTEDUNT. // MDCLXXX. Prima della fabbrica di questo nuovo Fondaco, ve n’era certamente qualche altro, come inoltre consta da anteriori Ordinanze in materia di Fondachi e che rimontano al riportato 1489. Siccome poi i Fondachi qui durarono fino alla caduta della Repubblica Veneta, così si ha per indubbia memoria, che ve n’erano tre, governati però da una sola Amministrazione sotto il nome di ‘Collegio delle Biave?, e i Collegianti chiamavansi ‘Presidenti’, ed erano dodici, come rilevatasi da una elezione del 1702, sei dei cittadini, e sei del popolo. Quando poi nel 1772 fu istituito in Rovigno il ‘Monte di Pietà’, questo fu collocato nel nuovo Fondaco in ‘Riva grande’, e fu surrogato altro locale per il Fondaco suddetto, forse quello in ‘Piazza grande’, ora deposito dell’armi della sospesa Guardia nazionale, mentre è del pari di ricordanza, che vi era Fondaco, oltre gli altri due in S. Damiano, uno dov'è ora il ‘Casino civico’, l’altro la ‘Caserma’. Di questa, però, il pianterreno serviva di carcere, nè fu fabbricato il secondo piano se non quando quell’edifizio fu convertito in Caserma all’epoca che gli Austriaci occuparono l’Istria subito dopo la caduta di Venezia. Del resto la predetta Iscrizione non poteva essere collocata nel 1680 sopra quell’Arco, se si considera che colà sarebbe stata posta fuori del proprio sito, e che l’ornato grave della medesima non è gran fatto consono collo stile svelto dell'Arco stesso. Io ritengo perciò, che l’iscrizione fosse nel Fondaco, e precisamente nel muro sopra la scala interna e nel sito medesimo dove posteriormente in lettere d’oro fu posta l’altra Iscrizione, che ricordava (e la vidi anch’io) che quell’edifizio, convertito in Monte di Pietà’, era prima Fondaco, e che la suddetta Iscrizione venisse in allora collocata sopra l'Arco, come luogo prossimo, anzi contiguo a quell’edifizio, non sapendo forse dove meglio riponerla ad indicarne l’origine. (...) Fu questo Podestà, che accomodò eziandio la Casa comunale al civ.o n.0 l in S. Damiano, i cui piani superiori sono ora uniti alla suddetta Corte di Giustizia, come dalla seguente iscrizione posta nel suo prospetto di allora di già intonacato: DANIEL HAC BALBUS FUERAT [REX77]// CUM PRAETOR IN URBE QUAE DOMUS // APTA NIHIL CREVIT IN APTA SATIS [1752 (?)]. A questa Casa era unita la Sala del vecchio Consiglio municipale, che partiva dal Palazzo pretorio mediante sottoportico, chiuso verso Levante da porta broccata di ferro, nella quale 262 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 tenne pubblica udienza l’anno 1846 l'Imperatore d’Austria Francesco I, e demolito, e quindi dimezzata la Sala stessa alcun tempo prima del 1828, sotto il Podestà Bernardo Grego”. Cfr. NATORRE, Tavv. XIV.A.., f. 20 e XLIX.M,, f. 85} PETRONIO, “Re- pertorio”, 10 e “65 Stemmi”, 8; BAXA, Invito, 8; PAULETICH-RADOSSI, 75; MORANDO, nri 239-245 (otto alias); BUDICIN, “Itinerari”, 206-207. Scudo ovale, variamente accartocciato (?), cimato di un cinquefoglie (?). Arma: di rosso (?) al leone d’oro rampante e linguato. [“D’oro e di rosso, al leone d’oro rampante e attraversante la partitura”. BENEDETTI, /V, 1)]. Dimensioni: a ) lapide epigrafa: 116-150 cm.;b) stemma: 16x22 cm. BALBI Terzo esemplare dell’arme dei Balbi rettori veneti di Rovigno, oggi esposto nell’atrio del palazzo municipale (p.zza Matteotti, 1), in frammento (cca il 60% dell’intero reperto!); l’oggetto che era “conservato nel cortile della chiesetta San Martino” (PETRONIO, “65 Stemmi”, 13 e “Repertorio”, tav. 63) sino al 1935 (?), proveniente da sito sconosciuto, è in discreto stato di conservazione. Il NATORRE (120, Fig. E) lo riproduce integro, come del resto lo è anche nelle due versioni del Petronio, per cui resta inspiegato il motivo ed il tempo del suo danneggiamento. “E° tradizione costante in tutte le memorie più antiche essere questa Famiglia discesa dagl’Aurelii, Balbini dell'Antica Roma (...). Venne da Roma in Pavia, ove partorì il B. Bernardo, Vescovo di quella Città, indi a Milano, poi a Ravenna trasferita, in fine si portò in Aquileja, e desolata quella, come tutte le altre Città dall’incursione de’ Barbari, approdò in Venetia insieme con quelli della medesima ch’eran rimasti in G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 263 Ravenna, e che riuniti in questa Regia, formarono una Casa doppia benché di comune ascendenza, e diedero principio alla diversità dell’Arme. (...) Rimase e l’una, e l’altra Casa, nell’ordine Patrizio nell’anno 1297 quando con nuova disposizione di governo restò serrato il Consiglio à varie Famiglie, che per l’avanti vi avevano ingresso (...). Almorò Senator illustre frà molti, Proveditor Generale in Istria nell’anno 1350, à prezzo di rilevanti servigi prestati nell’occasione delli emergenti tumulti di quella Provincia, comprò gli Elogi della fama, che corona hoggi il suo nome, et un Pietro, benemerito Cavaliere portato il 1510 da’ suffragi comuni al Generalato del mare, fece conoscere che l’ampiezza di questo spazioso elemento non era teatro troppo grande ad una virtù. (...)”. (FRESCHOT, 255-256). Il casato ha dato a Rovigno 19 podestà (ben 4 in ‘continuità’ di tempo), compreso anche l’ultimo ‘reggitore’: Zuane Balbi (1593-1595 ?), Giacomo B. (1615-1616), Cesare B. (1619-1620), Bernardo B. q. Z. (1627-1628), Vincenzo B. q. A. (1628-1629), Francesco B. q. Bernardo (1629-1631 ?), Zuane Francesco B. q. Polo (1631-1632), Pier Pasquale B. (1634-1636 ?), Paolo B. (1645-1646), Benetto B. (1656-1658 ?), Lucio B. (1659-1660), Daniel B. (1679-1681 ?), Stefano B. (1746-1748 ?), Marco Antonio B. ( 1749-1750), Daniele B. (1752-1753), Stefano B. [II volta (?), (1754-56 ?)], Ferigo B. (1768-1769), Francesco Almorò B. (1774-1776 9) e Lorenzo Balbi [1796-1797; “(...) l’ex-podestà fu licenziato, e gli si approntò, a spese della Comunità, apposita barca, sulla quale nelle stessa sera (/2 giugno 1797) partì per Venezia” - BENUSSI, Storia, 200]; la vicina Dignano ne ebbe addirittura 24! Il podestà Giovanni Paolo Balbi, avendo nel 1645 la “carica di Capodi- stria in visita nella revisione dei libri del fondaco e del comune riconosciuto correr alcuni abusi ed inconvenienti nella cassa del fondaco medesimo, che veniva tenuta nelle case dei particolari, ordinava il 23 maggio, che la detta cassa per l'avvenire fosse riposta nel palazzo pretorio nella camera delle udienze, con tre chiavi, da tenersi una dal podestà, l’altra da un giudice, e la terza dal fondacchiere. Onde riparare agl’inconvenienti che potevano derivare dall’uso che avevano i nota] di ritenere presso di loro lungamente, ed eziandio dopo la morte dei testatori le disposizioni di ultima volontà, la carica di Capodistria comandava con terminazione 24 maggio che i nota] per l'avvenire dovessero riponete i testamenti immediatamente nella cancellaria del comune in una cassa apposita, e ciò alla presenza di due giudici, cadaun dei quali tenesse una chiave, e la terza il cancelliere, in pena di contraffacenti della privazione del loro ministero, e di essere inoltre processati criminalmente. Per riparare a varii disordini ed inconvenienti nel maneggio del danaro e nell’esercizio di altri interessi di queste scuole e confraternite, ordinava il Podestà con terminazione 11 novembre, che i Gastaldi, finita la carica, dovessero render conto della loro amministrazione ai successori in presenza di esso lui: che annualmente si procedesse alla elezione dei medesimi, i quali non potessero durare in carica che un anno, che alcuno non potesse essere ballottato prima dell’età di venti anni, e che dal ballottare fossero esclusi quei che non fossero giunti ai sedici anni, sotto comminatoria ai contraffacenti di prestabilite pene pecuniarie”. Inoltre, “avendo scoperto la med.ma Carica di Capodistria che circa li danari degli Aggiunti, spettanti al pubblico, e riscossi dai Podestà, non era tenuta buona regola nelle raspe, emanava nel giorno 23 maggio 1645 la Terminazione con la quale i Camerlenghi dei Comuni della Provincia doveva- no in seguito riscuoterli unitamente a quelli delle condanne, con annotazioni nelle raspe dell’incasso e del pagamento aglistessi Aggiunti, e contarli di tre mesi in tre mesi in mano dei Podestà verso ricevuta”. 264 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 Infine, si informa sempre il medesimo rettore rovignese Giovanni Paolo Balbi che “per le occorrenze di questa Piazza con Ducale Franc. Erizzo 11 agosto (1645) venivano consegnate armi e provvigioni sopra istanza di questo Comune al Nunzio Vendramin Sponza; cioè moschetti 200, polvere migliaja due, piombo migliaja due, stoppalibbre mille, due falconetti, e due petriere”. (ANGELINI, V, 290 e VII 64, 73). Cfr. BAXA I; PAULETICH-RADOSSI, 76-77; CIGUI. Corpo, 41. Scudo ovale, riccamente ornato ai fianchi di festoni ed in punta con testa femminile , cimato di una testa leonina (umana ?) tra due ampie volute. Arma: di rosso (?) al leone d’oro rampante e linguato. [Alias: “In campo d’oro d’una Dolce negra con lingua, ed artigli rossi; alcuni ms la fanno Leonessa (!), il Cimiere un Leone nascente (?)”. (FRESCHOT, 255)]. Dimensioni: (frammento) 45 x 45 cm. BALBI Splendido armeggio gentilizio scolpito a tutto tondo in pietra istriana e collocato sulla parte sinistra (altro esemplare quasi identico sulla destra, vedi) della trabeazione del Porton della Pescheria vecchia (sopra l’architrave), ed appartenuto al podestà Francesco Almorò Balbi (1774-1776); in sito originale ed in ottimo stato di conserva- zione. Quando, nel 1678-79 il rettore Bernardo Barbaro (vedi) rifaceva il Portone della Pescheria vecchia, lo trasformò “in un elegante arco barocco bugnato con scolpite a tutto tondo in chiave di volta una figura ‘turchesca’ (dalla parte esterna) ed una ‘veneziana’ (dalla parte interna) che ci riconducono, verosimilmente, alle vicende della famiglia Barbaro che tanta importanza ebbe nella storia veneziana dei secoli G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 265 XVI-XVII. Sopra l’architrave due vasi affiancavano il leone marciano (...). Un secolo più tardi venne rialzata ed abbellita la trabeazione dell’arco: il leone veneto, affiancato ora da due volute, venne posto nel campo mediano del fregio, sormontato da un timpano troncato portante un vaso, mentre sopra l’architrave furono collocati due stemmi del Podestà Francesco Almorò Balbi e, tra essi, la lapide epigrafica che fino allora si trovava sulla facciata del Granaio e ne ricordava la sua erezione al tempo del Capitano e Podestà di Capodistria Geronimo Pisani e del Podestà di Rovigno Daniele Balbi (vedi). (...) Abbellendo l’arco Francesco Almorò Balbi volle dare benemerito a Daniele (podestà nel 1680) ed agli altri podestà della nobile famiglia dei Ba/bi per le opere patrocinate a Rovigno, tanto che l'Arco (Portone) della pescheria divenne Arco dei Balbi”. (BUDICIN, 206). Sul ‘tetto’ delle due volute della trabeazione - praticamente appena visibili dalla piazza — sono scolpite due figure apotropaiche dal volto “grottesco e minaccioso’ tra l'umano e l’animalesco che servivano ad allontanare il male, qualsiasi ne fosse la natura (invasione di armati, aggressione dei singoli, epidemie pestilenziali, grandine, incendio, ecc.), incutendo spavento in chi le guardava. Il DE TOTTO (“Famiglie”, a. 1943, 147) ricorda una “famiglia di Veglia e di Pola, estinta, che era forse un ramo dei Balbi Patrizi Veneti [diedero a Capodistria ben 6 podestà e capitani, e tra essi due presumibilmente già rettori rovignesi: Daniele (1774-1775) e Francesco Almorò ultimo reggitore veneto giustionopolitano!]. Fu decorata nel 1769 del titolo di Conte dalla Repubblica Veneta, col quale fuiscritta nel Ruolo dei titolati istriani. Il Senato Veneto approvò il 22 marzo 1698 l’aggregazione di una famiglia Balbi (o Baldi) al Nobile Consiglio di Parenzo. Il Conte Teodoro Balbi fu aggregato nel 1779 alla Nobiltà di Pola. I conti Balbi di Veglia possedevano beni feudali nel distretto di Buie passati nel secolo XIX ai loro eredi Pozzo-Balbi. Giannandrea Balbi fu vescovo di Pola nel 1732 e il conte Teodoro Loredano Balbi fu l’ultimo vescovo di Cittanova (1795-1831). Nella sua documentata esposizione, lo SCHRODER (I, 62-70) ne indica (‘come volgarmente vuolsi’) l'origine “dall’antica Repubblica di Roma, da dove fuggita a’ tempi di Totila, e passando a Pavia, indi a Ravenna, poscia ad Aquileia, per l’incendio e quasi intiera distruzione di questa, si rifugiò nelle Venete Lagune. Quivi distinta venne fra le ottimate per più secoli, ed alla celebre riforma della Costituzione avvenuta nel 1296 fu aggregata al Patriziato, diede spesso Cittadini preclari e godette delle dignità più cospicue tanto civili che militari. E’ divisa nei sottoelencati rami (...). Confermato con Sovrana Risoluzione 10 gennaio 1818- Domiciliato a Zara. Lucio Antonio del fu Daniele e della nobile sig. Camilla Pizzamano, nato il 12 agosto 1768. (...) Angelo Maria del fu Nicolò e della moglie sig. Elena Barozzi, nato a Budua il 2 agosto 1755, morto il 21 marzo 1828. (...) Confermato con Sovrana Risoluzione primo dicembre 1817. Ridolfo Pietro del fu Antonio, nato in Sebenico il 4 aprile 1753, ammogliatosi a Veglia il 12 giugno 1781 colla sig. Maria Bonmartini. Figli: Adriano Antonio Benedetto, nato il 26 agosto 1782; Adriana Antonia Benedetta, nata a Umago il 30 maggio 1783. (...) Giovanni Paolo, nato a Curzola l’8 gennaio 1797, ammogliatosi colla sig. Madda- lena Dalcorso; Antonio, nato in Ossero il 10 aprile 1786, congiunto in matrimonio colla sig. Amalia Coronelli. (...) Confermato con Sovrana Risoluzione 16 novembre 1817- Domiciliato in Ragusa. Giovanni Andrea del fu Federico, nato il 4 marzo 1759, unitosi in matrimonio il 7 giugno colla sig. Anna Maria Righi di Ragusa. Niccolò Giovanni, nato il 18 luglio 1792, congiuntosi in matrimonio il 22 settembre 1816, colla nobile sig. Maria Antonia Ghetaldi di Ragusa”. Cfr. NATORRE, tav. XIV, f. 19; AMIGONI, “Il 266 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 patriziato”, a. 1942, 135 [“Balbi (di Aquileia), (1297): di oro alla dolce (volpe) rampante di nero armata e linguata di rosso”]; PAULETICH-RADOSSI, 77; RA- DOSSI, “Stemmi Dignano”, 368-369; BUDICIN, 206. Scudo a mandorla, fiancheggia- to da cornucopie e da due rose forate, e da svolazzi (?), con in punta e in cima una testa femminile, il tutto entro comparto riccamente accartocciato e cimato da corona comitale. Arma: troncato di oro e di rosso, alla dolce d’oro (?), rampante e attraversante la partitura. Dimensioni: 60 x 100 cm. ì ii { 3 - A { Il { \ et. ° A it ta la LI iis I stia BALBI Quinto armeggio gentilizio Balbi, “gemello” del precedente, scolpito a tutto tondo in pietra istriana e collocato sulla parte destra [l’altro esemplare, quasi identico (sono in particolare diverse le due cornucopie), è collocato sulla sinistra, vedi] della trabeazione del Porton della Pescheria vecchia (sopra l’architrave), ed appartenuto al podestà Francesco Almorò Balbi (1774-1776); in sito originale ed in ottimo stato di conservazione. Sarà interessante conoscere quanto accaduto sotto la reggenza di un altro Balbi, quel Daniele che nel 1752 (“suo ingresso li 3 febbraio 1752”) imprese a restaurare la dimora dei podestà veneti che si appoggiava all’adiacente Palazzo Pretorio: “1. Il Senato in Pregadi deliberava li 3 febbraio 1752, dopo l’ascolto delle parti contendenti in Collegio dei Savi, cioè Canonici e Sacerdoti di Rovigno, che fosse lecito ai Canonici anco in avvenire di far le rinunzie, che fossero veramente libere, dei loro Canonicati, ed anche procurarsi le coadiutorie nei casi permessi dai sacri canoni, e non proibite dal sacro Concilio di Trento, previe sempre le attestazioni del proprio G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 267 vescovo, da non rilasciarsi se non nei casi esposti, ed in favore di persone degne e suddite del Veneto Dominio, e che avessero prestato diligente servizio alla Chiesa (...). 2. In ordine a Ducale del Senato, il Capitanio di Raspo Lorenzo Contarini con Proclama 22 marzo 1752 facea noto a tutti i pubblici Rapp.ti che avrebbe fatta la visita di tutti i boschi e luoghi boschivi della Provincia (...). 3. Con Ducale del Senato 13 Maggio 1752, il Doge Francesco Loredan incaricava ‘Antonio da Riva Podestà di Rovigno’ a dover esprimere in lettera e non in numero la somma del dispendio, che fosse occorso per occasione di fabbriche, o di altro. (Notasi, che fatto ingresso li 3 febbraio 1752, e durato sino li 9 giugno 1753 il Balbi, come dal ‘Quaderno dei Rettori di Rovigno’, che si conserva in Comune, non so come in data 13 maggio 1752 comparisca ancora il predecessore da Riva). 4. Nella vertenza tra la pubblica Rappre- sentanza e il Capitolo di Rovigno sopra il Cerimoniale che praticatasi col Podestà quando si fosse portato ad udire la predica nel Duomo nell’Avvento e Quadragesima, il Consiglio dei X in riflesso, non tener li Canonici alcun rituale in proposito, né prodottovi quello delle Collegiate della Provincia, perché forse anch’esse prive, con Decreto 21 Agosto 1752 trovava consentaneo che avesse a regolarsi il Cerimoniale in conformità della pratica della Cattedrale di Capodistria, cioè: dovesse il Podestà far percorrere l’avviso di sua venuta, e conferirsi in figura pubblica con la ‘Romana’, ed il seguito dei Giudici e Deputati; essergli sul limitare della porta esibita l’acqua bene- detta da un Canonico, e celebrata dopo la predica una messa privata da semplice sacerdote all’altare più adattato al sito dove si fosse collocato, facendogli l’inchino avanti e dopo la messa, e l’Ajutante o Cameriere di esso Podestà dovergli porgere al bacio il Vangelo, dopo letto dal sacerdote. 5. Essendo venuta in cognizione la Carica di Capodistria Nicolò Bembo, che in più occasioni con la forza dei premi e promesse, minaccie ed altri illeciti modi veniva tolta ai votanti nel Consiglio sì del Comune che del Popolo di Rovigno la libertà del voto, con Proclama dei 4 novembre 1752, alfine di togliere inconveniente così notabile, e mantener illesa la libertà della votazione, senza di che in confusione e disordine sommo sarebbe involto qualunque pubblico Corpo, comandava — Che fossero proibiti a chiunque di questa Terra con qualunque votante ibrogli di qualunque sorta o colore — Che nel tempo delle riunioni dei Consigli fosse a chiunque proibito il muoversi dal proprio posto per brogliare; e in caso di opposizione a qualche Parte, non potesse alcuno farla se non nel luogo solito dell’ar- ringo — Che del pari fosse a chisi sia il girare nell’ore insolite della notte perfarbroglio, e proibite le radunanze private e conventicole di più persone in qual si voglia casa e luogo per l’oggetto medesimo — Che fossero eziandio vietsati i giuramenti tanto prima che dopole ballottazioni ad ognuno dei votanti, non dovendosi per alcun modo render conto del voto, che doveva essere coscienzioso, libero e indipendente — e ciò in pena ai contraffacienti di bando, galera e prigione; con avvertimento, che sarebbero ricevu- te denunzie secrete anche nelle Cassette ch’erano sotto della pretoria Cancelleria in Capodistria. 6. Per commissione del Magistrato delle Artiglierie, la sudd.a Carica di Capodistria con Lett.a 12 gennaio 1753 ordinava al Balbi, di fornirla d’una distinta nota della qualità e quantità delle artiglierie, armi e munizioni, che guarnivano questa Piazza in ogni e qualunque suo sito; e il Podestà con risponsiva dava la nota seguente, firmata da Antonio Segala ‘Capo’ (io suppongo ‘delle Cernide”) cioè: Sopra le mura di S. Euffemia cannoni di ferro da 9 N. 6. Nel pretorio Palazzo cannoni di ferro N. 4, due da dodici, e due da nove. Letti da cannon con le ruote per altro patite da caroli N. 10, sei mancanti dei pironi e lame di ferro. Nelle munizioni palle di ferro da nove N. 268 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 184, e da dodici N. 22. Nè cazze di rame, né modoli da scovolo, né calcador, né scarrozzi, né scovoli. Schioppi di ragione del Comune N. 132, tutti a mal ordine, mancanti di azzalini e di casse, e le casse in rovina e rotte. Nel Casello della polvere barili N. 6, da molto tempo spedita, nè mai dopo visitata, né soleggiata e spolverizzata, e perciò forse anche patita. (...)”. (ANGELINI, VII, 83-84). II CROLLALANZA (I, 84) ricorda che il casato “si divise in due famiglie; l’una si disse dei Ba/bi-Porto, e fu decorata del titolo di Conti dell'impero austriaco, e illustrata da diversi Savi del maggior consiglio; l’altra dei Balbi-Valier dette alla Chiesa un Marco Arciv. di Corfù”. Cfr. ANGELINI, VII, 156 [per Stefano Balbi, sotto la cuireggenza (1747) “la Cattedrale fu dichiarata veramente insigne con pubblico istromento dal suyo Diocesano mons. G. Negri”]. NATORRE, tav. XIV, f. 19; BENEDETTI, IV, 3, PAULETICH-RADOSSI, 77-78; BUDICIN, 206; KRNJAK-RADOSSI, 135-136. Scudo a mandorla, fiancheggiato da cornucopie e da due rose forate, e da svolazzi (?), con in punta e in cima una testa femminile, il tutto entro comparto riccamente accartocciato e cimato da corona comitale. Arma: troncato di oro e di rosso, alla dolce d’oro (?), rampante e attraversante la partitura. Dimensioni: 60 x 100 cm. st Ni 40 te de 4 r wi lr f 610] ; BALBI Arme di eccezionale fattura, sesto esemplare dello stemma Balbi, in pietra bianca istriana, scolpita a tutto tondo - corona compresa (!) — oggi affissa alla parete nell’atrio del Palazzo comunale, p.zza Matteotti 1, ma proveniente dalla “casa N. 97 Contrada S. Benedetto, dal Podestà Grego per memoria”, come testimoniato dal PETRONIO G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atri, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 269 (“Repertorio”, 9 e “65 Stemmi”, 5). Si tratta del podestà Bernardo Grego (il caposti- pite rovignese fu ‘Patron Alessandro Grego Candiotto da Cefalonia, 1578’ - BENUSSI, Storia, 345) che resse la municipalità cittadina verso la seconda metà degli anni venti del secolo XIX, che lastricò nel 1828 la Piazza del porto detta la Riva grande sempre fangosa e impraticabile” e che l’ANGELINI (VI, 96, 178) cita nel riassumere le vicissitudini dei restauri della “Casa comunale al civ.o n.0 1, in S. Damiano i cui piani superiori sono ora [/850 cca, n.d.a.] uniti alla Corte di Giustizia. (...) A questa Casa [comunale, n.d.a] era unita la Sala del vecchio Consiglio municipale, che partiva dal Palazzo pretorio, mediante sottoportico, chiuso verso levante da porta broccata di ferro, nella quale tenne pubblica udienza l’anno 1816 l'Imperatore d'Austria France- sco I, e demolito, e quindi dimezzata la Sala stessa alcun tempo prima del 1828, sotto il Podestà Bernardo Grego”. La dedica ”per memoria”, poi, si riferisce all’eccezionalità della visita compiuta dal Vescovo Balbi di Cittanova “per pubblica commissione nella Diocesi di Parenzo l’anno 1826, onde amministrare la Cresima, stante la lunga vacanza della Sede parentina per la morte del vescovo Polesini, avvenuta l’an. 1819. Il Balbi venne a Rovigno la mattina dei 16 sett.e (1826) [sotto la podesteria di B. Grego (!), n.d.a.], e pontificò, ricorrendo la festa della nostra protettrice S.a Eufemia. Si fermò otto giorni [forse ospite in casa B. Grego, al n. 97 di Contrada S. Benedetto (!?), n.d.a.], e fu trattato, e vi si compiacque, da vero principe della Chiesa”. (RADOSSI-PAULE- TICH, “Compendio”, 420). Il vescovo Teodoro Loredano Balbi (1 giugno 1795- 23 maggio 1831) fu l’ultimo presule emoniense, i cui rapporti con le autorità francesi ed austriache meritano di essere qui illustrati come risultano da due ‘relazioni’ di infor- matori del 1807 e del 1814 (A. TAMARO, 127 e 168-169): “Il vescovo Balbi produsse in stampa nell’ingresso de’ francesi l’omelia disonorante la Casa d'Austria, ed esaltan- te alle stelle il suo gran Napoleone. Avanti due mesi consegnò con la rinunzia di intimo consiglier di stato il suo aureo diploma in mani di questo prefeto Calafati, che ad alta voce lesse in presenza di molti francesi ufficiali col maggior dispregio e scandalo, beffeggiando 1 titoli, sottoscrizioni, autorità, etc. Le passate feste di Pasqua predicò in modo assai seducente al popolo, acciò con piena volontà prendino le armi a favore del loro più gran monarca dell’universo Napoleone contro tutti gli altri sovrani, dileggiandoli come tanti imbecilli, ed incapaci di reggere, governare e differenziare i loro stati, e sudditi, maledicendo tutta quella gioventù, che è disertata dalla provincia, e rifugiata specialmente nei stati Austriaci, dove in breve non sorgeranno che le miserie, la vergogna e la disperazione”. “Balbi vescovo inalzato dalla Corte d'Austria al grado di intimo consiglier di stato nel 1809 pretendeva gli stessi titoli ed onori sotto il governo francese. Dallo stesso governo francese invitato replicatamene non solo a deporre tale titolo, ma anche consegnare alla superiorità primaria della provincia l’aureo diploma colla lusinga di farlo avanzare direttamente nel posto vacante di arcivescovo di Udine. Il debole prelato con tale speranza si portò in Capodistria, si assoggettò alla frammassoneria, consegnò il prezioso diploma al prefeto Calafati e rinunziò in iscritto formalmente a tutte le dignità ed onori austriaci, che furono sul momento avanzati alla regenza d’Italia. Il diploma fu letto in un gran convitto presso Calafati, dove intervenuto era il Sig. Seras general divisionario francese con tutto lo stato maggiore. Li nauseanti e scandalosi sarcasmi scagliati contro la Casa d'Austria in questo incontro mi vergogno di rammen- tare. Fu finalmente stracciato il sunnominato diploma alla presenza di tutti; e così terminò quella giornata fra il continuo ridere e motteggiare contro l’Imperatore 270 G.RADOSSI, L’arald ica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 d’Austria. Li francesi, che hanno conosciuto la testa debole del suddetto vescovo aspirante alla dignità arcivescovile per ilsagrifizio fatto, lo hanno proposto al presente nominato arcivescovo, e lo hanno abbandonato al suo destino. Colpito dalla vergogna, e convinto dell’inganno francese, si pentì della società, con cui erasi vincolato, provò il sommo dispiacere d’aver perduto l’onorato diploma, e della rinunzia fatta, procurò in seguito di effettuare in tutti modi il carattere di vero suddito austriaco, e di zelante pastore, per cui dal governo francese ha dovuto soffrire le più insultanti èd ingiuriose peripezie, coll’essere stato arrestato e spedito a Milano sotto la traffilla di quel rigido senato. Egli è un gran possidente di beni di fortuna, ma altrettanto sordido avaro, ed ambizioso”. Tra la ricca schiera di rettori di questa casata, sarà utile ricordare il podestà Marc’Antonio Balbi q. Bernardo (1749-1750) che introdusse un po’ d’ordine circa il versamento dell’affitto e dei dazi per talune ’botteghe’ che “si deliberavano sul pubblico incanto al più offerente, altri per un anno, altri per anni tre, ed altri finalmente per un quinquennio. Sotto la prima rubrica cadevano i forni, che sono fabbriche fatte dal Comune, il dazio minuto, il dazio del pane, del vino e delle carni, ‘erba dello scoglio di Marazera (?), il dazio delle pietre, e quello delle accuse. Sotto la seconda il dazio dell’orne, lo scoglio dell’Asino e le peschiere di Valalta, e Lavarè. Gli altri tutti si deliberavano per anni cinque, toltone lo scoglio ed acque di Polari”.(AN- GELINI, VII, 118). Inoltre, nel 1754-1756 il rettore Stefano Balbi q. Lucio si adoperò a sistemare le regole in più materie di pubblica gestione per cui “aboliva la Confraternita dell’ Ago- nia, istituita in questo Duomo fin dall'anno 1734 arbitrariamente con Decreto di assenso del Diocesano mons. Mazzoleni”; (...) poneva freno “alla licenza di questi pescatori, che in disubbidienza dei pubb.i divieti passavano a vendere in estero stato il pesce, che doveva essere venduto alla Dominante”; (...) compilava nel 1755 una “nota delle famiglie, e numero dei cittadini abili al consiglio: Basilisco 20, Bichiacchi 1, Brionese 4, Burla 4, Caenazzo 24, Calducci 4, Costantini 9, Giotta 9, Pesce 2, Quarantotto 34, Segala 28, Sponza 134, Vescovi 88, Bello — estinta”, per un totale di 361 cittadini; “animava questa popolazione d’imitare l’esempio, acciò si dilatasse la trattura e commercio della seta ad universal benefizio con l’impiantagione dei morari fatta praticare dalla Carica di Capodistria”. Cfr. CORONELLI, 30 (4 varianti); ANONIMO, “Cronica”, 8, con due varianti (‘Questi anticamente erano chiamati Balubani, et vennero de Aquileia, furono huomini molto industriosi alla mercantia, con tutti tenivano amicizia, et erano molto cattolici, questi furono causa di far edificar la chiesa di s. Vido, furono fatti nobili al serar del Consiglio”); NATORRE, f. 54; PETRONIO, “Repertorio”, 9 e “65 Stemmi”, 5; RADOSSI, “Stemmi di Cittanova”, 284-286; “Stemmi di S. Lorenzo”, 212. Scudo sagomato, cimato della corona conteale. Arma: troncato di oro e di rosso, alla dolce d’oro (?) linguata, rampante e attraversante la partitura. Dimensioni: 62 x 95 cm. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 271 BARBARIGO Cospicuo esemplare del blasone gentilizio scolpito in bassorilievo su lastra calca- rea appartenuto molto probabilmente al podestà veneto di Rovigno del 1331, Giaco- mo Barbadico [sic!] (BENUSSI, Storia, 331), viste le ‘caratteristiche scultoree’ tipiche dell’epoca; il reperto, sconosciuto in Petronio (!?), adornava il muro di destra (!) della Porta S. Damiano (NATORRE, tav. XXIILA, f. 39), in discrete condizioni di conser- vazione è oggi murato sulla facciata del palazzo pretorio, alla sinistra dell’entrata. Di questo casato, fu rettore rovignese anche Tomaso Barbarigo nel 1672-1673. (NETTO, 152). Sulle antiche origini dell’insigne ‘stirpe’, si veda FRESCHOT, 26-29: “(...) Venne questa Famiglia ad habitar in Venetia, spinta dal nembo de’ Barbari, ne primi anni della fondatione di questa Reggia, lasciato Trieste, ove tenea con cospicue ricchezze, titoli e signorie. Fu da principio applicata à rilevanti maneggi, e si trovano di essa Tribuni Antichi, ch’era una carica di Governatori, ò capi del popolo, che reggevano le isole circonvicine a publico nome. (...) Fu poi dichiarata Patritia al serrar del Consiglio, che fù il 1297. (...). Giovanni B. Procuratore di S. Marco il 1314; (...) Giovanni Cavaliere, e Capitano di molti legni nella guerra di Chioggia, a cui s’attribui- sce gran parte delli vantaggi ottenuti in quello assedio, essendo egli stato il primo, che usò armare vascelli con quelli fulmini di bronzo; (...) Giacomo, flagello eterno dei Corsari dei quali essendo Proveditor Generale purgò li mari della Repubblica circa il 1466; (...) Pietro Procuratore, e Capitan Generale nella guerra di Gradisca nel 1617. (...).” DA MOSTO (212-216) racconta che Agostino Barbarigo fu eletto doge il 30 agosto 1486, “dopo che si era fatto strada nella vita pubblica veneziana sostenendo i reggimenti di Padova, Verona e Capodistria [risulta quindi essere nominativo nuovo tra i rettori giustinopolitani, n.d.a.]; (...) fu il primo caso del succedersi nel principato di due membri della stessa famiglia [Marco 1485-1486, n.d.a.]. La cerimonia per la sua 272 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 elezione venne funestata dalla morte di cinque bambini, rimasti soffocati nella calca, che si verificò quando venne portato in piazza. (...) Venne ritratto dal Giorgione, ma purtroppo il dipinto è sparito. (...) Prima del 1797 sivedeva la suastatua inginocchiata davanti al leone di S. Marco, che ora sta solo sulla torre dell’orologio; la statua però non è andata completamente distrutta.” Morì nel 1501 “che era una maravegia a udir le maledizion ognun li dava.” Comunque, sulle più remote vicende del casato, ed in particolare su San Gregorio Barbarigo, si veda il lungo saggio di E. GUGLIA, 5-20: “(...) Un Arrigo che, partito da Muggia contro i Turchi (?), vi ritornò nell’880, dopo vinti i Sarceni (?), adorno delle barbe dei prigionieri. Da tale ornamento gli derivò il nome di Barbarigo e fu caposti- pite di quella famiglia che divenne nobile nel 1272. (...) G. Strozzi (Venezia 1583- 1660) nel suo ‘Poema eroico de Barbarighi”, dice: ‘Ogni Barba troncata all’hor ridutta // fu nell’Insegna, e la conserva anch’oggi, // che sei ne miro a tre Leoni appresso, // Leoni, che nell’Acqua il piede han messo.’ Divennero così emblema di questa famiglia sei barbe in campo d’argento con la banda azzurra (l’acqua) che attraversa lo scudo e, forse a ricordo di Arrigo e dei suoi fratelli presenti con lui in quel fatto d’armi, con tre leopardi. Lo stemma con il motto della Famiglia A VICTORIA NOMEN furono assunti anche da San Gregorio Barbarigo Vescovo e Cardinale. [C'è un’altra versione, ma sostanzialmente identica, nel ‘Numismata Virorum Illustrium ex Barbadica Gen- te’; segue un lungo e documentato elenco di figure insigni della famiglia Barbarigo]. (...) Ricordo ancora Bartolomeo che fu vescovo di Parenzo; Pietro, vescovo di Curzola, che partecipò al Concilio di Trento. (...) Marco B. fu il primo Doge che ricevette solennemente, in cima alla Scala dei Giganti, il Corno Ducale. Alla sua morte, avvenuta un anno dopo, tanta era la stima della città, che gli successe il fratello Agostino. (...) Furono Conti della città di Traù sotto dominio veneto, Giacomo nel 1426, Gabriel nel 1444, Alvise nel 1493, Zuanne (vice-conte) nel 1658 e Marco nel 1700. (...) San Gregorio B. nacque il 16 settembre 1625; finiti gli studi nelle arti liberali, partì al seguito dell’Ambasciatore A. Contarini per Muenster in Westfalia. Ritornato in patria nel 1648, riprese a Padova gli studi giuridici. (...I Il 5 aprile 1655 Gregorio B. vestì l’abito religioso e ricevette gli ordini minori. Il Cardinale Chigi [suo antico amico], che nel frattempo era assurto al Soglio Pontificio con il nome di Alessandro VII, lo volle a Roma, dove curò gli ammalati di peste a Trastevere (1656). Nel 1657 il Papa lo innalzò alla dignità di Vescovo di Bergamo. (...) Su proposta della Repubblica di Venezia Alessandro VII lo elevò alla dignità cardinalizia (1660), e nel 1664 lo trasferì a Padova, quale vescovo. (...) Morì in quella carica nel 1697. (...) Nel 1960 Giovanni XXIII lo iscrisse nell’Albo dei Santi.” Cfr. CORONELLI, 30; ANONIMO, “Cronica”, 9 (“Questi prima erano chiamati Barbari, vennero dal monte Barbasco, furono Tribuni antichi, amati da tutti, è di gran senno, è molti di loro non stavano stabili, ma andavano vagando in altre terre. Questi con i Regie fecero edificar le Chiese vecchie, di S.ta Maria Giubenigo, è di S. Gervaso, è Protaso”); BAXA I, (un’alias senza i tre leoncelli); DA MOSTO, 207 (“Una costante tradizione asserisce che la famiglia Barbarigo venne da Trieste, ed altra che avrebbe nei primi tempi portato il cognome di /ubanica o Zubanica”); NATORRE, tav. XXIX. B., f. 46); (DE TOTTO, “Famiglie”, a. 1943, 179); MORANDO, 274-277 (quattro alias); BUDICIN, 207; BONIFACIO, 79-80, nota 22 (“A. Bonaldi et F. Toni ambo de Rubinio sindici nob. d. /acobi Barbarico potestatis ac iudicum Consilii et Com. Rubini — 1330); RADOS- SI, Monumenta, 60-63. Scudo gotico antico lunato, cimato di un cherubino tenente, in G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 273 maestà, con ali aperte e lunghe, attorniato in punta da foglie d’acanto; cornicetta liscia; il tutto entro comparto rettangolare, con bordatura losangata. Arma: d’argento alla banda di azzurro carica di 3 leoncini leoparditi d’oro ed accostata da 6 barbe di nero disposte in sbarra. Dimensioni: 73 x 79 cm. BARBARO Piccolo armeggio epigrafo scolpito “sopra l’architrave d’una porta del Palazzo pretorio”, ora ridotto a panchina nell’atrio al pianoterra del Palazzo comunale, P.zza Matteotti 1, ed appartenuto al podestà Bernardo Barbaro (1678-1679); documentato in NATORRE, tav. XXVIII B, f. 43. L’architrave porta incisa l’iscrizione: BERNAR- DUS BARBARO PRAE. // 1678, poiché “ristaurò nel 1678 il palazzo pretorio, fabbricando eziandio con permissione del Senato due Camere sopra la Loggia (ora Caffè Bazzarini) la quale serviva per cribellare i frumenti del Fondaco”. (ANGELINI, VI, 95). Un secondo architrave (dimensioni: 19x 175 cm.) ancora in situ al primo piano del palazzo pretorio, porta invece l’epigrafe: BERNARDUS BARBARO PRAE // 1679. Va segnalato ancora che sullo spiazzo antistante l’edificio della Scuola Media Superiore Italiana della città, esiste un terzo architrave (dimensioni: 17 x 160 cm.) inserito nella ‘base’ quadrata di una vera da cisterna recante uno stemma Foscarini (vedi), sul quale si legge: W. BERNARDUS BARBARO PRAET. 1678, che eviden- temente in origine adornava uno dei portali interni del palazzo pretorio, anch’esso documentato in NATORRE, Ibidem. AI tempo di questo podestà, “il Portone della pescheria vecchia, in muratura, venne trasformato in un elegante arco barocco bugna- to con scolpite a tutto tondo in chiave di volta una figura ‘turchesca’ (dalla parte esterna) ed una ‘veneziana’ (dalla parte interna) che ci riconducono, verosimilmente, alle vicende della famiglia Barbaro che tanta importanza ebbe nella storia veneziana 274 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol XXXIV,2004, p. 245-394 dei secoli XVI-XVII. Sopra l'architrave due vasi affiancavano il leone marciano, nimbato, andante a sinistra, con il libro aperto sul quale si legge il motto augurale VICTORIA TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS, particolarità questa piuttosto insolita e rara, forse unica”. (BUDICIN, 206). Un secolo più tardi venne rialzata ed abbellita la trabeazione dell’arco, modificata la posizione del leone marciano e furono aggiunti due stemmi Balbi (vedi). Si vedano, inoltre, le seguenti notizie su alcuni reggitori rovignesi di questa famiglia: “1482. Gerolamo Barbaro. In quest'anno da Matteo Gotario, Castaldo della Chiesa della B. V. di Campo, veniva eretta altra Chiesa in Città in onore di Dio, della B. V. della Misericordia, e di S. Lorenzo martire, come rilevasi dalla seguente Iscrizione in pietra sopra la porta della Chiesa medesima, che ora si chiama della ‘Pietà’, annessa all’ospitale delle donne: HOC OP. FACTUM EX //TIT IN TPRE SP. DNI // HIERONIMI BARBARO // HONOR POTESTATIS R // UBINI: M.0 MATEO Q.[?] AN// DREE DOTARII CASTALD // IONE SSTE MRIE DE CAM// AD HONOR DEI OPOTIS ET //BEATE MRE VGNIS MISE- RERE [?]//ET BEATI LAURENCII MAR //MCCCCLXXXII DIE VI //ME X ... T.” (ANGELINI, VII, 154 e BUDICIN, 224). “1622. Giacomo Barbaro. Volendo consolare questi poveri abitanti di necessario sovvegno al vitto loro, com'è l’olio, ordinò con Terminazione del 21 nov., che fossero levati ogni anno dalla florida cassa fondaco D.ti 300 per essere impiegati in acquisto di olio terriere e forestiere a comodo e sovvengo appunto della classe povera della popolazione”. (ANGELINI, V, 289). “1732-1733. Girolamo Alberto Barbaro di Piero. 1.Onde metterriparo alle confu- sioni, scandali, ed altri essenziali disordini originati dalla poco plausibile direzione delle Confraternite nelle Processioni, questo Podestà con Terminazione 15 aprile 1732 stabiliva l’ordine da essere tenuto dalle medesime, (...) e proibiva ai Confratelli di unirsi per istrada nelle Processioni, ma di ritrovarsi tutti a tempo nei luoghi consueti, e che le Sorelle di S. Francesco più non si frammischiassero cogli uomini, ma andas- sero ordinatamente colle persone del loro sesso. (...) 2. Dovendosi proseguire per la stagione diggià avanzata i lavori della fabbrica della nuova Chiesa, ed avendosi incontrate delle difficoltà, perché apertesi alcune sepolture dove si dovevano fissar i fondamenti laterali, si dovette desistere dall’escavo per non iscoprire i cadaveri, fu presa Parte li 15 maggio 1732 dalla Congregazione dei deputati alla suddetta fabbrica, di formare un Campo-santo vicino le mura dell’Orto della Madonna, da cingersi di muro, e cos’ moltiplicare le sepolture, senza più occupare il luogo dei fondamenti della Chiesa. E’ verosimile, che questo Campo-santo venisse fatto in vicinanza della Chiesa; ma per quanto abbia conghietturato sulla ubicazione e rovistato nei Libri vecchi della ‘Scuola della Madonna’, non ho potuto rilevare né il sito del Campo-santo, né memoria scritta che quella scuola possedesse alcun Orto sul monte di S. Eufemia, ma benissimo uno al Lacuzzo in contrada Carrera (dove ora è la casa del defunto Luigi Trevisan), ed un altro in contrada delle Fosse, dietro la Madonna in Carrera (Madonna della Neve), chiesuola allora campestre, ed anche fino al 1770, in cui venne restaurata”. (ANGELINI, VI, 201). “1734-1736. Lorenzo Barbaro q. Alessandro. Ordinava dietro Terminazione del Magistrato di Venezia che “in avvenire i due Chirurghi comunali pro tempore, i quali dovevano essere sempre pronti ad ogni ora, ed a misura delle insorgenze, e dei mali a benefizio e soccorso di questi numerosi abitanti, non si dovessero più promuovere a carica alcuna, se non nel caso sospendessero l’esercizio di Chirurgo, ed in allora si passasse alla nomina di altro Chirurgo”. (ANGELINI, VII, 3). Il casato diede a Rovigno conben 12 rettori: Alessandro B. (1479-1480), Gerolamo G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atri, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 275 B. (1482), Antonio B. (1528), Giacomo B. (1622), Marc’Antonio B. (1655), Pier Alvise B. (1675), Bernardo B. (1678), Alessandro B. (1699), Alessandro B. (1721), Giacomo B. (1729), Gerolamo Alberto B. (1732) e Lorenzo B. (1734-1736). “Questi anticamente erano chiamati Magadensi, et vennero da Barbasco, è poi venero a Trieste, erano huomini di buona qualità, cattolici, et amatori della Patria, et nella guerra di Romania un msr. Marco Barbaro fù ferito, è tolse un faciolo, che aveva in testa pieno di sangue, è lo pose in capo una lancia per stendardo, et havea forma di tondo rosso in capo bianco, e dopo quelli da ca’ Barbaro portano l'arma in questa maniera, cioè il tondo in campobianco, che prima non c’era in quel modo.” (ANONIMO, “Cronica”, 9). Invece DE TOTTO (“Famiglie”, a. 1943, 179) ne indica l’origine istriana: “Famiglia Patrizia veneta, che si trasportò nel 706 da Pola a Trieste e quindi a Venezia nell’868, compresa nella Serrata del 1297. Tre rami, di cui uno S. Angelo e uno S. Gregorio, sono iscritti nel Libro d’oro e nell’Elenco Ufficiale della Nobiltà Italiana col titolo di Conte e Nobiluomo Patrizio veneto. (...) Matteo Barbaro fu vescovo di Pola e una parente la N. D. Adriana B. sposò nel 1520 Matteo Scampicchio di Albona, Cavaliere e Conte palatino.” Lo SPRETI (I, 502-503), annota: “Sul principio del sec. VIII i Barbaro da Trieste vennero a stabilirsi a Venezia e nell’anno 992 furono ammessi fra gli Ottimati e sostennero le principali cariche. Questa famiglia fu compresa fra le patrizie nella serrata del Maggior Consiglio (1297): Marco nel 1122 fu provveditore generale in armata e sotto il Doge D. Michiel si coprì di gloria (...). Francesco visse nel 1422 (...), valoroso nelle armi, fu anche distinto letterato. Giosafat scrisse preziose memorie sopra varie regioni dell'Asia (...). Marcantonio nel 1564 fu procuratore di S. Marco, ambasciatore in Inghilterra e bailo a Costantinopoli, dove sofferse anche la prigionia. (...).° Documentatissima, poi, la voce Barbaro, in SPRETI, Appendice, 274-278: “(...) Vetusta famiglia veneta alla quale una antica tradizione attribuisce l’origine dalla ‘gens Cattelia’, consolare romana, dalla quale si sarebbe distaccata per trapiantarsi nelle colonie romane dell’Istria, onde sfuggire alle persecuzioni diocleziane dell’Era dei Martiri (303-311). L’anno 706 segna la venuta dei Barbaro da Pola a Trieste e l' 868 quella nelle Venete Lagune. (...). La vittoria navale di Marco B. nelle acque di Giaffa (1121), Crociata del Doge Dom. Michiel, porta la mutazione dello stemma che viene confermato (1123) ‘d’argento al cerchio rosso”. (...) Combattendo [Marco] contro i Mussulmani del Sultano d’Egitto, questi gli strapparono lo stendardo dalla sua nave; ma egli, vinto il comandante nemico, gli recise un braccio e col sangue di esso segnò un cerchio vermiglio su di un brano del turbante stracciato dell’avversario. Levato quest'emblema a propria insegna, rincuorò i suoi, ottenendo vittoria sul nemico. Il simbolo, conosciuto col nome ‘ciclamoro’, viene con tale nome citato. Nel Palazzo Ducale di Venezia, Sala dello Scrutinio, esiste il grande dipinto di S. Peranda ‘Marco B. vince nelle acque di Giaffa’; da lui ha inizio la genealogia della Casa. (...). Antonio qm. Marcantonio (1565-1630), provveditore generale d’Armata contro gli Uscocchi, si segnalò ripetutamente contro i Turchi; provveditore generale della Dalmazia, conqui- statore di Zara. G. D'Annunzio lo rievocò nel suo proclama a Zara nel 1918. (...). Durante il periodo Lombardo-Veneto un ramo della famiglia veneziana si trasferì in Galizia (1845).” In AA.VV. I nobili, 15, la casata è detta “(...) oriunda di Trieste dove era venuta nel 706 da Pola. Iscritta nel Libro d’oro e nell’Elenco della Nobiltà italiana coi titoli di Conte e Nobiluomo patrizio veneto.” Cfr. FRESCHOT, 264-267 (“Trieste fù la prima Patria degl’ Ascendenti di questa nobilissima Casa, quali vennero ad habitar in 276 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol. XXXIV,2004, p. 245-394 Venetia sul principio dell’ottavo secolo, tempo appunto ch’Angelo Partecipatio, ò Badoaro, fermato il trono a Rialto, e stabilita la pace con Pipino, geloso della Veneta libertà, dando a Venetia il nome di Metropoli, destava nel cuore dei Popoli vicini la brama di goder la sicurezza, e la pace, che vi si erano ricoverate.”); CORONELLI, 31 (ben 9 varianti); CROLLALANZA, I, 93-94; PETRONIO, “Repertorio”, 18 e “65 Stemmi”, 15; SCHRODER, I, 77-82; BENEDETTI, Contributo, 319 e 4 [diede i seguenti quattro patriarchi ad Aquileia: Ermolao I (1491), Daniele I (1550), Francesco (1593), Ermolao Il (1616)]; BAXA I, (tre alias); AMIGONI, a. 1942, 135 (“di argento all’armilla di rosso”); PAULETICH-RADOSSI, 80-82. RADOSSI, “Stemmi di Di- gnano”, 369; “Stemmi di Grisignana”, 216; “Stemmi di S. Lorenzo”, 212-213; “Stemmi di Buie”, 290 (dipinto su cassettone di legno); Monumenta, 63-65; AA. VV., Famiglie nobili, 36-37; KRNJAK-RADOSSI, 137-138; MORANDO, 275-288 (14 alias); RAYNERI, (di), 221 (“Illustre casata Veneta del premille. Passata da Trieste a Venezia sul principio del sec. VIII”); AA. VV., Famiglie, 36-37. Nel CADASTRE (a. 1945) risultavano ancora presenti in Istria i seguenti nuclei dei Barbaro: Pola (1), Rovigno (1), Villa di Rovigno (10), Sorichi (2). Arma: d’argento al ciclamoro [armilla (?)] di rosso. Dimensioni: a) architrave: 20 x 180 cm; b) stemma: 10,5 x 13 cm. BENZON Cospicuo stemma scolpito in pietra bianca d’Istria (ripulito di recente!), oggi murato sulla facciata del palazzo pretorio, ed appartenuto al podestà veneto Scipione G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p.245-394 277 Benzon [1563 (?) — 1565 (?)], proveniente dalla “parte posteriore della torre” (cfr. NATORRE, Tavv. IX e IX A), il cosiddetto “Arco toscano”, cioè l’antica porta principale d’ingresso all’abitato, cui si accedeva per il tramite del ponte in pietra; il manufatto si trovava tra le finestre del primo e del secondo piano, con relativa lapide epigrafa sottostante, oggi scomparsa. Infatti, come scrive ANGELINI (VI, 58) “fu posto questo millesimo [/563, n.d.a.] sull’architrave dell’Arco toscano della Torre in Città, a ricordo che allora fu costruito l Arco medesimo. Forse a quell'epoca fu anche ingrandita la Torre, e migliorato il Ponte levatojo, dal quale tuttora quel sito conserva il nome di ‘Ponte’, che fu demolito nel 1767, e il bell’Arco distrutto in un alla Torre nel 1843 sotto il Podestà sig. Giuseppe Blessich. (...) Non saprei poi combinare la seguente Iscrizione, ch’eravi nel muro esterno della Torre verso ponente, la quale benché scalpellata rilevasi e si conserva: SCIPIONI BENZONO // PRAET. INTE- GERRI MO // SUB. DOM. EREXIT//MDLXIII”. L’epigrafe oggi è irreperibile, ma ci sembra di capire che l’ Angelini l’abbia ‘letta’ con i propri occhi (noi la riportiamo con qualche correzione!), e quindi non v'è dubbio alcuno sulla sua esistenza nel sito da lui medesimo indicato [è riportata, del resto, con relativo ‘disegnino’, anche dal NATORRE, Tav. IX C, f. 13, in tutto identica, eccezion fatta per l’anno che risulta essere “//MDCIII” (!?)]: ovviamente resta da chiarirne il significato e la collocazione temporale, congetturando semmai l’esistenza di un podestà veneto Scipione Benzon (1563-1564), prima del suo omonimo del 1583-1584, che commissionò il bell’affresco del palazzo pretoreo rovignese (vedi il suo stemma) e presente, inoltre, con la sua arme in pietra d’Istria, sulla loggia della chiesetta della Madonna delle Grazie di Rovigno (vedi). Lo SCHRODER (I, 109-111) così traccia la storia del casato: “(...) sino dal decimo secolo i Benzon si distinguevano tra le famiglie dell’Italia Settentrionale cospicue per ricchezze e per uomini illustri in toga, in arme, in dignità ecclesiastiche. Nel 1407 Giorgio Benzon Signore di Crema e Pandino, ad invito del Doge Michiel Steno si fece ascrivere al Patriziato Veneto. Nel 1414 il Duca di Milano Filippo M. Visconti investì del Contado, Castelli e terre di Crema e Pandino esso Giorgio ed i suoi legittimi successori in infinito,. Impossessatasi in progresso di tempo la Veneta Re- pubblica di Crema e della provincia riconobbe sempre ne’ successori di Giorgio Benzon il predetto titolo (1662 e 1784), ordinando la descrizione dei loro nomi nel libro dei Titolati. Sua Maestà I. R. A. con Sovrana Risoluzione 1817 confermò al primo ramo Benzon la nobiltà veneta (...).” Infatti, per un altro ramo, ci fu un “Giovanni [che] esercitava fino da fanciullo il commercio della seta in qualità di garzone, come usano i poveri figliuoli che calano a Venezia dalle vallate. Però con grande lavoro, economia, sacrifici, e con l’aiuto di conoscenti, in progresso di tempo divenne padrone di bottega all’insegna della ‘Clissa’, dove prosperò sempre più. (...) Come al solito gli nacque l'ambizione, e volle esso pure, mediante l’esborso di 100 mille ducati essere ascritto al M. C. Non potendo però disporre di tale somma ingente dovette (...) prenderla a prestito, ad usura; per cui si rovinò. Però continuando col traffico ingordo della seta, ristorò le proprie finanze, quando morte lo colse, lasciando erede un unico figlio (Mandricardo). Si narra che quando i Benzoni entravano in ‘Broglio’, venivano chia- mati col nomignolo di Bezzoni, perché per farsi creare nobili avevano preso qua e là per tutta Venezia denari a prestito. L’aggregazione alla veneta nobiltà dei fratelli Giovanni ed Antonio Benzoni avvenne il 29 luglio 1685.” (MIARI, 17-18). Cfr. BE- NUSSI, 65; PETRONIO, “Repertorio”, 5 e “65 Stemmi”, lv; AMIGONI, a.1942, 137; 278 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vo XXXIV, 2004, p. 245-394 BUDICIN, 204 [“l’arma del podestà Scipione Benzono, sotto la cui reggenza (...) era stato portato a termine il restauro o rialzamento di questa importante opera difensiva adibita anche a quartier dei soldati e, al tempo dei francesi, a carcere” ]; RADOSSI, Monumenta, 84-86. Scudo accartocciato, con ampie volute in fianco e capo, affiancato da ricco ornamento di fogliame; molto danneggiato e monco al 30%, in più parti. Arma: “Porta inquartato, nel primo, e 4. punto rosso con un Leone d’oro passante [rampante ?], che colla destra branca alza una spada sulle spalle, il 2. e 3. vario, ò armellino, con fiocchi negri, et un capo d’oro caricato parimente d’un Leone passante negro. Si vedono varie arme di questa Casa in varie relationi manuscritte.” (FRE- SCHOT, 243). Dimensioni: 70 x 120 cm. BENZON Splendido secondo esemplare dell’arma dei Benzoni, scolpito in pietra d'Istria e collocato “sopra la Chiesa della B. V. delle Grazie” (PETRONIO, “65 Stemmi”, 6 e “Repertorio”, 6) nel piccolo timpano della loggia, ed attribuito al rettore veneto Scipione Benzon ([1582(?)3 — 1584]; sotto, sulla cornice, l’iscrizione: SCIP. BENZ. P. M.D.84. In buono stato di conservazione, si trova in situ [la chiesetta è “stata riedifi- cata nel 1750 giusta memoria sulla soglia superiore della sua porta” (ANGELINI, VI, 59), - 1750 REAEDIFICATA MDCCL 1750]. “1583-84. Scipione Benzon. (...) a G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p.245-394 279 questo podestà e successori fu il 16 novembre 1583 dal Consiglio accresciuto il salario di altre L. 362, e decretato per compenso di nolo di trasporto da Venezia a Rovigno L. 31, e per metter fuori la loro arma L. 12.8; inoltre per regalia tutte le lingue degli animali grossi macellati, e tutta la carne per loro uso di ogni sorta,com’eziandio di ogni sorta di pesce a un soldo alla libbra. E’ verosimile che la gentile chiesetta suburbana dedicata all’Assunta sotto il nome specioso della ‘Madonna delle Grazie”, fosse eretta durante la su carica, essendochè sopra l’architrave della svelta sua loggia, e sotto la di lui arma gentilizia si leggono le parole: ‘Scip. Benz. P. 1584’. Nello stesso anno fu fabbricata la casa chiamata ‘Canonica’, di fianco alla parrocchiale, a comodo del diocesano nelle sue visite. Diroccata ancora nel principio di questo secolo, e da vari anni affatto demolita, fu nel passato inverno [/849, n.d.a] anche spianato il macigno su cui poggiava, per ordine e col danaro di questo comune, onde dar pane ad alcuni poveri operai privi di lavoro”. (ANGELINI, V, 222-223). Curiosa e variegata la storia del casato in FRESCHOT (243-244): “Varia nelle memorie antiche il racconto dell’origine di questa Famiglia, affermando alcune, ch’ella sia venuta da Altino con le Famiglie, che di là si trasferirono à Venetia, mentre dal flagello di Dio, restò quella Città distrutta; altre che sia venuta da Crema in Lombardia, dove haveva goduto titoli, e dignità, come prova Venturin Benzon Confalonier di Santa Chiesa, e gran Capitano de’ suoi tempi, che si riferiscono all’anno 1302 i cui posteri dicono haver signoreggiato in Cremona. Benedetto Benzon fu il primo ch’ottenne l’esser ascritto all’ordine Patritio di questa Dominante per li meriti suoi verso la Patria, acquistati nella Guerra di Ferrara, e li suoi discendenti hanno accresciuto con proprie benemerenze l’honore della prima aggregatione, adoperati in ogni tempo in gloriosi, ct importanti impicghi del pubblico servitio.” Ben diversa è invece la vicenda narrata da CROLLALANZA (I, 118) riferita ai tre rami di Rovigo, Crema e Venezia: “Furono signori della patria [Crema] fino dal 1258, e interrottamente la governarono per oltre un secolo e mezzo. Un Giorgio Benzoni governò Crema da padrone dispotico dal 24 Feb. 1405 al 31 Lug. 1414 con imperiale consenso; poscia fino al 1423 come feudatario del Duca di Milano con titolo di conte; ma costretto dagli intrighi del Duca Filippo-Maria a partirsene, riparò a Venezia. (...). Perduto il dominio di Crema, Giorgio si pose al servizio dei Veneziani e fu ascritto al patriziato e dichiarato conte. Nel 1819 le fu confermata la nobiltà ed il titolo”. Cfr. CORONELLI, 34 (undici varianti); NATORRE, Tav. LVIII; PAULETICH-RADOSSI, 85-86 (tre armi di Scipione B.). Scudo accartocciato e sagomato, bisantato di otto, con ampie volute in capo, il tutto entro doppia cornicetta. Arma: inquartato; nel 1° e 4° di rosso, al leone d’oro portante una spada d’argen- to; nel 2° e 3° d’armellino; col capo d’oro, caricato di un leone illeopardito di nero. Dimensioni: 40 x 70 cm. 280 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 BENZON Rara arma gentilizia dipinta sul grande affresco (dimensioni: 280 x 750 cm.) della sala del Consiglio del palazzo pretoreo rovignese, attribuita al podestà veneto Scipione Benzon [1582(?)3 — 1584]; nella pittura altri quattro stemmi: Da Ponte (vedi) perché Doge in carica 1578-1585, Steno (vedi) perché Doge (1400-1414) che assegnò il patriziato ai Benzon, e due arme comunali (vedi); in ottimo stato di conservazione, il tutto è stato restaurato nel 2003-2004. Fu appunto questo podestà a modificare la ‘Sala del Consiglio’ ed a commissionare l’affresco che ne orna un'intera parete. Il casato ha dato a Rovigno presumibilmente tre rettori: Scipione B. (1563) [?], Scipione B. (1582- 1584) [II volta oppure omonimo?] e Zan Antonio B. (1639-1640). “Questi vennero da crema, furono Tribuni antichi, è molto industriosi, furono fatti nobili al serar del Consiglio.” (ANONIMO, “Cronica”, 13). Cfr. DE TOTTO (“Famiglie”, a. 1943, 213-214): “F. Patrizia veneta. Orazio Benzoni Podestà di Albona e Fianona nel 1622. Pietro Benzon Podestà di Capodistria nel 1721-22. La N. D. Valeria Benzoni sposò nel 1557 Francesco Scampicchio, Cavaliere e Conte palatino Nobile di Montona e Capo- distria, Signore di Giovanni di Sterna”; SPRETI, II, 42 (Benzoni, famiglia milanese); MORANDO, 419-424 (sei varianti). Scudo a tacca, affiancato da svolazzi, cimato dell’elmo, sovra cui si erge una figura (di leone?) reggente una spada. Arma: inquartato; nel 1° e 4° di rosso, al leone d’oro portante una spada d’argen- to; nel 2° e 3° d’armellino; col capo d’oro, caricato di un leone illeopardito di nero. Dimensioni: 40 x 75 cm. (+ 25 cm./a figura sopra l'elmo). G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 281 CICOGNA Stemma scolpito in bassorilievo su pietra scura [quindi ‘importato (?)], apparte- nuto quasi certamente al podestà veneto Marc ‘Antonio Cicogna (1542-1543); di pro- venienza sconosciuta, “si conservava nell’orto Biondi (purton de Biondi) oltre le carceri [dove sorgeva la casa dominicale della famiglia, n.d.a.)’ (PETRONIO, “65 Stemmi”, 11), oggi è murato nell’atrio del palazzo pretorio, p.zza Matteotti, 1, in discreto stato di conservazione, monco in capo e punta. “Qui furono Podestà Marc. Antonio Cicogna nell’anno 1542-43, ed Antonio Cicogna l’anno 1573”, come testimo- niato dal Petronio (Ibidem): tuttavia, il secondo rettore viene indicato soltanto dal KANDLER (Indicazioni, 161) e PAULETICH-RADOSSI (156), mentre in altri autori (NETTO, op. cit.) il millesimo risulta vuoto. “1542, 43. Marc'Antonio Cicogna. Avendo inteso che alcune fiate i comandanti dei legni armati, imprudenti e privi di bontà, mandavano a far legne da fuoco nel boschetto dello scoglio di S. Andrea di Rovigno, che per l’amenità sua era di ornamento al paese, di piacere ai passeggieri, e di comodo ai frati di quel monastero, ordinava Pietro Lando con Ducale 1. giugno 1543 al podestà Cicogna, di proibire severamente a chiunque di far più legne in quel boschetto, che dovevasi conservar illeso a comodo del monastero, ed a pubblico diletto, per il che gliene sarebbe gratissimo, con molta di lui lode”; ed inoltre, “in seguito a rimostranza di questa popolazione emanava il Lando altra Ducale li 13 ottobre 1543, che rimproverava allo stesso podestà l’inesecuzione delle lettere 30 marzo 1534 del Consiglio di stato, in materia di erbatici e pascoli, ordinando che venisse osservata in tutto la Parte presa nel Consiglio municipale dei 27 ottobre 1532, confermata dal predetto magistrato, di non affittarli per animali forastieri, volendo che siano riservati per uso e vitto degli animali del luogo e di questi abitanti”. 282 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 (ANGELINI, V, 221). Evidentemente, era una conseguenza connessa all’insediamen- to dei “villici” nell’area di Laco Verzo (poi Villa di Rovigno), del resto in applicazione di quanto il Senato aveva deliberato in materia. “Questi furono fatti del Consiglio per il buon portamento di ms.r Marco Cicogna da S. Gieremia alla guerra de Genovesi del 1381.” (ANONIMO, “Cronica”, 25). Lo SPRETI, II, 461, ricorda che “Marco Cicogna nel 4 febbraio 1381 ottenne l'aggregazione al patriziato veneto per i segnalati servigi e per i sacrifizi pecuniari che sostenne a vantaggio della patria nella guerra di Chioggia. Pasquale nel 1585 fu elevato alla suprema dignità dello Stato e fu celebre per le sue imprese, quale comandante delle forze navali dell'Arcipelago e per i suoi provvedimenti, allorché, durante il suo dogado, Venezia era angustiata dal flagello della fame. Sotto i suoi auspici venne eretto il famoso ponte di Rialto, che prova la munificenza del governo e lo stato di perfezione al quale erano giunte le scienze e le arti meccaniche. Marco, suo fratello, si coprì di gloria nel sanguinoso conflitto delle Curzolari (1571). Questa famiglia ebbe la conferma della patrizia nobiltà con la S.R.A. 1817 (...)”. Annota DE TOTTO, “Famiglie”, a. 1943, 326: “Un ramo di questa illustre famiglia Patrizia Veneta dal 1381 insignita della dignità dogale, confermata Nobile nel 1817, iscritta nel libro d’oro e nell’Elenco Ufficiale della Nobiltà italiana col titolo di Nobiluomo Patrizio Veneto, riconosciuto nel 189], fu aggregato nel 1802 al Nobile Consiglio di Capodistria. Il cavaliere Antonio Cicogna era nel 1806 Direttore politico di Pola”. Un Pasquale Cicogna fu “pietosissimo Padre alla plebe, travagliata sotto il suo Principato da intollerabile carestia, sollevata con le liberali sue profusioni, e quelle de’ Nobili animati dal suo esempio. Immortale per l’arco trionfale alzato sotto li suoi Auspicij sopra Canal grande del ponte Reggio, alto sforzo della maestria humana, che solo basta per eternar con simil lavoro la fama di questa Reggia delle meraviglie.” (FRE- SCHOT, 290-291). Cfr. inoltre CORONELLI, 39; CROLLALANZA, I, 293 (“il celebre Ponte di Rialto composto di un solo arco di ottantanove piedi”); SCHRO- DER, I, 232-233; BENUSSI, 116 [per il Memoriale’ di un Podestà Cicogna (?), 2 ott. 1756 - qui ricordato]; PETRONIO (“Repertorio”, 36) registra una famiglia “Cigogna Sebastiano da Milano 1791 (?)”; BAXA I; DA MOSTO, 309 (Il doge P. Cicogna morì nel 1595, “lasciando un figlio naturale, che portava il suo nome, il quale, essendo monaco, venne fatto da Clemente VIII vescovo di Arbe e morì nel 1622”); TASSINI, 166-167 [(...) “Bernardo essendo nel 1496 capitano di due galere, combattè, vinse, e fece prigioniero Peruca, feroce corsaro, avendo per mezzo d’esperti nuotatori, fatto levare le stoppe al naviglio sopra cui era imbarcato l’avversario, che si vide in tal guisa in pericolo d’affondare. Un altro Marco Cicogna, sopraccomito nell’armata che pugnò alle Curzolari nel 1571, sostenne colla sola sua galera l’impeto di sei turchesche”]; RADOSSI, “Stemmi di Valle”, 377-378; “Stemmi di Buie”, 294; “Stemmi di Cittano- va”, 292; Monumenta, 125-126: MORANDO, 835; RADOSSI-PAULETICH, “Re- pertorio”, 409 (“Si conservava nella famiglia Biondo a S. Tomaso”). A Rovigno i Cicogna compaiono nel 1791 con Antonio, provenienti da Venezia, per estinguersi già nel 1879 (BENUSSI, Storia, 348 e 354). Scudo ovale con bordurina liscia, affiancato da fogliame, in capo e punta ornamenti. Arma: “di azzurro alla cicogna di argento, beccata e piotata di rosso”; (Alias: “d’azzurro alla cicogna d’argento”). Dimensioni: (frammento) 46 x 50 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 283 COLLEGIO DELLE AGOSTINIANE Stemmino in pietra scolpito in bassorilievo e infisso tra il pianoterra e il primo piano “sopra la casa N. 20 in Contrada Pian di Pozzo” (PETRONIO, “65 Stemmi”, 8), oggi Pian di Pozzo, 27, recante il monogramma IHS allusivo al nome di Cristo e sotto verosimilmente il simbolo di “appartenenza-proprietà” dell’edificio al Collegio dell’or- dinc delle Terziarie Agostiniane, detto anche Conservatorio delle Agostiniane. “Dietro istanza 8 genn.o 1736 di alcune persone [donne] divote, qui istituitasi con decreto del Consiglio di X del 1737 questo Collegio”. (RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 275). Durante il reggimento del podestà Federico Contarini (vedi), il Senato “venuto in cognizione di vari disordini ed irregolarità introdotte sì nella spirituale che nella temporale direzione”, con Ducale 1 agosto 1739 ordinava “lo scioglimento immediato del Collegio delle terziarie agostiniane, (...) commettendo al Contarini di farle quindi mediante i Giudici del comune ritirare alle proprie case, e signficandogli che alla Carica di Capodistria era ordinato di somministrare il bisognevole per rimpatriare a quelle ch’erano qui venute dalla Dominante. Ciocchè fu puntualmente eseguito li 8 agosto suddetto. Una Corte nella contrada di S. Damiano, dove abitavano queste Terziarie, conserva il nome delle Monache; e si ha per tradizione, che il sacerdote Oliviero Costantini, quelli che provide di molta dote questi Ospitali, raccoglieva in una casa ivi posta le traviate zitelle, le quali appunto erano le suddette Terziarie Agostinia- ne. Su questa casa si vede ancora in piccolo formato in pietra l’impresa religiosa IHS [con 2 simboli, n.d.a.], ed è ora del sig. Giuseppe Quarantotto q. Giuseppe”. (ANGE- LINI, VII, 17). Gli ‘agostiniani’ erano tanto i canonici regolari di S. Agostino, come glieremitani del Santo, che si organizzarono ad ordine nel 1256; il terzo ordine era costituito da religiosi o religiose viventi incomunità senza clausura, e da secolari viventi nel secolo; 284 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 portavano la tonaca di lana nera stretta ai fianchi con cintura di cuoio e cappuccio a forma di mantelletta allungata a triangolo. Nei secoli precedenti avevano portato sotto la tonaca nera un abito bianco con cappuccio molto corto: il tutto fu allungato dopo Lutero. Cfr. NATORRE, tav. XLII, f. 65; PETRONIO, “Repertorio”, 39; COSSAR, “Quaderni”, R-3, 51; PAULETICH-RADOSSI, 140; RADOSSI-PAULETICH, “Re- pertorio”, 281 (“Corte delle Monache - contrada S. Damiano, ramo dei Mori”). Scudo ovale con cornicetta liscia entro comparto accartocciato. Arma: sigla IHS sovrastata dalla croce; sotto tre minuscole frecce (a simboleggia- re amore divino?), disposte a mazzetto. Dimensioni: 18 x 25 cm. COMMENDA DELL’ORDINE DEI CAVALIERI DI MALTA Presunto simbolo della 'Commenda dell'Ordine dei Cavalieri di Malta (?) [l’attri- buzione all'Ordine era invece dovuta a B. Benussi], scolpito in bassorilievo a tutto tondo e affisso nel primo chiostro del Convento francescano, in v. De Amicis; il PETRONIO (“Repertorio”, 48) lo colloca “a destra della piazza Grande [dove] esiste la contrada Crociera e della casa civ. N. 230 che la tradizione dice di essere statta ‘Ospizio dei Cavalieri di Malta, sopra la porta di detta casa havvi sormontato da corona un stemma con due braccia incrociate, e la Croce nel mezzo da cui pende il Tosone”, ma annota a fondo pagina “questa non esiste” [si può evincere che il ‘traslocco’ fosse già avvenuto (!?)]. L'oggetto, non documentato in Natorre (?), è in buone condizioni di conservazione. “E’ tradizione, che l’Ordine di Malta avesse qui un Ospizio, e fosse la Casa antichissima in Contrada Crociera dei Frati, che ora per brevità si dice soltanto ‘Crociera’, civ. n.0 230; la quale ha sopra la porta uno stemma con due braccia incrociate, e la croce nel mezzo, da cui pende il tosone, e sormontato da corona. (...) G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 285 La nobile famiglia Farsetti di Venezia avea il gius patronato delle terre e case della Commenda di Malta, situate in Pola, Rovigno, e Muggia” (RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 351, 276), ciò che significava in pratica l’attribuzione a un membro dell’Ordine di un beneficio appartenente all'ordine stesso. Infatti, un ramo della famiglia Farsetti, originaria di Luni, era passata a Venezia “dove fu ascritta al patri- ziato nel 1664, dando all’Italia uomini illustri (...); ma il più insigne fu l’abate Filippo (1703-1774), patrocinatore delle belle arti”! (CROLLALANZA, I, 392), ricchissimo, che profuse gran parte del suo patrimonio privato nel favorire ed animare le arti e gli artisti (eresse un complesso monumentale per raccogliere opere d’arte con una spesa di 1.000.000 di ducati, finanziò il celebre viaggio in Dalmazia di A. Fortis). Invece, Tommaso Giuseppe F. (1720-1791), anche lui di ricca famiglia, deve al cugino Filippo l’ottima educazione letteraria ed artistica che lo portò a divenire ”coltissimo scrittore ed amantissimo della buona poesia”, per poi vestire l’abito dell’ordine religioso di S. Giovanni Gerosolimitano; appassionato bibliofilo, autore di versi e molte prose, “vedendo il nipote Anton Francesco senza figli e nel timore dell’estinzione della famiglia, ottenuta una dispensa dell’Ordine di Malta di cui era commendatore, si sposò (1786) con Cattaruccia Maria Grimani ma il suo matrimonio fu sterile: lasciò alla Marciana “come piccolo attestato d’amore e di stima” i manoscritti, i libri (‘rarissime gioie’), la collezione di medaglie di uomini illustri ed i bronzi. Fu questo, molto verosimilmente, il personaggio ‘Farsetti’ che ritenne di farsi scolpire uno ‘stemma’ che esprimesse l’adesione ad un ordine religioso (le braccia incrociate e la croce) e, ad un tempo, illustrasse anche l’orgoglio dell’onore della Gran Croce e della Commenda dell’Ordine di Malta (il tosone!), esponendolo su una delle proprietà a Rovigno di cui la famiglia godeva del “gius patronato”. (AA.VV., Dizionario, v. 45, 182-186). Comunque, “esistono documenti comprovanti la presenza di quest’Ordine a Rovigno; si ha, cioè, un’affittanza di tutti i beni della Commenda di Rodi in Rovigno fatta nel 1563 per 20 scudi d’oro l’anno. Si sa, inoltre, che nel 1601 venne compilato il catasto dei beni posseduti dalla detta Commenda nella nostra città (...)”.(TAMARO, I, 257). L'Ordine, denominato religioso cavalleresco cristiano cattolico di San Giovanni di Gerusalemme, detto anche degli Ospedalieri o dei Giovanniti (nell’intitolazione ufficiale odierna: Sacro Militare Ordine Gerosolimitano di Malta), aveva avuto origine nel secolo XI da un ospizio per l’assistenza ai pellegrini istituito dagli Amalfitani a Gerusalemme. Dopo che i Crociati ebbero conquistato Gerusalemme (1099 d.C.) l’istituzione, retta da monaci benedettini, assunse un carattere essenzialmente milita- re, pur mantenendo la funzione ospedaliera; sorse allora l'ordine cavalleresco. La sede centrale, negli antichi documenti definita ‘Domus Hospitalis Sancti lohannis Hiero- solymitani’, era in Terrasanta. L’ordine fu a fianco dei crociati nella conquista e poi nella difesa della Terrasanta, dove possedette terre e castelli, trasportò la sede principale ad Acri (S. Giovanni d’Acri), dopo la perdita di Gerusalemme (1187); perduta anche Acri nel 1291, sostò qualche anno a Cipro e verso il 1308 conquistò Rodi che i cavalieri fortificarono contro gli attacchi dei Mamelucchi d’Egitto e ne fecero centro importante anche per i commerci con l'Oriente e per l’affermarsi sulla soglia d’Oriente della civiltà latina e del Rinascimento con impronte spiccatamente italiane; con questa tappa l'Ordine divenne una potenza territoriale internazional- mente riconosciuta. Rodi cadde nel 1522 e da allora l’ordine ebbe sede per alcuni anni in Italia (Viterbo, Nizza) e quindi a Malta, che Carlo V, come re di Sicilia, concedette in feudo l’anno 1530. Le galere di S. Giovanni presero anche parte nel 1571 alla 286 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol. XXXIV,2004, p.245-394 battaglia di Lepanto, essendo la marina dell'Ordine una delle più potenti del Mediter- raneo. (...) Il dominio dell’Ordine a Malta fu troncato nel 1798 da Napoleone. Dopo avere sostato a Catania ed a Ferrara, si stabilì (1834) a Roma, dove ha sede tuttora. (...). L'ordine ha dato un contributo non trascurabile al progresso delle scienze mediche, specialmente della chirurgia e dell’oculistica. A Malta i Cavalieri istituirono corsi di medicina nell’università da loro fondata. Cfr. ANGELINI, VI, 52 [“1473. I Serviti (vedi) ottengono dalla Religione di Malta di stabilire molti conventi nell’Istria, compreso quello di S. Catterina nell’isoletta di Rovigno” ]; TAMARO, 134-135 [“(/ beni confiscati ai Templari), fondati in Istria nel 1118, (...) furono compratia caro prezzo dai cavalieri di S. Giovanni, i quali per siffatto acquisto si videro tratti in rovina”]; PETRONIO, “65 Stemmi”, 4 (“la casa N° 230 è statta la loro abitazione”); TASSINI, 232-233; COSSAR, “Quaderni”, R-III, 47 (“Stemma dei cavalieri di Malta”), PAULETICH-RADOSSI, 94 (presunti stemmi dell'Ordine); RADOSSI, “Stemmi di Valle”, 378-379 (“uno scudo nel cui centro sta una croce alla foggia di quelle di Malta”); RADOSSI, “Stemmi di Dignano”, 372-373 [(...) Ordine dei Cavalieri di Malta, sul muro esterno della sacristia della Madonna Traversa’, con lo stemma ovale, coronato di cinque tra fioroni e perle” su lapide cpigrafa]. Scudo gotico moderno con bordurina liscia, in capo e in punta foglie d’acanto, il tutto sormontato dalla corona di marchese (?). Arma: di ..., alle braccia incrociate (il destrocherio è vestito dell’abito francesca- no, il sinistrocherio al naturale) e lunga croce di ..., sorgente da un monte italiano (3), da cui pende il tosone (?) di ... Si veda anche TAMARO, I, 256-257: “Uno stemma sormontato da corona, con due braccia incrociate e la Croce nel mezzo, da cui pende il tosone”. Dimensioni: 36 x 47 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atri, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 287 [P. Petronio, 1681] COMUNE DI ROVIGNO “Primo stemma del Comune di Rovigno” com’è documentato in NATORRE, (tav. IV, f. 5 e tav. VII, f. 8), ovvero in PETRONIO [(” Repertorio”, f. 65); “Lo stemma di Rovigno sino alla metà del secolo XIII erra un melogranato semiaperto”]. Nel 1681, Prospero PETRONIO (p. 375), scriveva: “La comunità porta per Arma un Pomo Granato mezzo aperto, per denotar ‘1 suo numeroso Popolo, con credenza che da ciò si dica in lingua latina Rubinum; mà altri, come si disse, lo chiamano Rubinum quasi Rubinus dal Castel di Arupino, ch’anticamente era così nominato, che fu sovra Rovigno quatro miglia, dove ancora si vedono edifitii e muraglie”. Da parte sua il TAMARO (31-32) riporta l’opinione di B. Benussi, secondo la quale “sino alla metà del sec. XIII, esso consisteva in un melogranato semiaperto, forse a spiegare il suo nome di Rubinum; nel sec. XV troviamo, in quella vece, una croce rossa in campo bianco. (...) Però, se anche lo stemma fu mutato, tuttavia il primo durava ancora, non so poi se ufficialmente o meno, fino alla metà del sec. XVII. Infatti leggo in Tommasini [Commentarii, n.d.a. |: ‘la comunità porta per arma un pomo granato mezzo aperto per dinotar il suo popolo, dicendo in lingua latina ‘Rubinoni’. Il Kandler, nelle sue ‘Escursioni nell’ Agro di Rovigno’ [L’ISTRIA, IV (1849), 148, n.d.a.], narra in un punto di aver veduto un Codice membranaceo che si conserva nell’archivio capitolare; (...) in esso vedesi uno stemma senza corona il quale sembrerebbe dover essere quello di Rovigno. E’ tagliato a diagonale in due campi, l’uno dei quali celeste, l’altro aureo, colori che s'addicono veramente all’Istria. (...) [Quello che il Kandler descrive altro non è che l’arme di un podestà Soranzo (vedi), da noi ampiamente descritta in questa ricerca; l'errore sarà ripetuto poi da Natorre, Caenazzo, e da altri autori sino ai giorni nostri!, 288 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXTV, 2004, p. 245-394 AI De [Natorre, 1851] [D. Petronio, 19107] n.d.a.]. Circa ai colori e forma del detto stemma, ripete la stessa cosa (!!) anche il canonico Caenazzo, e soggiunge: ‘nel sec. XIV si adottò uno scudo ovale pure senza corona alquanto ornato all’esterno ed avente il campo bianco interno diviso con fascia rossa orizzontale. (...) Questi due stemmi si vedono bellamente miniati in altro codice membranaceo del sec. XV del nostro Archivio capitolare. [/{ Caenazzo, oltre all'errore di cui sopra, ne commette un altro, scambiando per ‘stemma comunale’ quello miniato sul ‘Catastico’ dei beni della Collegiata (a sinistra) ed attribuito in questa nostra ricerca al rettore Lorenzo Zorzi (1611-1612) (vedi); n.d.a.]. (...)”. Cfr. NATORRE, tav. V, f. 6 e tav. VII, f. 8 (per stemma Soranzo); PAULETICH-RADOSSI, 128; RADOSSI, “Gli stemmi”, 278 (“in effetti dobbiamo a P. Petronio la prima rappresentazione figurata dell'impresa”); ALDRIGHETTI, 339. Arma: “pomo granato mezzo aperto”. Dimensioni: a) (disegno P. Petronio): 2 x 2,9 cm.; b) (disegno Natorre): 8,5 x 12,5 em. c) (disegno D. Petronio): 9 x 12,5 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atri, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 289 Asa] t ; ; -$ COMUNE DI ROVIGNO Formella rettangolare lapidea con la seconda versione (alias) dello stemma del comune di Rovigno, murato (con il capo all’ingiù!) sulla vera di pozzo (quadrangolare) in v. Divisione Istriana, n. 6 (già v. Carducci, già Lamanova, proprietà dott. Mirko Kovaè). “Questo stemma del Comune di Rovigno era sopra la casa Comunale civico N° 1 [ovvero ‘stemma sopra la porta N. 1 guardante S. Damiano dal 1738°]; nel 1850 fu demolito l’antico edificio N°1 dietro il Tribunale, il qualle edificio fino al 1822 stava le ‘pregioni oscure’ scavate nel terreno senza luce, con porte basse e grosse, e con spranghe di ferro a traversale”. (PETRONIO, “Repertorio”, 14 e “65 Stemmi”, 16). Il NATORRE (tav. VII, f. 8) ne riporta il disegno (n. 5) tra 11 varianti. “Il primo utilizzo dello stemma della città di Rovigno con la figura araldica della croce comune rossa in campo bianco, del quale esistono nove esemplari in pietra ed alcuni dipinti o su affresco o in codici seicenteschi e settecenteschi con interessanti varianti sia dello scudo che dei bracci della croce, risale ai secoli XIV-XV, mentre prima esso consisteva in un melograno semiaperto, raffigurato solamente su documenti molto posteriori”. (BUDICIN, 208). Poiché P. Petronio (sec. XVII) riporta l'arma con il melograno, e qui ci troviamo di fronte a blasone lapideo quattrocentesco, possiamo arguire che ambedue i simboli venissero usati contemporaneamente, almeno fino alla seconda metà del Seicento. “Questo è anche lo stemma odierno, salvo che l’asta maggiore della croce, invece che perpendicolare o diritta, sta inclinata a guisa di diagonale”. (TAMA- RO, I, 31). Cfr. PAULETICH-RADOSSI, 126 [Stemma A, “ora inventario del Museo Civico di Rovigno” (?)]; BUDICIN, 207 [“Le facciate erano adornate da uno stemma cittadino saltellato quattrocentesco (...)]; RADOSSI, “Gli stemmi”, 278-279. Arma: d’argento alla croce di rosso. Dimensioni: 41 x 45,5 cm. 290 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 lina L hi cd Sg fr r) È i Et) COMUNE DI ROVIGNO Splendido emblema cittadino, oggi irreperibile (databile al secolo XV), scolpito in bassorilievo su lapide calcarea, un tempo probabilmente infissa sulle mura di cinta, oppure al sommo della Porta di Dietrocastello, come suggerisce la collocazione del disegno nel manoscritto del NATORRE (tav. XLVI, f. 68), nei ‘pressi’ dell’area dove verosimilmente faceva mostra di sé anche il secondo esemplare dell’arme del podestà P. Lombardo (vedi). La “Porta di dietro Castello con grossi batenti, si chiudeva a due ore di notte, atteratt nel 1700 — trovavasi alla scaletta dei Sbisà”. (PETRONIO, “Repertorio”, 57°). La via Dietrocastello (oggi V. Svalba), “è uno dei primi borghi sviluppatisi fuori le mura, a partire dalla metà del secolo XVII. Essa circoscrive un’importante arteria attorno alla città ex insulare. (...) Gran parte delle mura che correvano sulla sinistra della via è stata letteralmente sepolta dalle case ad esse addossatesi, e lunghi loro tratti si possono osservare negli orti e nelle cisterne di questa linea di caseggiati. Nella parte finale della contrada le mura non seguirono la linea della costa, ma si conformarono alla natura del terreno sfruttando le numerose scarpate in quel tratto, lontane dal mare ma adatte per erigervi strutture difensive”. (BUDICIN, 225). Scudo a testa di cavallo, entro bella cornice saltellata. Arma: d’argento alla croce lievemente decussata di rosso. Dimensioni: (disegno): 7 x 9,5 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Att, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 291 COMUNE DI ROVIGNO Quarto esemplare dell’emblema comunale, in effetti lo scudo che S. Giorgio regge nell’atto di uccidere il drago; dipinto sul grande affresco al primo piano del palazzo pretorio, p.zza Matteotti, 1. E’ stato restaurato nel corso del 2003-2004, ed è in ottimo stato di conservazione. “Il dott. Glezer assevera non essere possibile rilevare il motivo per cui Rovigno cambiò di stemma, opina che ‘ciò avvenne forse per voler assumere l’impresa dello scudo di S. Giorgio cavaliere di Cristo, primo titolare di questa Chiesa e primo protettore di Rovigno. La curva della croce dovrebbe dipendere dall’averla riportata quale appare nella bandiera (di San Giorgio) gonfiata dal vento, o dall’ap- parenza che aveasopra alo scudo rigonfio in cui fu prima dipinta’. Vedremo che anche Pirano ha quasi lo stesso stemma. (...) Le ragioni del dott. Glezer, per quanto riguarda la curva della croce, mi sembrano apprezzabili, (...) ma forse sarebbe da ricorrere colla mente e colle investigazioni al tempo delle crociate, ed al fatto conseguente del trasporto delle sacre reliquie di S. Giorgio dalla Cappadocia a Venezia e in Istria”. (TAMARO, I, 33). E° diffusa anche l’opinione che la curvatura possa derivare dalle gonfiatura delle vele (su battelli e batane!) con dipinta la croce. Cfr. PAULETICH- RADOSSI, 129 (“colori: rosso, bianco”); RADOSSI, “Gli stemmi”, 279. Arma: d’argento alla croce lievemente decussata di rosso. Dimensioni: 15 x 53 cm. 292 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 COMUNE DI ROVIGNO Altrostraordinario esemplare dello stemma rovignese dipinto sul grande affresco della Sala del Consiglio nel palazzo pretoreo; parzialmente monco in punta, è in ottima condizione dopo il restauro del 2003-2004. “Gli stemmi di Rovigno sono variati, oggi giorno ha una fascia rossa diagonale che taglia altra fascia rossa trasver- sale in direzione orizzontale, in campo bianco, per modo da formare una corce di S. Andrea in posizione trasversale. Abbiamo veduto lo stemma di Rovigno con croce rossa in campo bianco dipinta nel soffitto di pubblica cancelleria. Su stemmi in pietra vedemmo altra varietà (...). Pensiamo che lacroce sia stata presa a stemma dai comuni secondari in tempo di loro totale emancipazione, il che avvenne quando ebbero Podestà. L’emancipazione dei più comuni secondari cominciò aì tempi del dominio patriarcale dopo il 1200, chè i patriarchi o per genio o per debolezza furono larghi coi comuni. Nei comuni che rimasero soggetti, i patriarchi tenevano vivari, i Veneti vi posero podestà ad istanza delle popolazioni medesime. Non ebbimo a trovare notizia di podestà a Rovigno prima della dedizione a Venezia [?], la quale avvenne nel 1330, non prima”. (KANDLER, L'’Istria, IV, 148). Scudo sagomato con ampia cornice marrone a volute, caricata di tre rose forate, timbrato e fiancheggiato da svolazzi d’argento. Cfr. PAULETICH-RADOSSI, 129 (“Stemma A. Colori: bianco, rosso”). Arma: d’argento alla croce lievemente decussata (e bombata) di rosso. Dimensioni: 65 x 81 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 293 COMUNE DI ROVIGNO Stemmino lapideo con il simbolo civico rovignese, scolpito in bassorilievo staccia- to su chiave di minuscolo arco, infisso sulla facciata tra pianoterra e primo piano dell’edificio di Piasa Granda, 6; di provenienza sconosciuta, vi è stato collocato nel 1935 (?), ed è in buone condizioni di conservazione. “L'edificio sul lato orientale della piazza conserva solamente le sue strutture primitive, in quanto ha subito notevoli interventi in epoche recenti. Esso fu sede della polveriera comunale (fino al 1719), del Fondaco (dal 1737), della Sala dell'’armamento (dal 1767) e del Monte di Pietà (1816-1936) [vedi]. Sulla facciata si trovava immurato il leone veneto [vedi] che poi, nel 1935, venne apposto sul Palazzo pretorio (rimpiazzato da uno stemma comunale in chiave di volta di un archetto), mentre sopra il tetto si ergeva la torretta dell’orologio”. (BUDICIN, 209). “La croce figura piana, ossia formata dalla semplice sovrapposizio- ne di una fascia ad un palo, che nella fattispecie prendono il nome di traversa e di montante”. (ALDRIGHETTI, 341). Scudo sagomato ed accartocciato, fiancheggiato da due rose forate, sormontato da una testa ed ampia voluta, in punta un carciofo (?); il tutto entro scomparto con bordurina liscia. Arma: d’argento alla croce piana di rosso. Dimensioni: a) elemento archiettonico: 20 x 80 cm.; b) stemmino: 19 x 33 cm. 294 G.RADOSSI, L’a raldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 COMUNE DI ROVIGNO Esemplare miniato dello stemma civico, epigrafo, dipinto sullo splendido fronte- spizio del ‘Catastico delli beni stabeli della Sacrestia della Collegiata Chiesa di S.ta Eufemia di Rovigno”, unitamente all’arme gentilizia del podestà L. Zorzi (1611-1612) a destra (vedi) e, sopra, adunleone marciano (vedi); ai lati le iniziali: C.(OMUNITAS) R.(UBINI). Il manoscritto (dimensioni 24 x 34 cm.; cartella: 9 x 19 cm.) è custodito presso l’ufficio parrocchiale ed è in ottimo stato di conservazione; l’oggetto è scono- sciuto al Natorre ed al Petronio. Il canonico Caenazzo (TAMARO, I, 32-33) in proposito scriveva: “Nel secolo XIV si adottò uno scudo ovale pure senza corona alquanto ornato all’esterno ed avente iul campo bianco interno diviso con fascia rossa orizzontale [è uno Zorzi! (vedi)]. Nel seguente secolo si trova lo stesso stemma, ma aggiuntavi altra fascia rossa perpendicolare nella metà in guisa da formare con l’altra orizzontale una croce che divide lo scudo in quattro parti eguali. Questi due stemmi si vedono bellamente miniati in altro codice membranaceo del sec. XV del nostro Archivio capitolare; quest’ultimo, poi, cioè quello della croce, si vede scolpito su vari antichi fabbricati del Comune, sulla porta laterale (porta piccola) della Chiesa colle- giata rifabbricata dal 1725-56, lande si deve arguire che questo e non altro fosse in quell’epoca lo stemma di Rovigno. Con croce rossa in campo bianco stava anche dipinto nel soffitto di vari locali del palazzo pretorio”. Cfr. BUDICIN, 215. Scudo accartocciato (di rosso), con bordurina liscia d’oro, timbrato del giglio araldico d’az- zurro e di rosso, affiancato da svolazzi d’oro. Arma: d’argento (ricoperto da finissimo arabesco d’azzurro), alla croce di rosso. Dimensioni: (con svolazzi) 8 x 8,5 cm. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Arti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 295 COMUNE DI ROVIGNO Ottavo esemplare dell’insegna araldica rovignese, presumibilmente scolpito in legno, a tutto tondo, fors’'anche a testimoniare che il manufatto era un dono del Comune. Infatti questo è “altro Stemma del Comune sopra un quadro di S.ta Eufemia nel Duomo”, come testimoniato dal PETRONIO (“Repertorio”,61 e “65 Stemmi”, 6). Nel manoscritto NATORRE (f. 79) il reperto è collocato accanto ad altro stemma andato perduto [Michiel, (vedi)], anch'esso presumibilmente scolpito a tutto tondo, di consimile fattura, in legno. Cfr. PAULETICH-RADOSSI, 127. Scudo sagomato ed accartocciato, con vistosa cornice. Arma: d’argento alla croce piana di rosso. Dimensioni: (disegno Natorre): 6,5 x 9 cm. 296 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 COMUNE DI ROVIGNO Elegante nono esemplare dello stemma civico del secolo XVII, scolpito a tutto tondo in pietra bianca d’Istria e murato sopra il leone marciano (vedi) della Torre dell’orologio, proveniente dal granaio-Monte di Pietà, ovvero, come attesta il NA- TORRE (tav. XV, f. 23) che certamente lo vide: “sull’edifizio Comunale ora Officio dell’I. R. Corte di Giustizia”; in buono stato di conservazione. “Sul lato sud-est della piazza della Riva grande (selciata nel 1828) un tempo v’erano un forno comunale (sec. XVIII), la casa dei piloti (con l’epigrafe ‘AD COMODUM // PEDOTORUM) che guidavano i bastimenti verso Venezia e la Loggia delle carceri (...), chiusa poi ad uso di beccarie pubbliche (agli inizi del secolo XIX fu anche Corpo di guardia). La struttura attuale risale, invece, al 1859 quando la loggia venne chiusa a vetrate dal Casino Commerciale (sorto nel 1841), mentre nei suoi pressi fu eretta la Torre dell’orologio (ivi trasferito dall'edificio del Fondaco di Piasa Granda nella prima metà del secolo XIX) sulla cui facciata nel 1907 vennero immurati uno stemma cittadino (in origine sulla facciata del granaio-Monte di Pietà) ed il leone marciano (vedi) della Torre del ponte (...).” (BUDICIN, 205). Cfr. NATORRE, tav. VII, f. 8, n.9 (curvatura errata); PETRONIO, “Repertorio”, 62 (“Altro Stemma del Comune apeso sopra il Leone su l’orologio in Piazza”); PAULETICH-RADOSSI, 127. Scudo accartocciato, sormontato e fiancheggiato da abbondanti foglie d’acanto, in punta una testa. Arma: d’argento alla croce piana lievemente decussata (e bombata) di rosso. Dimensioni: 45 x 70 cm. G.RADOSSI, L’a raldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 297 RA nantisiogie mezzi zi ail Biba (ORI. Sh COMUNE DI ROVIGNO Vistosa lapide in pietra d’Istria (con bordi non rifiniti!), scolpita in alto rilievo con lo stemma cittadino del secolo XVII (?), inserita entro ‘nicchia’ al sommo del portale del Palazzo pretoreo, le cui prime strutture datano al 1308. “Successivamente conobbe numerosi ampliamenti e restauri, in particolare nel 1460 e 1678-79 [l’inter- vento che verosimilmente ha visto l’apposizione del manufatto, n.d.a.]. (...) Nel 1822 vennero demoliti il sottoportico con l’antica Porta di S. Damiano e la sovrastante sala, nonché ristrutturata la facciata del Palazzo pretorio, tranne il bellissimo portale bugnato ed il suo stemma comunale. Tra il 1850 e il 1860 il palazzo subì un ulteriore restauro (...)”. (BUDICIN, 207). La nicchia è protetta da una tettoietta, mentre è ‘affiancata’ da due elementi architettonici in pietra bianca a doppia voluta con foglie d’acanto (?) ed altro ornamento, che completano la maestosità del portale. Cfr. NATORRE, tav. VII, F. 8 e XXVII, f. 40; PETRONIO, “Repertorio”, 11° [Stemma sulla facciata principale del palazzo Pretorio costruito a dimora del podestà veneto Bortolomeo Michieli (vedi) nel 1308”]; PAULETICH-RADOSSI, 129. Scudo accartocciato, con due ampie volute in capo, bordurina liscia e foglie d’acanto [quercia (?)], fiancheggiato da svolazzi. Arma: d’argento alla croce lievemente decussata di rosso. Dimensioni: 70 x 80 cm. 298 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, voL XXXIV, 2004, p. 245-394 COMUNE DI ROVIGNO Undecima variante del simbolo cittadino (secolo XVIII), scolpito in bassorilievo sull’architrave epigrafo dell’accesso laterale della Collegiata di S. Eufemia; supe- riormente, l’iscrizione (acrostico): SUPER MUROS TUOS RUBINE CONSTITUI CUSTODES. In situ, è in ottimo stato di conservazione. “Agli acrostici posti dal Capitolo sulle architravi delle porte del S. Sacramento (del 1799) e di S. Eufemia (del 1732), il comune nel 1733, in segno di compatronato, ne aggiunse uno su quella dell’entrata laterale, con sotto uno stemma cittadino”. (BUDICIN, 213-214). Cfr. NATORRE, tav. VII, f. 8, n. 7 e tav. XLIX Z, f. 97; PETRONIO, ,,Repertorio”, 15 (“Altro Stemma del Comune sopra la porta laterale del Duomo”) e “65 Stemmi”, 6; PAULETICH-RADOSSI, 126. Scudo accartocciato con foglie d’acanto in punta. Arma: d’argento alla croce di rosso. Dimensioni: 18 x 30 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atri, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 299 COMUNE DI ROVIGNO Probabile emblema civico ‘visto’ dipinto sul soffitto di qualche pubblico ufficio, nella variante già evoluta della prima metà del secolo XIX, oggi irreperibile; è, infatti, documentato in NATORRE, tav. VI, f. 7, con la dicitura: “Presente stemma del Comune di Rovigno, in quanto solo riguarda la posizione della Croce”, con la curvatura cioè del ‘palo’ a destra (!). Cfr. TAMARO, I, 32-33 (can. Caenazzo: “Con croce rossa in campo bianco stava anche dipinto nel soffitto di vari locali del palazzo pretorio”); KANDLER, L’Istria, IV, 148 (“Abbiamo veduto lo stemma di Rovigno con croce rossa in campo bianco dipinta nel soffitto di pubblica cancelleria”). Scudo accartocciato, cimato e fiancheggiato da foglie d’acanto, timbrato della corona marchionale (?). Arma: d’argento alla croce lievemente decussata (montante bombato a sbarra) di rosso. Dimensioni: (disegno Natorre): 10 x 16 cm. 300 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovignod'’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 COMUNE DI ROVIGNO Minuscolo stemma cittadino (inizio secolo XX), scolpito in bassorilievo nell’an- golo superiore destro di una lapide calcarea epigrafa, apposta dal Comune quando venne costruita la ‘scaletta’ in pietra che dalla spiaggia delle ‘Piane leisse’ conduce in vetta al colle detto di ‘Monto Muleini’; l’iscrizione: SCALA // MONTE MOLIN // 1909. “E° tradizione, e se ne vedono tuttora gli avanzi, che sul Monte, il quale vien detto ‘dei Molini’, ve n’esistessero due a vento”. (RADOSSI-PAULETICH, “Reper- torio”, 336). Cfr. COSSAR, “Quaderni” F-R-P, n. 60 (“Attuale stemma del Comune” — con fascia e banda). Scudo sannitico con bordurina liscia. Arma: d’argento alla croce fortemente decussata (bombata, con montante a sbarra) di rosso (tutto il campo è rigato). Dimensioni: a) lapide: 64 x 110 cm.; b) stemmino: 12 x 16 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 301 COMUNE DI ROVIGNO Copia di stemmi ‘gemelli’ lapidei (inizio secolo XX) con l'emblema cittadino, infissi tra primo e secondo piano sulle due loggette (archivolti) della facciata princi- pale delle ‘Scuole nuove’ (v. Carducci, 16), oggi ginnasio-liceo, inaugurate nel 1913, su progetto dell’architetto triestino Lodovico Braidotti. Cfr. PAULETICH-RADOS-. SI, 130; BUDICIN, 237 (“Sui pilastri angolari dei due terrazzi sono apposti due stemmi comunali ‘moderni’’). Scudo a testa di cavallo con doppia cornicetta liscia a listello, il tutto bombato, fiancheggiato di svolazzi. Arma: d’argento alla croce lievemente decussata (montante bombato a sbarra) di rosso. Dimensioni: 50 x 100 cm. 302 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 CONTARINI Stemma gentilizio scolpito in bassorilievo sul lato sinistro di ampia lapide calca- rea dentellata epigrafa, [l’iscrizione, al centro della lastra, è stata scalpellata prima del 1851 (forse già a seguito della fatidica ‘ordinanza’ del 1691?), visto che il NATORRE (tavv. IX.A e IX.B) ne riproduce l’immagine già ‘abrasata’], ed è sicuramente appar- tenuto ad uno dei primi rettori veneti di Rovigno del casato dei Contarini; sul lato destro della lapide altro stemma alias [?] Contarini (vedi). L’opera, già murata tra l’arco d’entrata e la finestra del primo piano sul retro della Torre del Ponte, oggi infissa sulla facciata del palazzo pretoreo, è in buone condizioni di conservazione, e potrebbe risalire al 1552-1553 (?), epoca della reggenza di Zan Alvise Contarini qm. Silvestro (BENUSSI, Storia, 333), un decennio prima cioè che il ‘Porton del Ponte’, il quale attraverso un sottoportico ed una semplice porta ad arco interna dava accesso all’abitato insulare, fosse trasformato in splendido arco barocco bugnato (1563) con epigrafe e leone marciano (vedi). Restano inspiegati il “doppio [?] blasone del casato” su un’unica lastra (forse i due diversi rami del casato cui appartenevano il podestà in carica ed il suo più immediato predecessore di famiglia?), come anche il presunto ‘tenore’ dell’iscrizione, poi ‘cancellata’ (da chi e perché?). Eccone il dubbio contenuto (si snodava lungo ben dieci righe!): GLI ABITANTI DI ROVIGNO SONO ROZZI DI CIVILTA’, E VESTONO IL PIU’ DI RASSE. NON VI SONO CASE NOBBILI MA TUTTE GENTI POVERE, MA DI BELL’ARIA, E COSI’ VI SONO BELLE DONNE [Il testo è attribuito al vescovo di Cittanova G. F. Tommasini (op. cit. 425), che però aveva visitato la provincia nel quarto decennio del secolo XVII (!); forse il prelato trascrisse nella sua testimonianza ciò che aveva potuto leggere sulla lapide del Contarini (?!)]. Tuttavia, resta ancora da dire che il NATORRE (tav. IX. B.) docu- G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atri, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 303 menta la lapide con la dicitura “Stemma del podestà Ferigo Contarini” (!?), mentre il PETRONIO (“Repertorio”, 4 e “65 Stemmi”, 1) precisa “Stemma del Podestà Ferigo Contarini 1552-1553 (sic!) sopra la parte posteriore della torre” (da notare che quel ‘Ferigo’ altri non è che il Federico C.” del 1738, mentre il rettore del 1552 era Zan Alvise). Furono pertanto rettori rovignesi di questo illustre casato (l'elenco è la somma dei nominativi tratti da KANDLER, BENUSSI e NETTO, opp. citt., spesso in con- traddizione tra di loro!): Rizzardo C. (1488), Luca C. (1503), Gentile C. (1526), Zan Alvise C. (1552) [deceduto in carica), Carlo C. (1640) [morto in reggimento], Ferigo [recte: Federico!] C. qm. Giacomo (1738-1740), Faustin o Fantin C. qm. Alessandro (1757-1758) e Alessandro C. (1792), cioè ben otto podestà. L’ANGELINI (VI, 187) scrive a proposito di Alvise Contarini q. Silvestro (1552): “Ai 3° maggio 1781 fu scoperta nel Cimitero vecchio dinanzi alla facciata della Chiesa dalla parte della porta di S. Euffemia, e rivolta colle parole in giù, una lapide sepolcrale, che misurata dal Proto Battistella (Simeone) li 17 novembre dell’anno sud.o, era lunga o. 24 e un quarto, larga o. 15 e tre quarti, e profonda o. 5; la quale conteneva la seguente iscrizione: MA.ci [et] G.si D. I ALOY. CONT. Q.D. SYL. // EXU. P. PAT BNME. TANDEN CUM // PRET. HANC IUSTE. AGE. AD DIE[m] Il LUCIS QUIESCUNT // V. ALIGN.E CANC. PIET. // AN. GRE. M.DLIJ. // L[u]C. XX1J. OCT. Questa lapide è ora sulla facciata del Duomo [dopo complesse vicissitu- dini, il reperto è stato collocato nella restaurata Sala del Consiglio nel palazzo pretorio, nel mese di ottobre 2004; in discreto stato di conservazione, la lastra si presenta spezzata — ma integra — nell’angolo superiore sinistro e misura cm. 45 x70, n.d.a.] e si spiega: Magnifici et generosi Domini Johannis Aloysii Contareni qm. Domini Silvestri exuviae, pro patria benemerentis tandem cum Praetor hanc juste ageret, ad diem lucis quiescunt. Vincentius Aligen. Cancellarius pientissime (posuit) anno gratiae 1552... S. Lucae ? 22 Octobris”. Ciò significa che il podestà Z.A.C. è deceduto in carica e fu sepolto a Rovigno; la sua reggenza fu, probabilmente, ‘amministrata’ pro-tempore dal ‘cancellarius’ sino alla venuta del successore, agli inizi del 1553. Di questo insigne casato si sa che “fino dai primi tempi della Veneta Repubblica fu annoverato fra le dodici famiglie qualificate del titolo di apostoliche per avere con altre eletto il primo Doge. Fu inoltre delle tribunizie a Rialto, ed ebbe più volte la reggenza generale. Possedette immense ricchezze e per donazione di Caterina Cornaro, regina di Cipro, fu investita del feudo di Joppe (in veneto Zaffo) Siria, con titolo comitale nel 1473. Fu inoltre signora di Ascalona, Rama, Mirabel e Jbelin. Dette alla Repubblica ben otto - Dogi, molti Senatori, provveditori, Savi di Terraferma, Ambasciatori, procuratori di S. Marco, podestà, inquisitori, capitani, generali, ecc., e nella gerarchia ecclesiastica ebbe, inoltre quattro Patriarchi di Venezia, un Cardinale, Gaspare, creato da Paolo III nel 1585. Fu confermata nel titolo comitale e nelle Signorie dallo Stato Veneto nel 1784 e confermata poi nella patrizia nobiltà nel 1818. “ (SPRETI, VII, 631-632). L’arma degli Zaffo si differenzia da quella originaria, in particolare perché inquartata (con croce patente e bande); cimiero: il corno dogale veneto. Il casato diede a Capodistria due vescovi: Tomasino Contarini (1317-1327) che nel 1318 “concesse la bolla di istituzione alle undici nobili capodistriane, che sotto la guida di Paisana si erano ritirate presso la chiesa di S. Biagio in qualità di Mantellate o Pizzocchere, concedendo loro la regola di S. Agostino” e Fr. Girolamo Contarini (1600-1619), “lettore di teologia nel convento di S. Secondo in Isola. (UGHELLI, 386-387 e 394). Cfr. BENUSSI, 65 [“Nel muro esterno di questa torre verso ponente, (eravi) un’iscri- 304 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti,vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 zione che fu scalpellata e perciò resa illeggibile, e che portava ai lati l’arna Contarini (Alvise Contarini fu podestà di Rovigno 1552-1553)]; PAULETICH-RADOSSI, 97- 99; RADOSSI, “Stemmi di Parenzo”, 386-387; /dem, “Stemmi di S. Lorenzo del Pasenatico”, 213-214; RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 279 e 284 [a proposito della lapide di Alvise Contarini: “Morto in reggimento li 22 otto.e 1552. Esiste fuori della Collegiata, sopra la sporgenza sinistra entrando la porta del Sacramento, la lapide con iscrizione, che il di lui Cancelliere Vincenzo Aligne, o dal Legno, pone ala sua tomba; (...) Stante il lavoro della facciata del Duomo, la lapide del Contarini fu levata l’an. 1861, ed è conservata nell’Archivio Capitolare.” ]; MORANDO, 893-908 (sedici varianti). Scudo gotico antico, bordura liscia, affiancato da foglie d’acanto, il tutto entro comparto dentellato. Arma: d’oro a tre bande d’azzurro. Dimensioni: a) lapide epigrafa: 65 x 200 cm; b)comparto dentellato: 55 x 65 cm; c) stemmi: 25 x 35 cm. CONTARINI Secondo stemma gentilizio alias, scolpito in bassorilievo sul lato destro dell’am- pia lapide calcarea dentellata epigrafa, (l’iscrizione, al centro della lastra, è stata scalpellata in epoca probabilmente successiva all’abbattimento della Torre del Ponte donde essa proviene) e probabilmente appartenuto al podestà Gentile Contarini (1526-1527) il più ‘vicino predecessore’ proveniente dal casato dei Contarini; sul lato sinistro della lapide l’altro stemma Contarini (vedi). Il manufatto, già murato tra l’arco e la finestra del primo piano sul retro della Torre del Ponte (NATORRE, tavv. IX. A e IX. B), oggi infisso sulla facciata del palazzo pretoreo rovignese, è in buone condizioni di conservazione, e forse risale al 1552, epoca della reggenza di Zan Alvise Contarini qm. Silvestro (vedi). Il nominativo di quel primo rettore è stato inserito dall’ANGELINI (V, 223) affermando “suppongo questo podestà [Gentile C.) nel G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 305 secolo XVI, perchè lo trovo, senza indicazione d’epoca, nominato nel cap. XV delle leggi civili dello statuto, che fu sancito, come accennai, nel 1531. Resta da ricordare ancora che sotto la sua reggenza, “all’inizio dell’anno 1526, una ventina di famiglie morlacche erano penetrate colle loro mandre nel territorio di Rovigno, chiedendo di potersi qui stabilire; i Rovignesi volevano che queste famiglie prendessero dimora in città, e qui abitassero, sottostando a tutti gli oneri incombenti agli altri abitanti; e che soltanto a questa condizione potessero fruire del diritto di pascolo. Ma, nella seduta del Consiglio del 24 giugno [‘presieduta° da Gentile Contarini, n.d.a], prevalse l’opinio- ne che si assegnasse ai detti Morlacchi parte del territorio, e precisamente la cosiddet- ta Valle del Lacoverzo, obbligandoli però a non abitare in casolari dispersi, ma a formare una sola villa unita. Così ebbe origine la villa che tuttora esiste col nome di Villa di Rovigno”. (BENUSSI, 132 e ANGELINI, VI, 57). Durante la reggenza rovignese di Carlo Contarini, il 26 giugno 1640, il Senato fece sapere che non intendeva far “scemare il prezzo del costo alli formenti e farine del fondaco; avendosi perciò riguardo al pericolo a cui vanno incontro i tremila sacchi di frumento ivi custoditi si commette al Pod.tà di Rovigno che obblighi tutti quelli che fabbricano pane per vendita a pigliare dal fondaco stesso il frumento predetto sosti- tuendolo con altro nuovo di buona qualità”. (AMSI, XV, 18). Complesse sono le origini del casato, per cui “l’intraprendere di numerar tutti li Soggetti grandi, che l'hanno illustrata, è un voler varcar l'Oceano con il fragil legno d’un iscorcio di ristrette memorie. (...). Rosseggia attualmente sulle spalle dell’Eccellentissimo Signor Marco la porpora. (...) Prove cospicue di rivale magnanimità diede al Mondo l’Eccellentissi- mo Alessandro dalla stessa Porpora ammantato, Senatore in questa Reggia. (...) Nè v'è d’uopo soggiungere à questi, maggior serie di Senatori, Ambasciatori, et altri Soggetti qualificati, tutti gloriosi rampolli del grand’Albero di questa Casa. Essendo il Cielo di questa Serenissima Repubblica da sempre di inesausta fecondità dotato, non è mera- viglia, che germoglino in ogni stagione Eroi dal suo seno, singolarmente da una pianta, alla quale le ceneri stesse de’ maggiori, in vece di sterilire, comunicano più copiosa fertilità. (...) Gratia Contarini Abbadessa dell’Insigne Monasterio delle Vergini di Venetia spiega in campo d’oro l'Arma Contarini detta della gioja, cioè circondata da un cerchio, ò ghirlanda di due rami verdeggianti, e fronzuti, presa l’occasione d’un viaggio, che fecero in Fiandra sopra proprie galere due Gentilhuomini di questa Casa (...) che in tutto il viaggio la sua Galera chiamossi la Galera Contarini della Gioja. (...).” (FRESCHOT, 308-310, 145-147). “Questi vennero da Concordia, furono Tribuni antichi, i quali andarono ad habitar à Loredo, et di poi vennero a star a’ Riva Alta, furono huomini savij, è discreti, ben voluti da tutti, reali et cortesi, fecero edificar la Chiesa vecchia di S. Giacomo di Rialto. (...) Questi vennero da Ongaria, furono huomini di buona conscientia, savij, è discreti, et amati da tutti.” (ANONIMO, “Cronica”, 27). Cfr. BAXA, 10; COSSAR, “Quaderni”, P-R, IV, 73 (“ora sull’archi- trave nel cortile della Chiesa di S. Martino — aprile 1927”); AMIGONI, “Il patriziato”, 1942, 179; KRNJAK- RADOSSI, 156-158, per due blasoni tradizionali e due alias (d’oro a tre bande d’azzurro, all’aquila di nero rivolta, al volo abbassato, attraversante, caricata di una rotella d’azzurro al giglio d’oro). Scudo gotico antico, con bordura liscia, cimato e affiancato da foglie d’acanto, il tutto entro comparto dentellato. Arma: troncato d’argento e d’azzurro (?); all’aquila di nero, linguata, membrata. Dimensioni: a) lapide epigrafa: 65 x 200 cm; b)comparto dentellato: 55 x 65 cm; c) stemmi: 25 x 35 cm. 306 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovignod'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 CONTARINI Stemmino scolpito in bassorilievo sull’architrave epigrafo della porta che condu- ce(va) nell’ampliato atrio del palazzo pretoreo, ed appartenuto al podestà Federico Contarini qg. Giacomo1738-1740) [più volte indicato in NATORRE e PETRONIO ‘Ferigo’|; l’iscrizione: 1739 // ATRIUM HOC MENTE [stemmino] ET CONSILIO // FOEDERICI CONTARENO PRAETORIS AMPLIATUM. Ne testimonia anche VANGELINI (VII, 18): “Fu il Contarini, che ampliò l’Atrio del pubblico Palazzo, come dalla seguente Iscrizione con la sua arma gentilizia sull’architrave della porta, che dalla camera dell’Udienza metteva nella Sala. (...)”. Da annotare anche che nel 1739 una Ducale “commetteva a questo Podestà, e così in seguito a’ suoi successori, di riferire al suo ritorno [a Venezia] tutti quei beni, che durante la sua reggenza fossero stati disposti o con testamento o con donazioni ‘inter vivos’ a favore di ecclesiastici e luoghi pii, e stessamente quei che di ragione dei medesimi in ordine alle leggi fossero stati venduti”. Durante la sua reggenza, ‘scoppiò’ anche il caso delle Terziarie A gosti- niane (vedi): infatti, il 29 agosto 1739 il Senato faceva sapere che “da lettere 20 cadente del Pod. di Capodistria s'’intese l'esecuzione da esso Pod.tà (Ferigo Contarini qm. Giacomo), prestata alle Ducali del primo di esso mese coll’intiero scioglimento del Conservatorio delle Terziarie Agostiniane, che esisteva nella terra di Rovigno, e la pronta rassegnazione dei giudici di quella comunità”. (AMSI, XVII, 42). “(...) Nove sono gli Individui sortiti da questo ceppo che coprirono la Suprema dignità dello Stato, quella cioè di Doge, e ‘l primo fu Marco nel 697. Ebbe un Cardinale, varii Vescovi ed una serie di Procuratori di S. Marco, Senatori, Ambasciatori e gran Capitani. (...) [/ Contarini sono fregiati] del titolo di Conte di Joppe (Zaffo), derivante dall’investitura concessa nel 1473 a Giorgio Contarini da Caterina Regina di Cipro della Baronia del Contado di Joppe e della Signoria d’Ascalona. Il Senato della Repubblica Veneta non solo riconobbe questo titolo di Conte, ma concesse altresì ai discendenti primogeniti del suddetto Giorgio il privilegio ereditario del Cavalierato della Stola d’oro. Non consta che abbia peranco ottenuta la Sovrana conferma del suddetto titolo di Conte e G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 307 del cavalierato; ottenne peraltro la conferma dell’avita sua nobiltà con Sovrana Risoluzione 1 dicembre 1817. (...).° (SCHRODER, I, 255-261). Tuttavia, questo casato rivendica origini molto lontane, tanto che “vuolsi che gli Aurelii Cotta di Roma, spediti come prefetti del Reno, dessero origine ai Contarini, così detti quasi Cotta Rheni, oppure quasi Conti del Reno. (...) Domenico, eleto doge nel 1043, acquistò la Dalmazia, espugnando Zara ribelle.(...). Andrea è lodato nelle cronache per la continenza dimostrata nel fatto seguente. Aveva egli ottenuto in gioventù un amoroso abboccamento con una monaca della Celestia, ed era là per venire agli attenti suoi, quand’ecco, vistole brillare al dito un anello, gli venne capriccio di chiederle, perché ella, insieme coll’altre monache, costumasse di portarlo. E sen- tendosi rispondere, essere quello un simbolo delle loro nozze con Cristo, tosto pentissi dell’azione che stava per intraprendere, laonde colto il pretesto d’aver dimenticato in gondola il portafoglio, s'involò dal convento, e nel corritorio vide un Crocefisso abbassare il capo in atto di ringraziarlo, ed in visone gli fu predetto il soglio ducale, a cui salì nel 1367”. (TASSINI, 176). Cfr. NATORRE, tav. XXVIIIA; PETRONIO, “Repertorio”, 11 e “65 Stemmi”, 3 [“ (Stemma) Sopra l’architrave della porta interna dell’antica sa(l)la comunale ‘Atriu(a)m. Merte et Consi (1)lis 1739//Teodorici Contareno Praetoris Ampliatum’); RADOSSI, “Stemmi di Montona”, 202; AA. VV., Istria, 93. Scudo accartocciato, bordura liscia, con colori araldici d'epoca (!?). Arma: d’argento [azzurro?] a tre bande d’oro, sul tutto uno scudetto d’oro all’aquila di nero, linguata, membrata e coronata d’oro. Dimensioni: a) architrave: 22 x 161 cm.; b) stemmino: 12 x 15 cm. CONTARINI Singolare variante dell’arme gentilizia dei Contarini, riprodotta in disegno a penna-acquerello, in proprietà del Civico Museo di Rovigno (si cfr CORONELLI, 308 G. RADOSSI, L'araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 40-41, unitamente ad altre venti alias); probabile ‘copia’ di esemplare oggi irreperibile. Tra gli ultimi reggitori veneti a Rovigno, merita ricordare il penultimo, Faustin o Fantin C. qm. Alessandro (1758-1759) che “annullò l’accrescimento di stipendio alle cariche per le condizioni in cui si trovava la Com.tà, impossibilitata a sostenere nuovi aggravi”, e diede l’avvio alla regolamentazione della “distribuzione degli impieghi ed offici del Consiglio, (onde ovviare ai) molti danni che il Comune ne risentiva a causa dei medesimi, (inviando a tal fine al Capitano di Capodistria) la nota degli avvocati di Rovigno”. Quest'ultima carica, poi, nel 1758, gli comunicava di gradire fossero asse- gnati “i terreni di S. Lorenzo e Duecastelli che meritano di essere coltivati, agli abitanti di Rovigno, dall’industria dei quali si possono aspettare grandi vantaggi”. (ANGELI- NI, VII, 151 e AMSI, XVII, 73, 75). “(...) Venne quest’Albero trapiantato dal freddo clima della Germania, ove frondeggiava con titoli cospicui di Conti del Reno, nell’ame- no seno dell’Italia per esser innesto glorioso al ceppo della nascente Repubblica di Venetia. Non si rintraccia preciso il tempo in cui giunse questa Famiglia nell’Adria, bensì che resa già abitante dell’Isole, dalli principii che accolsero Cittadini, e sostenuta con vantaggio di rilevanti ricchezze, concorse l’anno 697 alla nominatione del primo Principe Marco Contarini uno delli dodici, che ne fecero l’eletione. Risplendono li nomi di Antonio et Alvise fra li primi che aggiunsero al loro benemerito valore il freggio ottenuto della Porpora Procuratoria (...) e Giovanni C. portò a nome di Pietro Candiano le veci della Repubblica Veneta in un Concilio Romano (...). Condusse al meriggio della gloria gl’ascendenti del nome Contarini Domenico, qual eletto Principe nell’anno 1044 con arti di miglior prudenza deluse li disegni d’un Salomone Re d’Ungheria, che copriva col manto della sua protezione li Zaratini rubelli. (...). Seppe con le medesime arti trionfare del Patriarca d’Aquileja. (...) Alvise Contarini, il cui nobilissimo sangue, dalle vene della Germania scaturito, alla Regina del mare, portò il tributo del Reno, di regal ascendenza de Principi, Tralcio Regnante, tra le procelle di quest'Età di ferro, Astro all’Adria di Pace Serenissimo su’l Soglio della Libertà (...).” (FRESCHOT, 60-65). Cfr. TOMMASINI, 346; £US, no. 91 (“conti e capitani di Cherso”); Il doge Carlo Contarini (1655-1656) fu rettore di importanti città nella terraferma, provveditore in Istria, censore, decemviro, consigliere ducale e provvedi- tore in zecca. (DA MOSTO, 383). Per questa variante dell'arma con la “ghirlanda”, vedi in particolare ANONIMO, “Cronica”, 27 (II arma); RADOSSI, “Stemmi di Montona”, 202. Scudo accartocciato e sagomato, cimato della corona ducale ed affiancato da una ‘ghirlanda’ di elementi vegetali e floreali. Arma: d’oro a tre bande d’azzurro. Dimensioni: (disegno) 8 x 11,5 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 309 CORNER Blasone gentilizio di rara fattura, scolpito in bassorilievo su lapide calcarea epigrafa, infissa sulla facciata in “Dietrocastello ove è una casa annerita”, tra il primo ed il secondo piano, protetta da un tettuccio in pietra con ‘sotto’ scolpito il millesimo MCCCCXXX, mentre lo scudo è fiancheggiato dalle iniziali “A. C.”, per cui l’arme è attribuita al podestà A.[?] Corner (1430-1431). In buono stato di conservazione, il reperto si trova in sito originario, oggi in v. Svalba, 6 (già v. Dietrocastello); più sopra, altro stemma Comer (vedi). Meritano il ricordo alcuni particolari ‘avvenimenti’ della reggenza dei podestà di questo casato; così al tempo di Andrea C. qm. Zan Battista, “ancora nel 1716 non era compita la Chiesa di S. Francesco, ma il Convento e la Cisterna; e il presidente di quei religiosi di allora Fra Pietro da Conegliano supplicava il Comune di un aiuto per la provista delle legne occorrenti a dar fuoco alla calcara, fatta onde proseguire appunto la fabbrica della Chiesa: ed il Consiglio accordava li 28 dicembre D.ti 100 in quattro annue rate, ‘ad esaltazione di Dio, e a decoro della patria”. Alvise C. qm. Piero otteneva dalla ‘Carica di Capodistria’ nel 1727 l'assenso ad ‘estrarre dai bastimenti provenienti dalle isole del Quarnero, dalla Puglia e dalla Dalmazia il puramente necessario al vitto ed al consumo, di cui abbisognasse questa Terra, e non mai per commercio, però con li debiti riguardi di sanità. (...) E permet- teva eziandio il disbarco a quelle persone soltanto, che fossero native ed abitanti nella Provincia”; mentre la “Confraternita di S. Nicolò de’ Marinaj congregatasi nel Palazzo Pretorio li 26 dicembre 1727” deliberava circa la fabbrica del nuovo Molo o Porporel- la, purtroppo senza esito alcuno. Il seguente podestà, Francesco C. qm. Anzolo, succedutogli ‘direttamente’, diede avvio ad una serie di iniziative connesse alla ‘fab- brica della nuova Chiesa ed al solenne trasporto dell’Arca al destinato luogo nel nuovo 310 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 Coro, li 13 marzo 1728, e riferiva ai Procuratori e Proti della costruzione Z. Dozzi, F. de Carli e D. Bori. Reggente nel 1731-1732, Francesco C. qm. Piero, accordava (1730) il “discarico del Trabaccolo del patron Zuanne Tranchich di Segna delle doghe da far barilli per insalar sardelle”, mentre nel medesimo anno, “stante la continuazione delle private vendite di farine e di frumenti a danno di questo Fondaco”, ripubblicava il Proclama “inibitivo” ed estendeva “rigorosa inquisizione contro le ‘Pancogole’, onde venir a scoprire i correi”. (ANGELINI, V1,131, 193-195 e 201). Purtroppo ancora nel 1746-1748, i podestà rovignesi continuavano ad aver un bel da fare “onde impedire le confusioni, che potevano dar adito a contrabbandi delle ‘Pancogole’ di questa Terra comprando farine e dal ‘Fondaco vecchio’, e dal ‘Fondaco nuovo’, [percui ] statuirono, che quelle destinate ad un Fondaco, non potessero andar a comprare ad un altro, e faceva nota nominale di tutte (...), e sommavano in tutte 28 ‘Pancogole’, 14 per Fondaco. A quest'epoca abbiamo due Fondachi di farine: il vecchio sarà stato quello eretto in Riva-grande nel 1680, il nuovo quello di Piazza-grande nel 1740, il terzo poi, e il primo eretto, quello in S. Damiano, e sarà stato Fondaco di frumenti”. (ANGELINI, VII, 30). Ressero la podesteria di Rovigno: Nicolò Corner (1417-1418), A. Corner (1430-1431), FE. Comer (1444), Piero Corner (1481), Marco Corner (1618), Nicolò Corner (1698-1699), Antonio Corner (1706-1707), Andrea Comer (1715-1717), Alvise Corner qm. Piero (1726-1728), Francesco Corner qm. Anzolo (1728- 1729), Francesco Corner qm. Piero (1730-1732), Nicolò Comer qm. Zan-Francesco (1745-1746), Anzolo Corner qm. Francesco (1756-1757), Zan Battista Corner (1766- 1767), Alvise Corner (1769-1770), Girolamo Antonio Corner gm. Zorzi (1772-1773), Zan Battista Corner (1787) [II volta!] e (il figlio) Alvise Comer qm. Zan Battista (1787-1789), ovvero 18 rettori, dei quali ben 13 in soli otto decenni del secolo XVIII. “Questi prima erano chiamati Corelij, et dopo Coroneri, perché portavano nell’arma fràl’azuro e l’oro una corona, vennero da Rimano, furono Tribuni antichi, et huomini quieti, è reposadi, et doppò molto tempo un Signor di Ponente li diede i basconi nell’arma. Levarono poi diverse arme, frà le quali vi è quella mezza d’oro è mezza azura, ma seben le armi sono differenti, sono però tutti una casa medesima.” (ANO- NIMO, “Cronica”, 28). A proposito della loro origine, FRESCHOT, (294-295) affer- ma che “resta sin’hora dubbio quale sia la prima, et più antica Arma, o Impresa di questa Nobilissima Casa, volendo alcune Relazioni esser stato una Corona d’oro in campo tutto azurro, oltre che sia stato lo scudo partito delli stessi colori, a quali s'aggiunse poi la Corona, concordando però tutte in attribuir il nome de’ Corneli, ò Coronelli a’ primi, che giunsero di questa Casa in Venetia.” Cfr. CORONELLI, 42-43 (ben sedici varianti dello stemma); NATORRE, tav. XVII, f. 27; PETRONIO, “Re- pertorio”, 27 e “65 Stemmi”, 6; BAXA, 10; RAYNERI (di), 302; MORANDO, 936-948 (Corner e Cornaro); RADOSSI, “Stemmi di Isola”, 343; “Stemmi di Albona”, 207, Monumenta, 146-147; AA.VV. Famiglie, 123-124. Scudo a tacca, entro comparto rotondo con bordura cordonata. Arma: partito d’oro e d’azzurro. (Ramo di S. Mosè). Dimensioni: (diametro) 50 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 311 CORNER Secondo esemplare dell’armeggio gentilizio del casato dei Corner (Comeri, Cor- naro), scolpito in bassorilievo su lapide epigrafa ed attribuito al podestà F. (?) Corner (1444), come si rileva dall’iscrizione in capo e ai fianchi dello scudo: MCCCCXLIIII F.C. L’opera, protetta da una tettoietta e in discreto stato di conservazione, è infissa sulla facciata della “casa annerita” in v. Dietrocastello, n. 6 (oggi v. Svalba), al secondo piano, superiormente al primo blasone di questo casato, in sito originale. Movimenta- to il secolo XVIII per i rettori rovignesi di questo casato: così Nicolò Comer qm. Zan Francesco (1745-1746) riuscì a far sottoscrivere un accordo tra il Consiglio municipale, il Capitolo e la Carica di Capodistria (con l’approvazione del Consiglio dei X) circa le “celebrazioni delle solennità di 1. classe” che coinvolgevano il Preposito, due Canno- nici ed i Cappellani di S. Eufemia; mediò la liberazione (1746) da parte di un “Tartana con bandiera spagnola armata in corso” apparsa nel porto di ‘Orsara’ che aveva “predato il Trabaccolo padroneggiato da Battista Paulucci di Rovigno con carico di formentone”, riuscendo a far “licenziare cortesemente il Trabaccolo con le persone e carico”. Anzolo Corner qm. Francesco (1756-1757) fece “rigettare la Supplica di p.n Antonio Segala, risolvendo che non potesse in alcun tempo esser disposto di alcuna parte di questa pubblica Piazza per uso particolare e privato”, ciò che risultava essere “ferma deliberazione dei nostri preautori, nella convinzione che questa Città per il favorevole suo clima, e per la laboriosità dei suoi abitanti dovea incrementare, di non occupare le piazze ossiano sfoghi di una numerosa popolazione, circonscritta d’altron- de nella ristrettezza delle contrade, e nell’angustia delle accumulate abitazioni. (...) E facendoci manutentori di quelle previdenti deliberazioni dei nostri preautori conser- vare sempre intatta, anzi dilatare ed abbellire con una riva la spiaggia di ‘Sottomuro’, 312. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 turare il ‘Lago’, e far di questo un’ampia piazza, giacché si volle tagliare con la nuova fabbrica comunale delle beccarie e della pescaria la bellissima spianata dello ‘Squero di Valdibora’. (...)”. (ANGELINI, VII, 29-30 e 134-136). Va ricordato che grazie all’opera di Zan Battista Cornervenne operato nel 1767 un ampio restauro dell’edificio che fu anche sede del Monte di Pietà, in Piasa granda, come testimoniato dalla lapide intitolata al podestà e capitano iustinopolitano N. Berengan. (cfr. BUDICIN, 210). Il penultimo rettore rovignese del casato, Zan Battista Corner (1787), morì in carica; infatti, “a’ piedi del Presbiterio è sepolto Z. Battista C. Podestà per la seconda volta, morto in Reggimento li 29 sett.e 1787. Sopra la sua Arca sepolcrale, dove fu da altra traslato dal di lui figlio Alvise e successore nel Reggimento di questa città il giorno 20 Ap.e 1789, leggesi MEMORIAE // JO. BAPTISTAE. CORNELII. P.V. // HAC. PRAETURA. ITERUM. FUNTI. // CUJUS. VIRTUTES. OMNIUM. LACRY- MAE. // CERTISSIMO. PRAECONIO. TESTATAE. // EJUS. CINERES. // IN. DIGNOREM. LOCUM. TRANSLATES. //PRAET. ALOYSIUS. CORNELIUS. F. HET. /l PATERNORUM. DECORUM. HAERES. // COMPOSUIT. // ANNO R.S. MDCCLXXXIX. Di questa iscrizione, lavoro del dotto Avvocato dott. Pier-Francesco Costantini essendo stata censurata l’ultima parola ‘composuit’ diede motivo ad una sua erudita Dissertazione in difesa che si leggeva nel ‘Nuovo Giornale letterario’ d’Italia N. XVI 1789, Venezia, al Negozio di Giacomo Storti, Librajo”. (RADOSSI- PAULETICH, “Un gruppo”, 309). Il casato “dette tre dogi alla patria e una regina a Cipro. I Dogi furono: Marco, dal 1365 al 1368, soggiogò l’isola di Creta. Giovanni dal 1625 al 1629: sotto di lui il Consiglio dei X fu privato dell’autorità arrogatasi di annullare i decreti del Gran Consiglio; Giovanni II nel 1709. Caterina, regina di Cipro. Dette inoltre alla Chiesa sette Cardinali e moltissimi Vescovi. Si divise in 24 rami, e tutti in diversi tempi ottennero la conferma dell’antica nobiltà.” (CROLLALANZA, I, 322). Fu “antichis- sima e illustre famiglia Patrizia veneta, compresa nella serrata del 1297, insignita della dignità dogale, ed è iscritta nel Libro d’oro e nell’Elenco Ufficiale della Nobiltà italiana coi titoli di Conte, concesso nel 1926, e Nobiluomo Patrizio Veneto. (...) Una famiglia Corner esisteva a Capodistria nel XV secolo e un ramo dei Corner, residente a Capodistria e a Pirano nel sec. XIX, fu confermato Nobile dall’Imperatore France- sco I d’Austria. Nel 1806 il cavaliere Giovanni Corner era direttore politico a Rovigno e giudice sommario del Dipartimento di Rovigno; Telemaco C. giudice sommario di Pirano.” (DE TOTTO, “Famiglie”, a. 1943, 77). Cfr. SCHROEDER, I, 264-271); NATORRE. tav. XVII, f. 27 (“Stemma sopra antico Torrione in contrada Dietro castello”); PETRONIO, “Repertorio”, 27 e “65 Stemmi”, 6; AMIGONI, a. 1942. 179 (per una dettagliata descrizione degli alias); SPRETI, II, 540-542; BAXA I; AA. VV, I nobili, 21 (“oriunda di Trieste, anche Comneri, Corneli o Cornelci); TASSINI, 183-185; KNRJAK-RADOSSI, “Stemmi di Pola”, 159; AA. VV, Annuario, I, 747-749. Scudo gotico antico, ai fianchi e in punta foglie d’acanto, il tutto entro comparto quadrato con bordura dentellata. Arma: partito d’oro e d’azzurro. Dimensioni: 60 x 60 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovignod'’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 313 DIEDO Maestoso blasone gentilizio scolpito a tutto tondo in pietra bianca d’Istria, attribuito, per le sue caratteristiche araldiche, al podestà Vido Diedo (1567-1568); leggermente monco nel capo a destra, ma in buone condizioni di conservazione, è oggi infisso sulla facciata del palazzo pretorio della città (P.zza Matteotti, 1), proveniente dal “cortile della Casa Quarantotto N. 959, via della Madonna delle Grazie” come attestato da PETRONIO (“65 Stemmi, 16), mentre risulta sconosciuto al Natorre (?). Ressero la podesteria rovignese anche: Gasparo Diedo (1662-1663) e Pier Alvise Diedo (1760-1761), mentre un Paolo Diedo fu vicepodestà di Anzolo Badouer (1530-31) e di Pietro Burla (1533-1534). I13 agosto 1567, sotto la reggenza di Vido Diedo, “fu preso dal Consiglio municipale di reedificare il molo di ‘Cal Santa’, ruinato dai venti, il qual era alle barche e navigli del paese e forestieri, nonché ai legni pubblici riparo grandis- simo in tempo di fortuna da ponente-garbino. Giacente tale deliberazione quasi per due secoli, sebbene nel 1680 sotto il podestà Daniele Balbi (vedi) fosse approvata dal Senato, e nell’anno seguente fossero anche determinati i modi dalla Carica di Capo- distria, sanciti dal doge, fu dato nuovo impulso alla fabbrica del molo nel 1749 sotto il podestà Salomon II”. Invece Gasparo Diedo, unitamente ai giudici e al sindaco, fece approvare il 10 aprile 1662 in consiglio municipale a grande maggioranza la “parte” secondo la quale “per l’avvenire non si potesse ammettere alla carica di medico comunale chi fosse nativo di Rovigno, o alcun altro che avesse congiunzione di parentela o affinità con alcuno dei cittadini od abitanti, onde togliere così i brogli e gl’interessi, che apportassero pregiudizio alla conservazione della salute e del bene degli stessi abitanti”. L'ultimo del casato, Pier Moise (Alvise) Diedo di Bonaventura (1760-1761) “comandava la vendita al pub.o incanto dei beni stabili delle Scuole Laiche”; permetteva “la questua per la Città, onde rimettere un candeliere d’argento all’altare di S.a Eufemia, a cui era stato derubato”; veniva costretto da Decreto della 314 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV,2004, p. 245-394 carica di Capodistria a “sospendere il lavoro già intrapreso per conto cassa fondaco per l’inalzamento del 2.0 solaio del fondaco in Riva-grande”; infine faceva applicare la Terminazione regolativi dei fondaci, per cui in particolare in quello di Rovigno il frumento non poteva più essere venduto “a più basso prezzo, ma ugualmente come quello comprato (...), vietando assolutamente al Consiglio di eleggere Fondacchieri e Cassieri, che non sapessero leggere e scrivere”. (ANGELINI, V, 222, 293 e VII, 208). “Questi vennero de Aquileja (?!) furono huomini gagliardi piacenti et di bone qualità, et un ms.r Pietro Diedo essendo rimasto solo di questa famiglia, volse mutar l'arma, e levò questa, che prima non era così.” (ANONIMO, “Cronica”, 34). “(...) Altino, già famosa Città sulle sponde dell'Adriatico, sforzata à cadere sotto la sferza del Barbaro Attila, può dirsi rinata in Venetia per la quantità delle sue Famiglie, che vi passarono (...). La Famiglia Diedo fù una delle migliori della già stante Città d'Altino, essendo certo che quelle cercarono asilo, e sicurezza, che avevano facoltà per le quali dovessero temer il barbaro furore, secondo il poeta ‘Qui nihil potest sperare, desperat nihil’. Non è giunto a mia notitia cosa alcuna di essa prima dell’anno 1199, nel quale si trova un Pietro Governatore di Galera sotto il Generale Tomaso Morosini. Si sa però esser stata inclusa nelle Patritie l’anno 1297, dopo il qual tempo spiega una serie nobile di Senatori, Capi di Militie, e d’ Ambasciatori alle Corti sovrane dell’Eu- ropa. (...). Antonio passato per tutti i comandi della militia navale, e terrestre, riesce meritissimo Procurator di San Marco, l’anno 1457 e per non accennar altri Pietro Cavalier impiegato tutto il corso della vita in pubblici maneggi (...). Porta partito d’argento, e di verde, con una fascia d’oro, sopra la prima partitione. Si trovano altre Armi di questa Casa in varij manuscritti, cioè d’oro con due fascie verde, che fù la prima, e spaccato, ò diviso, per fianco, d’oro, e di verde con una banda vermiglia, ch’uno di questa Casa alzò l’anno 1308.” (FRESCHOT, 305- 307). Anche SPRETI (VIII, 21-22), indica la medesima arma (troncato d’oro e d’az- zurro, alla banda di rosso attraversante) e la dice “(...) antica famiglia patrizia vene- ‘ ziana che si presume di origine Bizantina (?!) e che la tradizione vuole sia una fra quelle che prime trasmigrarono nelle isole di Rialto. (...) AI cader della Repubblica Veneta eranofiorenti sei rami di questa famiglia che ottenne la conferma della nobiltà con Sovrana Risoluzione 18 dicembre 1817. La famiglia è iscritta genericamente nell’Elenco Uff. Nob. Ital. del 1922 col titolo di N. U., N. D. Patrizio Veneto (mf).” Vedi DE TOTTO (“Famiglie”, 1943, 81): “Francesco Diedo Inquisitore nella Provin- cia dell’Istria (sec. XVII)”. Cfr. CORONELLI, 44; ANGELINI, V, 221 (“A. Baduer, e in sua assenza per malattia Paolo Diedo vice-podestà; fu sotto la loro reggenza approvato lo statuto municipale con ducale Andrea Gritti 27 luglio 1531”); CROLLA- LANZA, I, 360; SCHRODER I, 288-289 [“Vuolsi che procedenti da Altino, già famosa città sulle sponde dell’Adriatico sforzata a cedere all’impeto dei Goti che l’incendiarono, i Diedo fin d’allora cercassero un asilo nelle adiacenti venete Isolette. (..) Divisi nei sottodescritti rami, ottennero la Sovrana conferma dell’avita loro nobiltà nelle epoche indicate. (...)”]; COSSAR, “Quaderni”, P-R, IV, 72; RADOSSI, “Stemmi di Valle”, 378-379, “Stemmi di Albona”, 208 e Monumenta, 151-152; MO- RANDO, 1096-1103; KRNJAK-RADOSSI, 160. Scudo sagomato, con ampie volute; cimato di una testa maschile (?) su cui poggia un elmo a cancelli di pieno profilo (a destra) con penne e lambrecchini. Arma: d’argento a due fasce di verde. Dimensioni: 70 x 110 cm. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 315 DOLFIN Stemmino scolpito sul fusto dell’acquasantiera nella chiesa dell’Oratorio- Ma- donna di Pietà (oggi v. Silvano Chiurco, 13) in marmo rosso-rosa, ed appartenuto molto verosimilmente perla sua fattura al rettore veneto Lodovico Dolfin (1487-1488), che avrebbe potuto donarlo a quel tempio, costruito nel 1482 e che era praticamente annesso all’antico ‘Ospitale’ adiacente; il reperto ‘visto e misurato’ nel 1968, risultava irreperibile già nel 1992 [“è stata purtroppo levata l’acquasantiera con sul fusto uno stemma Dolfin” (BUDICIN, 224)]. Figurano ancora quattro podestà rovignesi di questa famiglia: Zuanne D. (1539-1541), Vincenzo D. (1562-1563), Angelo D. (1569- 1570) e Agostino qm. Antonio D. (1717-1718). Quest'ultimo, in effetti, risultò essere davvero un buon amministratore; infatti, “per aversi questo Podestà ben meritato da questo Consiglio per l’indefessa premura dimostrata nell’animare la popolazione all’escavo della pubblica ‘Fossa’, eseguito nei mesi scorsi, fu preso dal medesimo li 10 luglio 1718 di presentargli due Sottocoppe d’argento del peso di oncie 35 l’una, improntate con l’arma Dolfin e del Comune, d’acquistarsi però dalla Cassa dei Salariati [purtroppo anche questi due reperti non sono giunti sino a noi!, n.d.a.]. (...) Fu preso dal Consiglio li 23 maggio 1717 di contribuire D.ti 50 dalla Cassa comunale per essere impiegati in un reliquiario di argento chiuso da cristalli, e di ornata manifattura, onde locarvi il piccolo frammento del legno della SS. Croce, donato in quel tempo a questa chiesa Collegiata da persona ecclesiastica. [[noltre], perché le strade di campagna e di città, ormai sconcie, rotte e rese impraticabili, fossero riparate, e tenute anche in seguito nette ed in acconcio secondo il bisogno mediante rebotte di tutti gli abitanti, fu preso nella medesima Seduta di nominar di anno in anno quattro ‘Provveditori’, senza salario, alle strade, autorizzati di eleggersi 316 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovignod’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 quattro ‘Caporali’ per ordinar la rebotta (...). Onde riparare ai derubamenti di biade, uve, olive, e di altri frutti, fu dal Consiglio deliberato d’instituire una ‘Guardia campestre’ di quattro squadre di dodici uomini l’una, diretta ciascuna da un Caporale e da un Vice-caporale; la quale perlustrasse la campagna, e i colti in fragranti fossero sottoposti al Podestà per la pronta amministrazione della giustizia. (...) Onde non venissero danneggiati i porti di Valdibora e di S. Catterina, fu deliberato dal Consiglio li 10 agosto 1718, che i giudici del Comune ogni anno nei mesi gennaio e febbraio avessero a farscavare la pubblica ‘Fossa’, [invigilando] a chi gettasse fuori dalle finestre entro la stessa immondizie, e qualunque altra materia. (...) Fu deliberato ancora che ogni anno dovessesi elegger due ‘Proveditori alle fabbriche’, anche questi però senza salario, acciò invigliassero sopra le fabbriche sì nuove che vecchie di tutta la Città, massime nei borghi Dietro castello, Driovier e Carrera, onde tutte le materie, cioè pietre e ‘rovinazzi’ fossero asportati in appositi siti”. (ANGELINI, VI, 141-142). “Questi sono Gradenighi, vennero da Giulia vecchia, furono Tribuni antichi, savij, et troppo argomentosi, i dellio Gradenighi fecero edificar la chiesa di Grado, essendo essi venuti di Aquilegia, et di questi fu un bel huomo, il qual aveva nome Gradenigo, savio valente et argomentoso in battaglia, et haveva una buona famiglia, et perciò era amato, et honorato da tutti, il quale per la sua destrezza nel nuotare et agilità, era chiamato il Dolfin, et sentendo che tutti continuavano a chiamarlo con tal nome, si dispose di voler esser detto da Ca’ Dolfin, et levò l’arma con tre delfini, né più volle esser da Ca’ Gradenigo, et doppo così furono detti tutti i suoi discendenti. Avvenne poi che un ms. Gregorio Dolfin cavallier ricchissimo del 1240, per mostrar che lui era più ricco, è più potente degli altri levò un solo Dolfin di oro in campo mezo di azuro, e mezo di argento et sino ad hora i suoi successori usano questa arma, ma seben sono due arme, sono però una cosa medesima, discesi dai Gradenighi.” (ANONIMO, “Cronica”, 35). Il fatto è confermato anche da SPRETI, II, 619: “Sostengono i cronisti che i Dolfin hanno comune l’origine coi Gradenigo (...), assumendo anche l’arma parlante. Questa famiglia fece parte del patriziato veneziano, ancor prima della serrata del M. C. del 1297. Guglielmo morì nel 1164 proc. di S. Marco. Pietro fu compagno d’arme del doge Anrico Dandolo alla conquista di Costantinopoli. Luigi e Domenico furono pure proc. di S. Marco nel sec. XIII. Nel successivo, Giovanni per sommi meriti e per valore quale condottiero di terra e di mare, fu elevato al soglio ducale, morì nel 1361 e fu sepolto nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. Alla caduta della Rep. ven. fiorivano diversi rami di questa famiglia che prendevano il nome dalla parrocchia nella quale abitavano ed avevano palazzo; di S. Margherita al Malcanton; di S. Geminian, ai Miracoli, di S. Polo. (...).” Un ramo del casato si staccò per un matrimonio non consentito dalle leggi aristocratiche e porta la medesima arma dei tre delfini, accompagnati però in capo a destra da una crocetta d’argento. Furono “nobili Veneti. Due rami sono insigniti del titolo di conti dell’Impero Austriaco. Questa famiglia anticamente era la stessa che la Gradenigo, con cui à comune un’origine che risale ai primordi della Repubblica Veneta. (...) Dette questa famiglia quattordici procuratori di S. Marco, sei cardinali e molti vescovi, senatori, generali di mare. Fu confermata nell’avita nobiltà con sovrana risoluzione 1817. Alessandro Gaspare di Cristoforo con sovrana risoluzione 1820 fu fregiato della dignità e del titolo di Conte dell’Impero austriaco con tutta la sua discendenza.” (CROLLALANZA, I, 363). Il casato, patrizio e tribunizio veneto, oriundo secondo certi autori da Pola, ha dato i tre ultimi patriarchi di Aquileia (BENEDETTI, VII, 8), mentre a Capodistria due G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 317 vescovi: Urso Delfino (1347), poi patriarca di Grado, e Pietro Antonio Del fino (1684- 1686). Cfr. FRESCHOT, 48-51 e 311; SCHRODER, I, 294-295; NATORRE, tav. XLIII, f. 66; PETRONIO, “Repertorio”, 64 e “65 Stemmi”, 13 (“Lodovico Dolfin fu Podestà nel 1487- sopra la pilella in chiesa della Madona di Pietà”); AMIGONI, a. 1942, 224 BAXA I (tre alias); PAULETICH-RADOSSI, 104-105; RADOSSI, “Stem- mi di Grisignana”, 218; “Stemmi di Cittanova”, 300 e Monumenta, 153-155; TASSINI, 203-204 (per una lunga elencazione di personaggi illustri); RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 409 (“scolpito sulla colonna della pila dell’acqua benedetta nella Chiesa della Pietà”); CIGUI, 257-258 e Corpo, 55 (“Delfin); MORANDO, 1126-1134; AA.VV., Famiglie, 135-136. Scudo gotico semirotondo, cimato e affiancato da foglie d’acanto. Arma: di rosso (?) a tre delfini d’oro (andanti a destra, bordati di azzurro i primi due), posti in fascia l’uno sull’altro. Dimensioni: a) acquasantiera: [?]; b) stemmino: 13 x 16 cm. rà IV, FERRO Possibile stemma del nobile casato dei Ferro veneziani, appartenuto all’unico (documentato) podestà rubinense, Enrico Ferro (1357); il reperto, rinvenuto sul fon- dale marino della baia di S. Pelagio di Rovigno nell’estate del 2004 dal dott. Vittorio Piccoli di Trieste (della cui collezione oggi fa parte), è dipinto sul frammento (fondo) di un piatto (?) in ceramica colorata, invetriata e graffita, e risulta monco in punta (esiste ancora un secondo esemplare di difficile lettura, monco al 60%). Va annotato 318 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 che in quest’arme le due bande sono state verosimilmente ‘scambiate’ dall’artigiano con due sbarre (fatto non raro!); infatti, s'ipotizza che il manufatto possa essere il prodotto di un opificio di ceramica operante in quel sito (?) tra il XIV ed il XVI secolo, poiché vi è stato rinvenuto abbondante materiale archeologico di vasellame, che attende ancora di essere ulteriormente studiato. “I Ferro sarebbero discesi dai signori di Beaumont in Fiandra e passati nel 1359 a Venezia con un Lazzaro detto de Rotarii, che vi avrebbe posto stabile dimora. (...) [Un diploma] sarebbe stato emanato dall’Im- peratore Federico III nel 1465 a favore del nob. milite Labaro Ferreo di Giovanni di Venezia, colla concessione della contea palatina a lui e successori maschi e della nobiltà del S.R.I. anche alle femmine. Sulla fine del sec. XVI i Ferro si divisero in due linee. La prima rimasta a Venezia ebbe dal Senato di Roma (1624) la nobiltà romana nelle persone di Alvise, avvocato e Giovanni dott. in teologia, figli di Lazzaro; e dall'Imperatore Leopoldo [ebbero nel 1658] la concessione della nobiltà d'Ungheria e dell’arma di questo regno nelle persone di Giovanni segretario della Repubblica Veneta, Giov. Battista, canonico di Treviso, Lazzaro, avvocato fiscale (...). Questi cinque fratelli, dietro l’offerta di centomila ducati, furono ascritti al Patriziato veneto con delibera del Maggior Consiglio del 1662. questa prima linea si estinse in Venezia nel sec. XVIII. (...)”. (SPRETI, III, 162-163). Invece, “questi vennero di Ferrarese, furono Tribuni antichi, e molto cattolici, ma spesso facevano briga, questi furono fatti nobili al serrar del Consiglio del 1310. per lo scoprimento del tradimento di Bagia- monte Tiepolo." (ANONIMO, "Cronica", 40). Di diversa opinione è il FRESCHOT, (323-324) che ritiene la casata "oriunda di Ferrara: vanta domicilio, et honori in Venetia dall'anno 982. Restata esclusa dal Maggior Consiglio nel serrar di esso sotto il Principe Pietro Gradenigo, ne reacquistò l'ingresso, e fregio di Nobiltà Patritia l'anno 1310, sotto il principato del Successore. Fra li Soggetti cospicui, che l'hanno honorato, e vantano le memorie la Fama, fù un Giovanni F. Senatore, e cavaliere grande, inviato Ambasciator per la pace a trattar tra Veneti, e Pisani l'anno 1250 e d'un Marino Proveditor con supremo comando nel Friuli, al tempo della guerra contro li Ongari, ch'appoggiavano le sollevationi della Dalmatia, circa l'anno 1300, e doppo tutti d'un Nicolò F., stimato l'anno 1618 meritevole della suprema dignità della Patria, perciò assonto nella ballotatione, quando rimase il Principe Antonio Priuli incorona- to. (...).” Cfr. CORONELLI, 48; AMIGONI, 1942, 226 e 1955, 47; BAXA, 10. Per il ramo fiammingo domiciliato a Venezia e fatto nobile nel 1662 (con arma diversa), cfr. CROLLALANZA, I, 404 (“di origine fiamminga, e di professione avvocati, offerirono per la guerra di Candia alla Veneta Repubblica centomila ducati, e ne furono rimu- nerati colla nobiltà nel 1662”); SCHRODER, I, 322-324; MIARI, 39-40 [“(...) si diedero alle segreterie, altri alla vita civile; quest'ultimi nella supplica che fecero per essere ammessi alla veneta nobiltà, offersero alla Repubblica crediti inesigibili, anzi- ché denaro sonante, per cui la loro supplica venne respinta”]; AA.VV., Famiglie, 157. Scudo a mandorla, con bordurina liscia sul fianco sinistro, sormontato da svolazzi e fiancheggiato da due rose forate (?). Arma: di azzurro a due bande d'oro. Dimensioni: a) frammento: 15 x 16 cm.; b) stemma: 7 x 10 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 319 FOSCARINI Arma gentilizia scolpita in bassorilievo stacciato su vera da pozzo epigrafa, collocata nel parco del Liceo italiano della città, appartenuta al podestà Vincenzo Foscarini (1546-1547), come da iscrizione: A.D. M.D. XLVI // V.(incenzo) F.(oscari- ni); stemma ed epigrafe in discreto stato di conservazione, anche se piuttosto lisi e quindi di difficile lettura. Il manufatto, di provenienza sconosciuta, poggia su una base quadrata, costituita su un lato da un architrave epigrafo attribuito al podestà W. B. Barbaro (vedi), del 1678. Va notato che Zuane Longo, suo predecessore, era morto in carica (?) “avanti il 23 agosto 1545” (NETTO, 141) - diversamente da quanto riferito dall’Angelini, mentre l’ingresso di V. Foscarini risale al 18 ottobre di quell’anno; fu così, infatti, che “nel tempo della messa grande del giorno 30 nov. 1545 verso l’eleva- zione si fece improvvisamente grandissima oscurità di tempo, e scoppiò una saetta con grandissimo tuono. Diede nel campanile, e gettò abbasso la cima: venne in chiesa, e levò il celebrante gettandolo coi piedi in giù dell’altare, che rotolò fino al coro ai piedi del podestà. Caddero anche il diacono ed il suddiacono, ma poco stante tutti e tre rinvenuti compirono la messa; ma il fante che cadde anch'egli, restò prostrato sino al termine della stessa, in pericolo di essere colpito da uno dei .... che tenevano la Pala dell’altare, spezzato quasi un passo dalla saetta; e di tal sorta fu il calore, che tutti i peli del petto giù dalla parte occulta fino alla coscia gli si bruciarono. Stramazzarono 320 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 del pari tutti i ragazzi che circondavano l’altare: parte rinvennero subito, e parte furono menati via dai loro parenti fra lo stupore e lo sbalordimento di tutti. La più parte restarono segnati sopra la loro persona di certi fiori rossi tiranti al paonazzo, tutti in similitudine di arbori, che un valente pittore non li avrebbe dipinti più belli, e non durarono più di due giorni”. (ANGELINI, V, 221-222 e VI, 58). Aveva retto la podesteria rovignese nel 1528 anche Lorenzo Foscarini. “Orionda d'Altino, hebbe l’Isole di Venetia per asilo di perseguitata innocenza, et in esse ricoveratasi con il valore, e la Nobiltà, pretiosi avanzi della prima conditione, trovò ben presto ne’ governi offeritili del Tribunato, ascendente a meliorata sorte. (...) E° numerosa la serie di porporati, Ambasciatori, e Generali, senza parlar d’altri di minor condotta, che sono in ogni tempo usciti da questa Casa. (...).” (FRESCHOT, 315-317). “Questi vennero dalla Contrade, furono savij e discretti, et furono fatti nobili al serar del Consiglio. (...) Vi è un’altra arma con li gigli, e fu levata da ms. Giacomo Foscarini Cavalier è Procurator, quali furono giunti nell’arma dal Re Henrico Terzo di Francia, è così la portano i suoi successori, che sono quelli da i Carmini.” (ANONIMO, “Cronica”, 42). Lo SCHRODER, I, 335-336, ricorda ancora: “(...) Marco Foscarini chiarissimo anche come autore della Letteratura Veneziana, era Doge nel 1762. Giacomo nel principio del Secolo XVII era Generalissimo di mare. Negli ultimi periodi della Repubblica li fratelli Sebastiano e Nicolò Cavalieri della Stola d’oro sostennero le principali Ambascerie. Esistono di questa famiglia li seguenti rami, che ottennero la conferma dell’avita nobiltà nelle epoche sottoindicate (1817-1826).” Si veda inoltre: “(...) Marco Foscarini fu uno dei nobili letterati della famiglia tanto da vantare nel suo palazzo sul Canal Grande una delle più importanti biblioteche del tempo. Fu Savio di terraferma e Savio del Gran Consiglio e nel 1762 fu nominato 117° doge della Repubblica Veneta. Esiste ancora oggi il Liceo Foscarini intitolato a suo nome nel 1867. Un ramo della famiglia Foscarini si trasferì a Trieste alla fine dell’800 ed ebbe in Umberto Foscarini l’ultimo capostipite della famiglia. Il conte Umberto ebbe nume- rosi figli (la moglie Margherita Maestro era ebrea), dei quali è attualmente vivente solamente una figlia, la contessa Libera de Foscarini, ora residente a Parigi, ed il figlio del suo primogenito Franco Foscarini. Recentemente scomparsa è la Nobile Dama Mafalda de Foscarini, la cui figlia Mafalda risiede tuttora a Trieste.” (AA. VV.,/ nobili, 27). Cfr. CORONELLI, 48 (cinque varianti dell'arma); CROLLALANZA, I, 426; BAXA, 11; TASSINI, 257-258 [“(...); un Antonio, uscito da questa famiglia, che, frequentando di notte la casa della contessa inglese Anna d’Arundel, ed accusato d’aver colà secreti colloqui esteri diplomatici, venne strozzato in prigione nel 1622, ma poscia fu dichiarato innocente”]; DE TOTTO, “Famiglie”, a. 1945, 37); AMIGONI, a. 1942, 227 (“d’oro alla banda di fusi accollati di azzurro”); RADOSSI, “Stemmi di Cittanova”, 302 (vescovo emoniense); “Stemmi di S. Lorenzo”, 215; “Stemmi di Albona”, 209-210 e Monumenta, 180-181; MORANDO, 1335-1340. Scudo gotico antico. Arma: “Porta d’oro con una banda fusata, ò di fusi azurri.” (FRESCHOT, Ibidem). Dimensioni: a) vera da pozzo: 90 x 100 x 100 cm.; b) stemma: 20 x 23 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.245-394 321 GASTALDO Probabile ‘blasone’ lapideo di Gastaldo patriarchino a Rovigno, scolpito in bassorilievo su pietra scura [quindi ‘importato’, come anche il successivo (!?)], custo- dito nel lapidario del Palazzo pretoreo sin dal 1935 (?); proviene da “Dietro la Caserma, le case segnate N. 43 — 44 — Stemmi dei Patriarchi (sic./) Fioravante e Gastaldione nel 1278” (PETRONIO, “65 Stemmi”, 6), dopo essere stato conservato per un lasso di tempo “nel cortile della Chiesa di S. Martino (aprile 1927)”, come documentato in COSSAR (“Quaderni”, RV-3, n. 48); in ottime condizioni di conser- vazione. Vari autori (Benussi, Kandler) ricordano un solo Gastaldo, nel 1209, tale Bertoldo Gastaldione, che ci viene confermato anche nel documento del Trattato di pace del 1208, tra Pirano e Rovigno, “pel quale si viene a conoscere cosa interamente sconosciuta agli storici e Cronisti nostri, di quelli delle altre provincie non occor dire. (...) Il trattato di pace è dell’anno milleduecentotto 1208, ed è conchiuso in Rovigno medesimo fra il Podestà di Pirano Leonardo de Tricano, e Bertoldo Gastaldione di Rovigno. Questo L. de Trichano [Dominus Leonardus Detricano qui tunc potestatis pirani regimen habebat, n.d.a] era certamente Podestà per il Patriarca d’Aquileja, perché i Patriarchi tennero lungamente fermo sul diritto di nominare i Podestà od almeno di approvarli, ed i da Tricano erano baroni potenti del Friuli (...). La dignità di Podestà che fino da allora aveva Pirano, mostra la condizione della città, la quale così veniva a parificarsi colle maggiori e libere della provincia, e da altri documenti apprendiamo che il Podestà era contemporaneamente Capitano cioè a dire Coman- dante delle armi. Per Rovigno intervenne soltanto il Gastaldione [Bertoldus Gastaldio de Rubinio (!), n.d.a.], indizio che il Castelo di Rovigno era castello soggetto, non libero, come la terra di Pirano”. (KANDLER, VI, 85-86). Considerata la forma dello scudo e del comparto lapideo di questo manufatto, caratteristici dell’epoca, è lecito proporne l’appartenenza proprio a codesto Gastaldo, che potrebbe averlo commissio- nato a suggello e memoria della raggiunta pace. Si ricorderà in proposito che i gastaldi 322 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 erano stati presso i Longobardi gli amministratori della ‘curtis’ del re, posti sotto la sua immediata dipendenza; successivamente anche la chiesa ebbe i suoi gastaldi per l’amministrazione dei propri beni e di quelli dei vescovi e dei monasteri, esistenza attestata pure durante l’alto medioevo, mentre più tardi furono chiamati gastaldi i capi delle borgate minori o ville, ovvero i capi delle corporazioni delle arti. Cfr. NATOR- RE, f. 53; PETRONIO, “Repertorio”, 24, n. 43; PAULETICH-RADOSSI, 105. Scudo torneario, con bordurina liscia, affiancato dal simbolo del compasso (?) e delle forbici da sarto (?), il tutto entro comparto a rotella con doppia cornice, liscia e a festone con foglie d’acanto. Arma: “mondo con fascia a mezzo orisontale, e quatro rose, due per campo, sopra il mondo la Croce a dopie braccia” (D. Petronio), cioè croce patriarcale a doppia traversa o di Lorena. Dimensioni: (diametro) 32 cm. GASTALDO Secondo minuscolo esemplare di ‘blasone’, scolpito in bassorilievo stacciato su frammento lapideo, appartenuto a Gastaldo patriarchino residente a Rovigno, venuto alla luce nel 2000, nel corso di lavori di ristrutturazione e di riatto, al secondo piano dello stabile inv. Dietro Caserma, n. 13 - “case segnate N. 43-44” [l’enoteca, proprietà della sigr.a Mira Borojevie che vi ha attualmente sede, si chiama appunto “A/ Gastaldo” ed espone sulla facciata le copie lapidee degli altri due ‘blasoni’ patriarchini qui illustrati, e che un tempo vi si trovavano murati in situ; al medesimo piano una splendida monofora in gotico veneziano (cornice dentellata), con due teste leonine sostenenti il davanzale]; il reperto, lievemente monco in punta, fu rinvenuto all’inter- no del secondo piano, quale ‘stipite’ di architrave di un cospicuo ‘caminetto’ distrutto ed occultato con materiale di spoglio (compresi una bottiglia ed un tappo in vetro, G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 323 integri), unitamente ad una singolare scultura apotropaica [dim.: 11,5 x 20 cm.; vedi disegno]: ambedue gli oggetti sono oggi accuratamente murati nel ristorante al pian- terreno, con l’arma patriarchina in posizione inferiore. La forma dello scudo e tutto l’insieme del manufatto lapideo fanno risalire quest'opera all’epoca della precedente e risulta essere, inoltre, riprova che l’edificio era stato proprietà e/o sede del rappre- sentante patriarchino rubinense. Va qui ribadito, con il KANDLER (VI, 89) che “il potere dei Gastaldi nei comuni liberi, o nei comuni affrancati non era né sempre né da per tutto eguale, perché non tutti i comuni ebbero eguali istituzioni”. Scudo a mandorla, con bordurina liscia. Arma: “mondo con fascia a mezzo orisontale, e quatro rose [stelle a 8 punte ?), due per campo, sopra il mondo la Croce a dopie braccia” (D. Petronio), cioè croce patriarcale a doppia traversa o di Lorena. Dimensioni: a) frammento lapideo: 11,5 x 24 cm; b) stemma:7x9 cm. GASTALDO Presunto stemma epigrafo di Fioravanti Gastaldione (?) che “nell’anno 1278 riconose di avvere il Feudo del Patriarca, la nottaria di Rovigno, per cui godeva la decima di ogni carta, o contratto di vendita, e otto soldi per ogni testamento, dei quali metà spetava al notaio che lo avveva scritto e l’altra metà a d’esso Fioravanti: BER- TOLDUS GASTALDO DE RUBINO(S) DOMINUS PATRIARCHARIAE PO- NUI INFRASCRIPTIS TERRIS GASTALDIONES SUOS(?). ANNO DOM. 1278. Probabilmente nell’anno 1278 propietà dei Patriarchi e di Fioravante Gastaldione erra sua dimora le case contigue in Contrada dietro la Caserma ai civici numeri 43 - 44 poiché in ciascun di esse case havi un stemma portante nel fondo dello scudo, il mondo con fascia a mezzo orisontale, e quatro rose, due per campo, sopra il mondo la Croce a dopie braccia”. (PETRONIO, “Repertorio”, 23). L’iscrizione: le iniziali “M. B.” nei cantoni destro e sinistro della punta [il *primo’ podestà veneto sembra essere stato Bertuccio Micheli (!?), nel 1331]. Nel 1927 il manufatto, scolpito in bassorilievo su pietra scura, risulta custodito “nel cortile della Chiesa di S. Martino (COSSAR, “Quaderni”, RV-3, n. 49), mentre a partire dal 1935 (?) è inserito nel lapidario dell’atrio nel Palazzo pretoreo; in ottimo stato di conservazione. Secondo il KAN- 324 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 DLER (VI, 89), “la presenza di Gasta/do in un comune è indizio che il comune fosse comune soggetto; però i Gastaldi durarono anche dopo lo sviluppo del governo municipale e durarono talvolta insieme al podestà che era carica municipale, ed al Capitano che divenne carica municipale quando i comuni emancipati ebbero il diritto alla guerra. La presenza del Gastaldo non è però indizio certo che mancasse il reggimento municipale; il Gastaldo è indizio siffatto solo dove mancano del tutto le cariche municipali, dove mancano i Consigli. (...) Quando in Istria il governo patriar- chino era venuto in uggia, e tentavano sbarazzarsene; i Veneti, i quali a giudicare dalle ribellioni frequenti delle città maggiori, non avevano fra gli Istriani grandi simpatie, allettavano i comuni minori a scuotere il governo patriarchino col concedere loro podestà, levando i Gastaldi, fossero poi i Gastaldi dati dal Patriarca, da altri baroni maggiori, o dalle città preponderanti. Così avvenne di Isola, così di Valle, così di Dignano, così di Buje, così di Albona, così di altri luoghi ancora”. Cfr. NATORRE, f. 56; PETRONIO, “Repertorio”, 24, n. 44 e “65 Stemmi”, 6; PAULETICH-RADOSSI, 105-106. Scudo a mandorla, con bordurina liscia, entro comparto rettangolare con triplice cornice (liscia e foglie d’acanto); foglie d’acanto nei cantoni destro e sinistro del capo. Arma: “mondo con fascia a mezzo orisontale, e quatro rose, due per campo, sopra il mondo la Croce a dopie braccia” (D. Petronio), cioè croce patriarcale a doppia traversa o di Lorena. Dimensioni: 42 x 51 cm. GIRARDI Notevole lastra calcarea un tempo “sopra l’antica muraglia guardante le cisterne della casa Angelini dietro Castello al N. 541” (PETRONIO, “Repertorio”, 59), oggi infissa nell’atrio del palazzo pretoreo, p.zza Matteotti, 1, con l’armeggio gentilizio G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 329 attribuito al podestà Francesco Girardi (1452-1453) — unico rettore rovignese di questo non frequente casato (presumibilmente estintosi molto presto, almeno questo ramo!); il reperto è in ottimo stato di conservazione (il sito originario, invia Svalba 14, porta ancora evidenti i segni della sua antica collocazione). “1452. Francesco Girardi. Teneva i pubblici incanti super salizada ante introitum Portus Rubini. Forse salizada il lastricato dello Stendardo che esiste tuttora all’entrare in questo porto di S. Catterina”. (AN- GELINI, VI, 52). “Girardo. Questi vennero da Fano, furono uomini mansueti, è di poche parole, et di questa casa vi furono molti uomini sapienti, et essendo venuti ad habitar à Venetia, et per i buoni portamenti di ms. Francesco Girardo alla guerra de’ Genovesi fù fatto del Consiglio del 1381”. (ANONIMO, “Cronica”, 46). Il FRE- SCHOT (328) aggiunge qualche particolare: “Li Antenati di questa Famiglia, oriundi da Fano, vennero di là à Venetia dall’anno 970. mansueti, di poche parole, e fatti assai (queste sono le parole d’antica relatione). Hebbero l’ingresso nel maggior Consiglio con gli honori della Nobiltà Patrizia l’anno 1381. per li meriti, et il valore di Lorenzo, e Francesco Girardi, con le persone, e facoltà benemerenti del Pubblico servitio nella Guerra de’ Genovesi, come il loro esempio hà animato in molti de’ loro posteri il zelo, che nella serie de’ tempi, li hà resi cospicui negl’impieghi, e nelle dignità. Ha honorato questa Casa con la fama della sua dottrina, et integrità, non meno che con l’Eminenza della sua Porpora, Maffio Girardi, Patriarca di questa Metropoli, e Cardinale di Santa Chiesa (...).” II CROLLALANZA (I, 483 e III, 243), ripete praticamente le medesime notizie storiche, ma distinguendo oltre al ramo veneziano, anche uno di “Pietrapiana (Trentino), inscritto nella matricola de’ nobili provinciali tirolesi nel 1567”, con un’impresa araldica completamente alias [un nucleo famigliare Girardi risiede a Pola a partire dal 1947, con Edoardo - maestro, proveniente da Castua-Fiume, dove la famiglia era giunta nel 1946; in effetti tale Domenico G., carpentiere, era emigrato da Treviso (1878) a Derventa (Bosnia) dopo l’occupazione da parte dell’ Austria-Unghe- ria, per prendere dimora successivamente a Doboj (Bosnia) 1908-1920, a Slavonski Brod, in Croazia (1921-1933) ed infine a Zagabria (1933-1945)]. II DOLCETTI (I, 48-49) riferisce che il casato “si chiamò Gherardi, Gernadi e Ghirandi. [Inoltre], alcuni deducono che questa famiglia sia originaria da Ravenna, altri da Fano nel 970. Esclusa dal Maggior Consiglio di Venezia nel 1297, fu riammessa nel 1381, e poi entrò nell’ordine dei cittadini originari. Diede un Cardinale alla Chiesa; Nicolò Girardi fu Gran Cancelliere di Venezia nel 1402; Giovanni oratore e dottore celebre; altri Girardi furono senatori”. Altro ramo, poi, furono i Girardi di Conco, imparentati con il potente casato dei Soster: “(...). [[nfatti, i Girardi furono] famiglia antica e ragguardevole per censo già nei secoli XVI e XVII. Alcuni suoi membri coprirono cariche pubbliche. (...) E’ ricordato Marco Girardi che fabbricò a sue spese e dottò di 16 campi arativi la chiesa di Conco il cui beneficio era jus patronato della sua famiglia.” (/bidem, IV, 97). Da parte sua lo SPRETI (III, 476) ricorda i Girardi Conti di Meduna, dimoranti a Dolo: “Con Ducale 7 sett. 1742 la Repubblica di Venezia concedeva a Lorenzo e Giovanni Girardi per il prezzo di ducati 500 v.c. una delle dieci carature in cui andava divisa la giurisdizione di Meduna in Friuli, col titolo di conte. Nella Ducale stessa vi ha cenno delle benemerenze acquistatesi verso la Repubblica da Giovanni Battista Girardi, fratello degli investiti, nella guerra di Morea. (...).” Cfr. FRESCHOT, 328 [“Porta vermiglio con una banda d’argento, e tre rose poste in palo, de’ colori opposti (...)]; ANONIMO, “Armi”, 51 (“Girardeo, blasonario capodistriano”);, NATORRE, tav. XVII.A, f. 28; PETRONIO, “65 Stemmi”, 8; BAXA I (Girardeo; colori araldici 326 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.245-394 tradizionali); CROLLALANZA, I, 483 (“Arma: di rosso, alla fascia d’argento, carica- ta di una rosa del campo ed accompagnata da due rose di rosso, una in capo, e l’altra in punta”); COSSAR, “Quaderni”, R-III, 54, BENEDETTI, Contributo, 328 (colori alias: “Interzato; d’argento nel 1° e 3°, il 2° di rosso, ognuno alla rosa dell’uno all’altro”); AMIGONI, a. 1942, 230; MORANDO, 1493-1500 (Girardo e Girardi); AA. VV. INobili,29 (“antica famiglia del Consiglio di Trieste detta anche Giraldi, Geraldi, Girardi o Gerardi; arma: interzato: d’argento nel 1° e 3°, il 2° rosso di rosso”); BONIFACIO, 37 e 39; AA. VV., Annuario, I, 1020. Nel CADASTRE, 251, risulta un nucleo familiare Girardi a Volosca, nel 1945. Scudo gotico antico (lunato) con bordu- rina liscia, cimato e fiancheggiato da foglie d’acanto; il tutto entro comparto rettango- lare saltellato. Arma: dirosso alla fascia d’argento con 3 rose disposte in palo dell’uno nell’altro. Dimensioni: 45 x 55 cm. GIUSTINIAN Arme gentilizia appartenuta al podestà veneto Anzolo Giustinian ( 1591-1592) scolpita in bassorilievo sull’architrave epigrafo “sopra la porta” della chiesetta di S. Croce, nell’omonima via; ai lati, esternamente, la datazione (A4)DMD//XCII; sull’ar- chitrave (20 x 100 cm.) della finestrella destra un’epigrafe datata, molto danneggiata e quindi illeggibile: IN. T. PODE..... N PE //1644 (presumibilmente l’anno di qualche restauro o comunque di intervento sull’edificio). L’opera è in buono stato di conser- vazione e si trova, ovviamente, in sito originale; il casato ha dato a Rovigno ancora tre rettori: Giustinian Giustiniani [1410-1411, durante la cui reggenza, “il 18 maggio 1410 (avvenne) il ritorno del corpo di S. Eufemia di Calcedonia, che nel 1380 era stato involato dai Genovesi.” In Saline, dove approdò, si costruì per memoria la chiesetta di S. Eufemia di Saline; “la forma della stessa, fabbricata sopra un lastrone naturale, di pietra, rappresenta una croce romana; l’altare è di pietra: ai piedi il 1625, epoca G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 327 certamente di questo altare”. (...) Si canta la messa il secondo giorno delle Rogazioni “con grande concorso di gente” e “il tragitto della processione dall’una all’altra riva è spettacolo commovente, solenne” (ANGELINI, V, 221 e VII, 88)], Anzolo Giustinian [1598, II volta (?), in ANGELINI, VI, 59], Zuane Piero Zustinian (1602-1603) e Zaccaria Zustignan (1658-1659). Il millesimo dell’architrave testimonia del coinvolgi- mento di Anzolo G. nella ‘fondazione’ del tempietto, a lungo erroneamente attribuita al podestà Francesco Baffo (vedi); infatti, “è la Chiesetta di S.a Croce di ragione del Comune, tra la Porta di questo nome, e la Puntolina. Fu fabbricata alla marina con la sua loggia murata dalla parte di terra, l’anno 1592, sotto il podestà veneto Francesco Baffo [recte: Anzolo Giustinian], come rilevasi da questo millesimo diviso dal di lui stemma, scolpiti e l’uno e l’altro sull’architrave della porta della Chiesetta”. (RADOS- SI-PAULETICH, “Le chiese”, 332-333). Negli anni settanta del secolo XIX, come riferisce il canonico rovignese T. Caenazzo, si prospettava per il tempietto una ‘tragica sorte’, poiché “persona irreligiosa ne fece domanda al Comune manutentore , per convertirla, in un alla loggia, in magazzino”. La faccenda ebbe lieto fine grazie alla famiglia Pergolis (abitante l’edificio continguo!) “che dovette però acquistarsela con contratto di compravendita ad 8 dicembre 1875 coll’esborso di fior. 306.30”, dopo che era stata “conservata e mantenuta da gran tempo dagli eredi Pergolis q. Giorgio q. Antonio”. Di proprietà del Museo Civico, oggi è relativamente ben conservata ma abbisogna di urgenti interventi strutturali, essendo stati il tetto e la loggia restaurati nel 1965 e 1975; la loggia ospita un piccolo lapidario. (Ibidem). Durante il suo reggimento Angolo G. “con Terminazione 23 marzo 1592 ordinava, che i fondachieri dovessero dare pieggieria e sicurtà del Fondaco. (...) [ E si ricorda che allora] passaro- no nuove colonie dall’ Albania negli agri di Parenzo, di Pola, e di Rovigno”. (ANGE- LINI, V, 221; VI, 59, 92). La casata è insignita della dignità dogale (due dogi); gli Zustinian Lolin ebbero, tra il 1848 ed il 1869, la signoria con il mero e misto impero di Barbana e Castelnuovo d'Arsa (Castello Rachele), già feudi dei Loredan e Pisani. Tra i rappresentanti illustri di codesto casato, “(...) Nicolò di Giovanni Vettore, (che) a 16 anni si fece monaco di S. Nicolò del Lido, ma essendo egli l’unico superstite di questa grande casa, per essere periti tutti i maschi nelle guerra di Venezia contro l'impero greco, il Doge di Venezia Vitale Michiel, inviò a Papa Alessandro III due nunzi Barbon Morosini e Tommaso Faliero perché ottenessero, come ottennero la dispensa al Nicolò dai voti monastici. Egli si sposò infatti nel 1173 con la figlia stessa del Doge chiamata Anna, con la quale ebbe 9 figli e 3 figlie. Ma il Nicolò ritornò poi nel convento di S. Adriano nell’isola d’Amiano, ora scomparsa e morirono tutti due in odore di santità”. (SPRETI, v. III, p. 499-500). “Originaria dell’Istria, verso il650 unramo si trapiantò in Venezia mentre altri due si stabilirono l’uno a Chioggia e l’altro a Ferrara. Più tardi, per distinguersi fra loro, i principali rami si dissero di S. Barnaba, Lollin, dei Vescovi. (...), e l’altro di Venezia assunse quello di Recanati”. (CROLLALANZA, v. I, p. 488-489). Vedi ancora SCHRODER (v. I, p. 383-387): “(...) la Repubblica per viste politiche stimò opportuno d’inviare nel 1170 tutti gl’individui d’essa Famiglia colla flotta colà diretta per debellarlo (l’Imperatore greco Emanuele, n. d. a. ), ma fatte avvelenare dal detto Imperatore tutte le cisterne, delle quali doveva servirsi quel convoglio, tutti perirono. (...) Papa Alessandro III fece uscire dai Chiostri il beato Niccolò Giustinian, cui diede in moglie la figlia (del Doge) Anna colla dote di tre Contrade di Venezia”. Cfr. CORONELLI (2 varianti), 30; NATORRE, tav. XVIII, f. 29; PETRONIO, “Reper- 328 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 torio”, 17; AMIGONI, a. 1942, p. 230; MORANDO, 1514-1524 (undici alias); RA- DOSSI, “Stemmi di Parenzo”, 391 (?), Monumenta, 193-196. Frequenti le varianti Giustiniani, Giustiniano, Giustignan, Zustiniano, Zustinian, Zustignan. Scudo accartoc- ciato. Arma: di rosso all’aquila bicipite d'oro, coronata, armata, linguata dello stesso, caricata nel petto di uno scudetto ovale di azzurro alla fascia d’oro. Alias: di rosso, all’aquila bicipite (col capo partito) spiegata d’oro, coronata dello stesso, caricata nel cuore di uno scudetto di rosso, alla fascia d’oro. Dimensioni: a) architrave: 25 x 144 cm.; b) stemma: 16 x 24 cm. GIUSTINIAN Altro esemplare dell’armeggio dei Giustinian, presumibilmente appartenuto anch'esso al podestà Anzolo G. (1591-1592), dipinto nell’angolo inferiore destro della pala d’altare della chiesetta di S. Croce (oggi nel deposito del Museo Civico), come del resto testimoniato anche da A. Angelini (RADOSSI-PAULETICH, “Le chiese”, 332) che lo attribuisce erroneamente ai Baffo (vedi), ed è “ripetuto appiedi della Pala, che rappresenta la Deposizione dalla Croce”. Va ricordato che nel 1561 era stato Preposito della chiesa rovignese tale Pre Marco G(i)ustignan, Patrzio veneto. (PETRO- NIO, “Repertorio”). “Questi vennero da Costantinopoli et furono del sangue di Giustinian Imperator, furono huomini savij, et di buon consiglio, ma superbi, furono scacciati da Costantinopoli dai Greci, da una famiglia potente, che si chiamavano i Belli, questi Giustiniani vennero nel Golfo Adriatico, dove da un chiamato Giustinia- no, fù edificata Justinopoli così chiamandola dal suo nome, et hora nominata Capo d'Istria, ma al tempo di Attila, quel loco abbandonato, è questi Giustiniani che erano tre fratelli si partirono, uno de' quali venne a Malamoco vecchio, e poi a Venetia, uno venne a Chioza, e l'altro andò à Fermo, et nota che quando si partirono di Costanti- nopoli, se volsero aver parte de' i loro beni, siconvenne prometter di mai portar la loro arma, giusta dell'Imperio, che era un'Aquila dorata, con due teste vermiglie, ma in quel loco levarno un Angelo bianco in campo azuro, poi per una gran guerra che G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atri, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 329 ebbero, co' Genovesi del 1103. mutarono quest'arma et ripigliorno l'Aquila d'oro con due teste, aggiungendo nel petto dell'Aquila una tressa d'oro in campo azuro, è ciò fù perché un msr Maffio Giustinian, valoroso Capitano della Gibelina, mentre presero Verona del 1149. Ritornando vittorioso levò la ditta arma, con la tressa d'oro, in campo azuro, è così tutti doppo l'hanno portata. Avvenne poi che nel 1163. havendosi guerra con l'Imperatore Emanuel di Costantinopoli fù attossicata gran parte dell’ar- mata con una acqua avvelenata dalla parte de Venetiani, et morirono tutti quelli de ca' Giustinian, ma giunto il Duce Michiel Vital à Venetia, mandò a tuor dispensa dal Papa, di levar dal Monastero di s. Nicolò del Lido, un frate giovinetto che era di questa famiglia detto Nicolò, et essendoli concesso li dette sua figlia per moglie, e da lui sono discesi tutti li Giustiniani, che hora sono." (ANONIMO, "Cronica", p. 47). Cfr. PE- TRONIO, “65 Stemmi”, 15; ANGELINI, VII, 84 (stemma su chiesa e pala — errori); PAULETICH-RADOSSI, “Stemmi”, 74-75; CIGUI, 259; RAYNERI (di), 364 (“An- tica e patrizia questa casa Veneta originaria dell’Istria dette alla Repubblica un doge, e alla chiesa San Lorenzo Giustiniani, Vescovo di Venezia”); AA. VV., Annuario, I, 1039-1041. Scudo ovale e accartocciato. Arma: di rosso all’aquila bicipite d’oro, coronata, armata, linguata dello stesso, caricata nel petto di uno scudetto ovale d’azzurro alla fascia d’oro. Alias: di rosso, all’aquila bicipite (col capo partito) spiegata d’oro, coronata dello stesso, caricata nel cuore di uno scudetto di rosso, alla fascia d’oro. Dimensioni: 14 x 16 cm. GRADENIGO Stemma scolpito su lastra calcarea con bordura liscia (?), in bassorilievo, e che il BENUSSI attribuisce al podestà Venier Gradenigo (1488-1489) ovvero a Vincenzo Gradenigo (1489-1490); il manufatto, che si trovava sulla Porta di S. Damiano, “sulla facciata verso l'Arco dei Balbi” (BUDICIN, 206), documentato in NATORRE (tav. 330 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovignod’Istria, Att, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 XXVI, f. 38) è da molto tempo irreperibile [dopo la demolizione dell’antico sottopor- tico con la Porta di S. Damiano e il suo successivo trasferimento nel deposito comunale di S. Martino (RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 409)]. Dal canto suo il PE- TRONIO ne attesta la presenza in “Repertorio”, 21 e in “65 Stemmi”, 11: “Stemma di Venier e Vincenzo Gradenigo furono Podestà di Rovigno il primo l’anno 1489 il secondo l’an. 1490, era questo il stemma sopra la porta Comunale N. 1”. Per Marco Gradenigo, primo rettore del casato, si sa che nel “1335 m.v., ultimo febbraio” il Senato ordinava “che le galere del nostro Comune levino e conducano a Rovigno o in altro luogo dell’Istria, senza però pregiudizio del loro viaggio, Marco Gradenigo, che va podestà colà.” (AMSI, III, 251), mentre il 13 agosto del 1429 dava “licenza a Marco Gradenigo podestà di Rovigno di venire a Venezia per 15 giorni essendogli morto il padre e un fratello.” (AMSI, VI, 30). Grazie all’ANGELINI (VI, 52), sappiamo che al tempo di Venier (1489) e di Vincenzo Gradenigo (1490), a seguito di Ducale 17 novembre (1489), si risolvevano “alcune istanze di questo popolo, fra le quali quella relativa al provvedimento dei frumenti di questo Fondaco.” Ressero pertanto la podesteria rovignese: Marco G. (1335-1336), Marco G. (1429), Venier G. (1489), Vincenzo G. (1480), Gaspare G. (1533-1534) - che risulta aver avuto due vicepodestà ‘Polo Diedo e Pietro Burla’, Francesco G. (1613-1614), successo a Polo Longo ‘morto in reggimento li 29 marzo’, con vicepodestà Zuanne Barocci. “Famiglia veneziana anticamente nominata Tradonico e che, secondo gli storici veneti, era originaria di Pola. Diede alla Repubblica il doge Pietro (836-864) che prese a compagno di governo il figlio Giovanni, e i seguenti tre patriarchi d’Aquileia: Agostino 1628, Marco III 1629, Gerolamo 1656. (...).° (BENEDETTI, VIII, 10). Infatti, “questi vennero da Aquilegia, furono Tribuni antichi, savij, et molto argomentosi, questi fecero edificar la Città di Grado, et le Chiese di ss.ti Apostoli, è s. Giovanni, che sono in Grado et nota, che questi et li Dolfini sono una casa medesima.” (ANONIMO, “Cronica”, 47). Sull’origine del casato, si veda in particolare FRE- SCHOT, 348-350: “Grado antica Metropoli della Provincia Veneta diede il nome a questa Nobilissima Casa, se piuttosto non è vero, come asseriscono molte Relationi, che questa gran Casa diede il nome, e la forma alla medesima Città. Egli è certo che li Gradenigo tennero il supremo Governo di essa, e vi furono fondatori della Chiesa di San Giovanni, solito saggio della pietà de’ gloriosi Antecessori di questa Serenissi- ma Nobiltà. (...). Le memorie, che fanno questa Casa oriunda d’Aquileja non contra- dicono punto a ciò, che viene da noi, soprascritto, poiché havendo Attila con li suoi Hunni dell’anno 452. (...) Rimasto dubbio il tempo, che la Casa Gradenigo si portò in Eraclea, è certo ch’ella fù delle dodeci prime, che elessero il primo Principe Paoluccio Anafesto. (...).” Si sa comunque che “i Gradenigo, partiti da Aquileja all’epoca delle incursioni di Attila, si stabilirono a Grado che edificarono e ne presero il nome. Fu una delle 24 case che istituirono la nobiltà patrizia veneziana ed una delle 12 che votarono la elezione del primo doge. Conta questa famiglia tre dogi, molti procuratori di S. Marco, patriarchi, vescovi, prelati, generali, senatori, ambasciatori, cavalieri. Si diramò nell’isola di Candia, dove fu potente. Meritano speciale menzione: Marco, di Bartolomeo, che nel 1263 quale capitano generale recuperò l’isola di Negroponte e presso Trapani ruppe i Genovesi. (...) Pietro, di Marco, fu eletto doge di Venezia nel 1288, guerreggiò contro i genovesi, ferraresi, padovani, riformò nel 1297 il maggior consiglio e distrusse la congiura Tiepolo Querini; morì nel 1311. Anna, sua figlia, fu moglie di Giacomo da Carrara, signore di Padova. Bartolomeo, di Angelo, fu eletto G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 331 doge nel 1339 e morì nel 1342. Giovanni, detto Nasone, di Marino, eletto doge nel 1355, morì nel 1356. (...).” (SPRETI, III, 532-534, con ben 4 famiglie). “Fuggita da Aquileia distrutta questa famiglia fu una delle prime abitatrici delle venete Lagune dove resse come Tribunizia il popolo, ed è una delle dodici Famiglie che elessero il primo Doge. Nel lungo giro di 13 secoli sei individui della medesima pervennero alla Suprema dignità di Doge. Il primo, che fu innalzato alla stessa, fu Pietro nel 836. Conta altresì questa illustre prosapia un rilevante numero di soggetti usciti dal suo seno che gloriosamente coprirono cariche di Procuratori di s. Marco, di Senatori, Generali, Ambasciatori e Prelati. (...).” (SCHRODER, I, 392-394). Cfr. CORONELLI, 51; TASSINI, 315-316 (“è originaria dalla Transilvania, ove teneva posto qualificato, e signoreggiava ampie possessioni, ma, esclusa per ire di parte, trasferissi in Aquileja, e vi dimorò fino alla distruzione di quella città; allora, come vogliono alcuni, andò ad edificare Grado, da cui in seguito passò a Venezia”); CROLLALANZA, I, 494; PAULETICH-RADOSSI, 108 (“stemma irreperibile”); RADOSSI, “Stemmi di Pa- renzo”, 391 (?) e Monumenta, 197-200; AMIGONI, “Il patriziato”, a. 1942, 230; BAXA, 11 (“Tradonico, Pola, Venezia); CIGUI, 259; RAYNERI (de), 367; MO- RANDO, 1552-1555; AA.VV., Famiglie, 191; AA. VV., I, 1063-1065. Scudo accartoc- ciato con bordurina liscia, entro comparto rettangolare liscio. Arma: di rosso, alla banda d’argento scalinata di sette gradini. Alias: di rosso alla scala d’argento, riempita d’azzurro, posta in banda. Dimensioni: (disegno Natorre): 6x9 cm. LEONE DI SAN MARCO Nimbato leone marciano andante verso sinistra reggendo libro chiuso, dipinto su cospicuo ‘coccio’ di brocca in terracotta, mancante del fondo; il reperto, rinvenuto sul fondale marino nella baia di S. Pelagio presso Rovigno nell’estate del 2004 dal dott. Vittorio Piccoli di Trieste (della cui collezione oggi fa parte), è dipinto, ma non 332 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 smaltato, ciò che fa supporre trattarsi d’opera ‘scartata’ nel corso della produzione e, quindi, non sottoposta al procedimento di ‘cottura’. Infatti, s'ipotizza che l’oggetto possa essere il prodotto di un opificio di ceramica operante in quel sito (?) tra il XIV ed il XVI secolo, poiché vi è stato rinvenuto abbondante materiale archeologico di vasellame, che attende ancora di essere ulteriormente studiato. Il leone presenta arrotondato muso con caratteri antropomorfici, fronte alta e fauci con tumide labbra ma chiuse (sorridenti ?). La criniera scivola sul corpo quasi glabro, disponendosi in ordine di ciocche cadenti piuttosto regolari. Le ali sono parallele e sollevate, con quella in secondo piano molto ben visibile, mentre la coda è svolazzante ad S. La fiera mostra soltanto parte degli arti e poggia su acqua e terra (?), circondata da fogliame, rose forate (?) e svolazzi. Il manufatto è in discreto stato di conservazione e, vista la mancanza della ‘ceramicizzazione’, è stato sottoposto a procedimento di ‘fissaggio’ presso il Museo Archeologico dell’Istria, in Pola. Forse va annoverato, anche se soltanto dipinto (!), fra i leoni veneziani del principio del Quattrocento, più antichi dell'Istria. Dimensioni: 10 x 15 cm. cca. LEONE DI SAN MARCO Secondo esemplare del leone marciano, piccolo ma elegante, in oro ed argento, inciso in una delle placchette esalobate del piede del ‘Reliquiario di S. Eufemia”, oggetto custodito nella sacrestia dell’insigne Collegiata della città; non figura né in Natorre, né in Petronio. Il Reliquario “rimanda ad un dono gentilizio, offerta solenne e preziosa per custodire alcune reliquie della martire, patrona e contitolare della chiesa rovignese. Sul dorso del piede a sei lobi, tra i medaglioni con le abituali immagini sacre del Cristo, della Madonna e di S. Giovanni, risaltano due scudi smaltati con gli stemmi delle famiglie Loredan [podestarile] (vedi) e Steno [dogale] (vedi). Appare abbastanza plausibile, e prudente, una datazione nell’ambito del primo Quat- G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atri, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 333 trocento, in relazione al dogado di M. Steno (1400-1413). Un ulteriore contributo alla precisazione cronologica potrebbe derivare dalla storia sul recupero del trafugato corpo di S. Eufemia, ritornato nella cittadina istriana nel maggio del 1401, un evento che sollecitò certamente il desiderio di onorare la santa ‘praesentia’ con opere signi- ficative che trovarono nel rettore e nel doge gli interpreti massimi. “L’evidenza della simbologia araldica definisce il pregio e il tono elevato, di sicuro pubblico e ufficiale, del dono, enfatizzato dalla placchetta con un leone di S. Marco dal muso antropomor- fo, nimbato, alato e accosciato con una zampa sul libro chiuso, indice inequivocabile non solo della tutela lagunare su Rovigno ma anche dell’origine veneziana dell’ogget- to”. (CRUSVAR, 254). Sembra essere cimato dalla corona (marchionale ?). Dimensioni: a) cornice esalobata: 3 x 3 cm; b) leone: 1,8 x 2,00 cm. LEONE DI SAN MARCO Leone marciano, scolpito a tutto tondo in pietra d’Istria (?) e posto in cima ad una delle due colonne un tempo esistenti sulla Piazza detta della ‘Riva Grande’, oggi inesistente. Il manufatto è documentato in due disegni del 1753 e del 1757 (cfr. BUDICIN, Aspetti, tavv. 116, 121 e 122) su una colonna marciana; il leone vi è “rappresentato con la coda sollevata ma probabilmente si tratta di un particolare convenzionale — alla quale [colonna] corrispondeva altra con la statua di S. Eufemia, mentre al centro era allineato un pilo di gonfalone, cimato di banderuola verosimil- mente con l'emblema marciano. Si ignora se il leone stilita — l’unico del genere sicuramente attestato in Istria — sia stato tolto durante il primo periodo austriaco, o 334 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 successivamente. Pare comunque, che esso sia stato sostituito nel XIX secolo da una statua di S. Giorgio. Le due colonne, successivamente impiegate per apporvi quattro lampioni su ciascuna, furono abbattute nel 1904, mentre al posto dell’antenna venne eretto nel 1922 il Monumento alla Redenzione’, a sua volta eliminato dopo la seconda guerra mondiale [nel 1947; recava la scritta ‘Italia-Italia-Italia Maestra di Civiltà alle Genti, n.d.a]”. (RIZZI, 128-129, n. 135). Cfr. BUDICIN, 205 (“nell’Ottocento le due sculture furono sostituite da fanali a petrolio, mentre nel 1904 al posto delle colonne vennero messi due candelabri con fanali a gas”); RADOSSI, “Gli stemmi”, 281 [esso era sulla sommità di una colonna con base e capitello; (...) la scultura a tutto tondo è andata probabilmente distrutta all’atto della venuta dei francesi o degli austriaci, dopo la fine della Serenissima”). Dimensioni: (disegno) ?. LEONE DI SAN MARCO Splendido esemplare del leone marciano, epigrafo, parzialmente monco, murato sulla facciata (II piano) della Torre dell’orologio, sovrastato da uno stemma comunale (vedi); la struttura fu eretta verso la metà del secolo XIX (?), apponendovi l’orologio (ivi trasferito dall’edificio del Fondaco di ‘Piasa Granda’), mentre “nel 1907 vennero immurati uno stemma cittadino (vedi), in origine sulla facciata del granaio-monte di Pietà (vedi), ed il leone marciano della Torre del Ponte, racchiuso in cornice saltellata, alato, nimbato e con la zampa anteriore destra poggiante sul fianco sinistro del libro aperto con l’impresa, ormai illeggibile, AL(L)IGER ECCE LEO TERRAS MARE SIDERA CARPO?”. (BUDICIN, 205). In RIZZI (130-131, n. 138): “leone marciano andante (seconda metà del XV sec.). Pietra d’Istria, leone nimbato andante verso sinistra reggente libro aperto (scritta anomala, ora molto consumata). Ha muso scorciato con fauci aperte in cui sono evidenziate due zanne e con abbondante criniera superiormente riccioluta ‘a gattoni’; le ali, rifatte come la coda, sono divergenti e la G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 335 coda svolazzante. Poggia su onde e terreno roccioso. Altorilievo entro cornice dentel- lata di rifacimento, eccetto in basso dove è listello. (...) Di rifacimento ottocentesco sono la lastra di fondo comprendente le due ali, l'orecchio sinistro — particolarmente bovino, il che ha contribuito a far paragonare questo /eone ad un vitello — la coda e i testicoli evidenziati. Successiva alla seconda (?!) guerra mondiale è la cornice dei lati lunghi assieme a parte delle onde e del terreno; superficiali aggiunte in cemento”. Il manufatto proviene dalla Torre del Ponte, ma non ab origine (?), dove era murato sopra la trabeazione che sormontava l’arco toscano, con l’epigrafe LO REPOSSO DEI DESERTI //MDLXIII (cfr. NATORRE, tav. IX, f. 10; PETRONIO, “Reperto- rio”, 2 e “65 Stemmi”, 1), all’altezza del primo piano, tra due finestre; dopo l’abbatti- mento della torre (1843), l’opera fu conservata per un certo tempo nel deposito comunale di “antichità nel cortile della chiesetta di S. Martino”, per essere collocata nell’ubicazione attuale nel 1907. In discreto stato di conservazione, presenta evidenti segni di corrosione con superficie solfatata. Cfr. NATORRE, tav. IX, f. 10; CAPRIN, I, 186-187; GORLATO, 49, fig. 48, con foto prima dei ‘restauri’ (!) [libro aperto, senza scritta (?) (...), ciò che ha di strano è la testa, simile piuttosto a quella di un vitello”];, RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 366 (“Sì l'Arco che la sovrapposta torre furono demoliti, e l'Arco in aggiunta distrutto vandalicamente, sotto il Podestà Giuseppe Blessich l’anno 1843. Fu risparmiato il Leone”); RADOSSI, “Gli stemmi”, 281 [leone alato nimbato e con la zampa anteriore destra poggiante sul fianco sinistro (anziché sulla parte superiore) del libro aperto. La scultura è stata rifatta in parte (bordo superiore ed inferiore), mentre presenta segni di logorio generalizzati”]. Dimensioni: 100 x 170 cm. IM rei 144 mi LEONE DI SAN MARCO Leone marciano lapideo, ‘in moleca’, oggi murato sulla facciata del Palazzo pretoreo, tra le due finestre del primo piano, risalente alla metà del secolo XV, “prelevato nel 1935 dall’edificio dell’ex Fondaco [e Monte di Pietà] di Piasa Granda”, sulla cui facciata (successivamente divenuta muro interno a seguito di notevole restau- 336 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 ro) era stata apposta nel 1767 una lapide gratulatoria (ancor oggi in situ) al Podestà e Capitano giustinopolitano Nicolò Berengan, sotto la reggenza del podestà arupinense Zan Battista Corner (vedi); infatti è questa provenienza del manufatto, custodito per un certo tempo in luogo protetto dalle intemperie, che gli attribuisce oggi l’ottimo stato di conservazione. Leone nimbato, reggente a sinistra il libro aperto, epigrafe in caratteri gotici compresa quasi completamente nella pagina di sinistra (nell’altra soltanto “LISTA // MEUS”): PAX // TIBI // MAR // CE E // VAN// GE // LISTA // MEUS. “Ha muso frontale con lingua all’infuori tra le fauci dischiuse che fanno vedere — solo a destra - la chiostra dei denti. La criniera è riccioluta attorno al capo, fluendo sul petto in regolari ciocche a rilievo depresso. Il ‘torso’ è sollevato e il tronco uscente dalle onde è glabro con incisioni parallele per indicare il costato e leggera peluria inferiore. S’intravede la zampa posteriore in secondo piano (‘hapax nel modulo della ‘moleca’). Mediorilievo entro cornice dentellata”. Il Gorlato non nc fa menzione (?). Cfr. NATORRE, tav. XXIX, f. 52, n. 246 B — leone marciano (il n. 245 A - lapide epigrafa, è ‘legato’ al precedente da una graffa, ad indicarne la ‘vicinanza’ topografica!);, BUDICIN, 209-210; RADOSSI, “Gli stemmi”, 281 (“Il Leone è qui stilizzato con la testa nimbata, le ali tese e le zampe anteriori reggenti il Vangelo, per cui è detto in moleca”). Dimensioni: 90 x 90 cm. LEONE DI SAN MARCO Sesto esemplare del leone marciano, presumibilmente un tempo infisso sulla facciata del Fondaco di San Damiano, oggi irreperibile. “Leone marciano andante a sinistra reggendo libro aperto dalla scritta consueta. Secondo un disegno di G. B. Natorre del 1851 il leone presentava nimbato muso frontale, ali parallele di tipo incrociato e coda svolazzante ‘ad uncino”: il rilievo, che era di epoca gotica come si evince dalla cornicetta dentellata, andò perduto in seguito al restauro del relativo edificio avvenuto nel 1841 [oggi sede del Centro di ricerche storiche UI di Rovigno, G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 337 n.d.a.]”. (RIZZI, 131, n. 140). Cfr. NATORRE, tav. XXIX, f. 50, n. 243; RADOSSI, “Gli stemmi”, 281 (“sopra il portale dell’antico Fondaco di piazza S. Damiano (piazza Matteotti), andato perduto dopo il restauro del 1841”). Dimensioni: (disegno Natorre): 13 x 17,5 cm. LEONE DI SAN MARCO Leone di S. Marco lapideo, scolpito in alto rilievo in pietra d'Istria, entro cornice saltellata non solidale alla lastra del rilievo, collocato nella cimasa dell’Arco della Porta della Pescheria Vecchia o Arco dei Balbi (vedi). Databile all’ultimo terzo del secolo XV; di provenienza sconosciuta, vi fu murato affiancato da due vasi nel 1678-79, al tempo del podestà B. Barbaro (vedi), che trasformò in elegante arco barocco bugnato il Portone. “Un secolo più tardi venne rialzata ed abbellita la trabeazione dell’arco: il leone veneto, affiancato ora da due volute, venne posto nel campo mediano del fregio, sormontato da un timpano troncato portante un vaso, mentre sopra l’architrave furono collocati due stemmi del podestà F. A. Balbi (vedi)”. (BUDICIN, 206). In ottimo stato di conservazione, porta nel libro aperto il moto augurale VICTORIA TIBI MARCE // EVANGELISTA MEUS, “particolarità piut- tosto insolita e rara, forse unica”. Leone andante (tipo stante) a sinistra. “Ha nimbo inciso sulla lastra di fondo. Il muso è frontale, lievemente inclinato, dalle fauci dischiuse ostentanti zanne aguzze. La lingua è all’infuori e le orecchie a ventole hanno caratteri elefantiaci. La criniera, superiormente arricciata ‘a gattoni’, fluisce in rade ciocche a fiamma mentre pelame è presente su ventre e zampe. Le ali sono divergenti e la coda svolazzante a S. Visibili sia testicoli che pene (rarità iconografica). Poggia su onde e rocce. (...) “. Cfr. NATORRE, tav. XIV, f. 19; CAPRIN, I, 179; GORLATO, 49-50, fig. 49 (“opera del XVI sec.”); RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 358, in 338 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV,2004, p. 245-394 particolare circa la denominazione ‘Pescheria’ (“Sotto i Veneti, e sino il 1816 circa era la Pescheria all'aperto nel Piazzale tra l'Arco di Riva-grande, detto Porton della Pescheria, e la Porta di S. Damiano demolita nel 1822”); RADOSSI, “Gli stemmi”, 281 [“Leone marciano sul settecentesco Arco della Pescheria, detto anche dei Balbi, costruito nel 1678/79. La scultura, opera del secolo XVII, è a mezzotondo. Il Leone è nimbato ed andante a sinistra, con il libro aperto, sul quale si legge il motto augurale (...), particolarità, questa, piuttosto insolita e rara.”]. Dimensioni: 100 x 160 cm. LEONE DI SAN MARCO Esemplare miniato del /eone marciano, dipinto (policromia) in capo allo splendi- do frontespizio del ‘Catastico delli beni stabeli della Sacrestia della Collegiata Chiesa di S.ta Eufemia di Rovigno”; sotto, a sinistra, lo stemma cittadino (vedi) ed il blasone del podestà Lorenzo Zorzi (vedi), alla destra. Il leone, cimato di un serto di foglie e fiori a festone, è affiancato a sinistra dall'immagine di S. Eufemia, a destra da quella di S. Giorgio, compatroni di Rovigno. Il manoscritto (dimensioni 24 x 34 cm.; cartella: 9 x 19 cm.) è custodito presso l’ufficio parrocchiale ed è in ottimo stato di conserva- zione. Leone andante (tipo stante a sinistra), tenente il libro aperto con la zampa anteriore destra, recante le parole nella prima facciata in quattro righe PAX TIBI MARCE, nella seconda facciata, similmente in quattro righe, EVANGELISTA MEUS (in seconda riga ‘GELIS’ invece dell’usuale ‘GELI”), con la scritta in lettere maiuscole romane di nero; nimbato, muso frontale lievemente rivolto a sinistra, fauci chiuse; la criniera, superiormente arricciata, fluisce in rade e lunghe ciocche a fiamma, con pelame su ventre e zampe. Ali parallele e coda svolazzante ad S. Poggia su acqua e terra (?), da cui si eleva un monticello cimato dal castello merlato alla guelfa con porta e due finestre e torre crociata sostenente il vessillo con il drappo sventolante a sinistra. Dimensioni: a) intero comparto: 9 x 24 cm.; b) leone marciano: 5,5 x 8 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 339 LEONE DI SAN MARCO Piccolo leone lapideo, murato sull’edificio di via Dietrocastello (oggi Svalba), n. 31 (civico nro 580), tra pianoterra e primo piano, sopra l’entrata. “Leone marciano coricato, tondo della fine del XIX o principio del XX secolo, importato dal Veneto, infisso dopo il 1990”. (RIZZI, 156, n. 35). Proprietà del dott. Vittorio Piccoli, di Trieste. Dimensioni: (diametro) 38 cm. LOMBARDO Cospicua arme gentilizia scolpita in altorilievo su lastra di pietra rettangolare ”ch’era sopra una casa N. 457 in Contrada S. Tomaso corte Abbà, ora esiste in Casa 340 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 Biondi, detta Contrada” (PETRONIO, “Repertorio”, 38), attualmente via del Monte, 33C. Viste le sue caratteristiche araldiche, dovrebbe essere appartenuta a Pietro (1409) ovvero a Giovanni Antonio Lombardo (1458); in ottime condizioni di conserva- zione, proviene verosimilmente dalla cinta muraria sottostante, dopo essere stata esposta per più di un secolo, sulla facciata della casa, interna al cortile. Per oltre 150 anni lo stemmafu erroneamente attribuito al podestà Pietro Lauro (1447), pur avendo di fronte un disegno eseguito già dal NATORRE (tav. XLIV, f. 67), ma che il Petronio (cit.) ritenne di ‘integrare’ aggiungendovi in capo le iniziali “P(ietro) L(auro)” e, in punta, la datazione “1476”, richiamandosi forse a “simile stemma in Parenzo alla sinistra (recte ‘destra’) d’ingresso alla Cattedrale, avente (sic!) ai lati del cane (?) le iniziali P.L. e sotto 1476; potrebbe darsi che fosse stemma di Pietro Lauro che fu qui podestà l’anno 1447, o di Polo Longo pur Podestà l’anno 1613”. [Verosimilmente il Petronio si riferiva alla seconda arma Lombardo qui trattata!]. Cinque furono i rettori di questa famiglia a Rovigno: Pietro Lombardo (1409-1410), Giovanni Antonio L. (1458), Piero (?) L. (1475-1476), Giulio L. (1623-1624) e Alvise Lombardo q. M. (1624-1626). L’ANONIMO (“Cronica”, 52) asserisce che “questi vennero da Giesolo, furono Tribuni antichi, savij, discretti, et amatori della sua Patria”; dal canto suo FRESCHOT (351-352) descrive tre imprese del casato, la seconda delle quali “porta d’azurro con un Leone passante de’ colori opposti”, aggiungendo che “questa Famiglia venuta da Lombardia abita in Venetia dall’anno 907 e nel serrar del Consiglio si trova connume- rata fra le Patrizie. Uno de’ suoi fù inviato Ambasciatore ad incontrare il principe Lorenzo Celsi, che marca distintione di stima, e di ricchezze. Visse l’illustrissimo Gabriele, uno de’ più famosi Avvocati del Foro, e la cui eloquenza sostenuta da modeste maniere, si udì con applausi nelli Tribunali”. Per TASSINI (346-347), il casato fu “sempre del Consiglio, e, se vogliam credere al Capellari, produssero circa il 1290 quel Marco, cognominato ‘Soldano’, introdotto da Dante nella sua Divina Commedia (...). Nomineremo pure un Pietro Lombardo, capitano valoroso della Repubblica, che fiorì circa il 1295; un Almorò, detto dall’Aquila, che nel 1380 pugnò vittoriosamente, come sopraccomito di galera, contro i Genovesi, e nel 1403 fu potissima causa che si riportasse vittoria sopra i medesimi; un Giovanni eletto vescovo di Parenzo nel 1388; un Luigi, finalmente, prode campione contro i Turchi nel 1472. I Lombardo, talvolta negli antichi tempi si confusero coi Lombardo”. Cfr. BAXA I (quattro varianti); AMIGONI, a. 1942, 266 (“1297, estinta 1702 e 1749”); PAULE- TICH-RADOSSI, 112; MORANDO, 1728-1736 (nove varianti). Scudo gotico antico con bordurina liscia, cimato e fiancheggiato da foglie d’acanto; il tutto entro comparto saltellato. Arma: spaccato d’oro e d’azzurro, al leone illeopardito (?) linguato, dell’uno nell’altro. Dimensioni: 58 x 72 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 341 LOMBARDO Significativo blasone gentilizio epigrafo, scolpito in bassorilievo su lastra calcarea rettangolare, ed appartenuto al rettore veneto rubinense Piero (?) Lombardo (1475- 1476), come da iniziali a lato ed iscrizione in cartella (?) sottostante: P(ietro) L(om- bardo) II MCCCCLXXVI. Va chiarito che l’oggetto è irreperibile (distrutto ?) da molto tempo (?), ma che comunque esso è certamente ‘esistito’ se il NATORRE (tav. XLV, f. 68) ne ha inserito nella sua raccolta l’immagine; tuttavia, la cosa si fa ancor più ‘misteriosa’ quando si constata che uno stemma quasi perfettamente identico (dim. 67 x 95 cm.) si trova murato alla destra dell’ingresso della basilica eufrasiana di Parenzo (RADOSSI, “Stemmi di Parenzo”, 395) e correttamente attribuito al casato dei Lombardo. Le ipotesi sono due: o qualcuno ha ‘trafugato’ (?) il reperto da Rovigno a Parenzo, ovvero la medesima persona ha retto prima la podesteria rovignese e poi quella parentina [dal 1476 al 1477(?)], apponendo in ambedue le sedi il medesimo ‘simbolo’ (si noti che nella ‘variante’ rovignese le iniziali “P. L.” compaiono interna- mente allo scudo entro comparto saltellato, mentre in quella parentina esse lettere sono esterne ed il comparto è bordato a listello!). Inoltre, considerata la collocazione del disegno nel ms NATORRE, è lecito evincere che lo stemma si trovasse nell’area di v. S. Tommaso / Oratorio, forse apposto sulla facciata dell’appena eretto primo ‘Ospitale’ rovignese (1475), oppure sull’esterno dell'adiacente cinta muraria, assieme ad un’arme cittadina (ad un centinaio di metri dalla ‘Porta Valdibora”!), anch'essa riportata di seguito nel ms Natorre (con cornice saltellata!), ma irreperibile da molto tempo [va ricordato che “le donne, dopo un secolo e mezzo circa dacché rimasero sole nel primitivo Ospitale, furono traslocate anch’esse per angustia e insalubrità del luogo, in altro edifizio in contrada Montalbano, in giugno 1852”, determinando certamente un primo intervento di restauro/riatto, con conseguente ‘trasferimento’ degli stemmi (?)]. “Originari di Lombardia e furono ricchi mercanti. Nel 1297 ottennero la veneta 342 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 nobiltà al serrar del Consiglio”. (CROLLALANZA, II, 30). Interessanti, poi, le notizie su un particolare ramo del casato: “Famiglia nobile di Pola dal 1675, oriunda di Candia [probabilmente è un ramo dei Lombardo, Patrizi veneti dal 1297], iscritta nel Libro d’Oro e nell’Elenco Ufficiale della Nobiltà Italiana coi titoli di Conte e Nobile, riconosciuti nel 1930. Compresa nel ruolo dei titolati istriani col titolo di Conte, concesso dalla repubblica Veneta nel 1788. Nell'anno stesso la Serenissima li riconobbe Nobili di Creta. Furono confermati Nobili dall’Austria nel 1848. Felice conte Lombardo sposò (sec. XVIII) Caterina Murray. Loro figlio Guglielmo conte L. sposò nel 1818 la contessa Domenica Totto da Capodistria. Il Conte Giovanni de L. fu Cavaliere dell'Ordine di Francesco Giuseppe I e Podestà di Pola nel 1850. Il conte Guglielmo L. di Felice di Guglielmo di Felice e di Teresa nata Wassermann, nacque a Pola nel 1865 e morì ad Abbazia nel 1937”. (DE TOTTO, a. 1946, 206). Ed in proposito lo SPRETI (IV, 139-140) lo dice “nobile di Creta mf; conte; dimora: Abbazia, villa Cotage” e ne ripete, con qualche minore dettaglio, la storia. Cfr. BAXA, 12 (“Conti, Trieste, Pola”); BAXA I (“Lombardo-Creta”); COSSAR, “Quaderni”, P, II, III(42) e IV (17); BENEDETTI, “VI”, 497-498 (“Abbazia”); AA. VV., Annuario, I, 1210-1214. Scudo a testa di cavallo cimato ed affiancato da festone e nastri; quattro rose negli angoli; il tutto entro comparto dentellato. Arma: troncato d’oro e d’azzurro, al leone linguato passante sulla partizione, dell’uno all’altro. Dimensioni: (disegno Natorre): 11 x 14,5 cm. LONGO Armeggio in pietra d’Istria scolpito a tutto tondo ed affisso nell’atrio del palazzo pretoreo [nel 1935 (?), presenta tracce di colore nero sulla fascia!], attribuibile al G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 343 casato dei Longo [fu detto anche ‘Zorzi’ (vedi), dal quale si distingue unicamente per gli smalti diversi); il reperto, in ottimo stato di conservazione (anche se leggermente danneggiato e monco in capo, fianco destro e punta), databile verosimilmente al secolo XVII (quando contiamo ben cinque rettori del casato), era murato — come documentato in NATORRE (tav. XIV., f. 19 e 22) - sopra la ‘porta piccola’ ad arco con chiave di volta (oggi essa è ad architrave) esistente al fianco destro dell'Arco dei Balbi (vedi), sovrastato da una tettoietta e presentava sotto lo stemma, una lapide epigrafa di cui non conosciamo il contenuto perché abrasata (il Petronio ignora quest’oggetto); non è da escludere che fosse stato un Longo ad aprire o a modificare quella ‘porticina’, nel corso del Seicento. Ressero la podesteria rovignese ben sette podestà di questa famiglia: Zuanne Longo (1472-1473), Zuanne L. (1544-1545), Paolo L. (1600-1601), Francesco L. (1650-1651), Francesco L. (1667-1668), Lunardo L. (1683-1684) e Vincenzo L. (1703-1704). Essi hanno lasciato chiara traccia della loro attività: così, al tempo di Zuanne L. (1545) oltre “all’incendio nel bosco della Fratta sopra questo territorio, (...) veniva approvata l’elezione ed aggregazione nel generale Consiglio dei nobili (cittadini) di Domenico qm. Lorenzo Bichiacchi”; durante il suo reggimento Paolo L. tentò inutilmente di far ‘collocare un Seminario’ della diocesi a Rovigno, mentre la visita del Vescovo (7 nov. 1600) constatò “che l’anime in tutto erano circa cinquemila e ch’erano cinque sacerdoti in tutto, canonici”; al tempo di Francesco L. nel 1651, “stante diversi disordini nell’elezione del predicatore per la quaresima l’inquisitore G. Bragadin precettava che (...) i giudici e il podestà nella prima riunione del consiglio dopo le feste di Pasqua dovessero proporre uno o più predicatori”; si sa che nel 1668, durante la reggenza di Francesco L. il “papa Clemente IX sopprimeva l’Ordine degli Eremiti di S. Girolamo della Congregazione di Fiesole [per cui] cessavano in Istria i Conventi di S. Girolamo sull’isola Caprasia presso i Brioni, e di S. Giovanni in Pelago presso Rovigno”, mentre lo stesso podestà fissava il prezzo del pesce “dal giorno di S. Giorgio in dietro sino tutto il mese di luglio, (...), dal I. agosto sino a S. Andrea (...) e da S. Andrea sino a S. Giorgio, per il pesce bianco (varioli, orade, dentali, riboni, cievoli, barboni, anguille, mormora), negro (caramalli, angosigole, sargo, scarpena, sparo, boba, suro, occhiata, tenca), matto e anguille”. (ANGELINI, V, 290; VI, 92, 95, 178; VII, 64, 74). Nel 1683, quando “Rovigno contava 7000 abitanti”, a seguito di “istanza di Mattio Sponza qm. Antonio presidente del Fondaco, e delli fondacchieri Domenico e Giacomo Quarantotto (...) contro l’uso di vender frumenti e farine a grave danno e pregiudizio di questo Fondaco”, la carica di Capodistria unitamente al podestà Lunar- do Longo, intimava doversi “contrattare con questo Collegio delle Biave per conto Fondaco, sotto pena di confisca del genere, e di esser processati criminalmente”. Ed infine, nel 1703-4 il Consiglio ed il podestà Vincenzo L. decretavano che “non si potesse passare all'elezione dei medici comunali, se 15 giorni prima non fossero promulgati gli editti, acciò potesse ogni medico sì terriere che forestiere concorrervi; (...) furono nominati due Ragionati che rivedessero i registri della Sacrestia di S.a Eufemia, per liquidare il credito della stessa verso i Fabbricieri, che abusarono di introitare da quando fu perfezionata la fabbrica del Campanile (1654) sino a quest’epoca la libbra d’olio per macina di tutte le olive disfatte nei torchi del Comune; [ed ancora] (...) “fu preso di concedere a Zuanne Nonis l’area della Beccarla [che erano] quelle due sconcie casette, di privata ragione, da vari anni inadoperabili perché demolita la scala, che veggonsi di fianco al ‘Corpo di Guardia’ in Piazza; [ed infine l°8 344 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 giugno 1704 si decise di scavare] (...) un nuovo Lago a desena (rebotta) per comodo della popolazione, appresso la chiesetta campestre della Concetta, ed in terreno in parte della Scuola di S. Michiele, e parte di particolari persone, (...) ora una metà del Lago è del vivente Mattio Ferrarese, e l’altra della famiglia Benedetti”. (ANGELINI, VII, 7; VI, 96 e 115-116). A Rovigno vissero un tale “Domenico Longo ob. 1490 e Marina q. Pietro ob. 1459, ospedalier g. Ant.o da Segna ob. 1450. (...)”. (RADOSSI- PAULETICH, “Un gruppo”, 354). La famiglia patrizia dei Longo, venne a Venezia da Rimini nel 1043, e fu ammessa al Maggior Consiglio nel 1381 “per le benemerenze acquisite nella guerra di Chioggia da un Nicolò, che teneva spezieria a Rialto. A lui si deve probabilmente la fabbrica del palazzo posto ai Servi. (...) Nel registro delle ‘caxe de rebeli della congiura Tiepolo che furono vendute trovasi cha Longo. I Longo si gloriano principalmente di quel Girolamo che, dopo aver combattuto impavidamente contro i Turchi sopra una galeazza, restò prigione, e rigettando l’esortazione dei barbari acciocché rinnegasse la fede cristiana, venne posto, circa l’anno 1463, fra due tavole, e segato per mezzo. Della famiglia fu “Antonio Longo, detto s. Franc.o (...) hebbe una stilettata da s. Piero Donà, in parlatorio a San Zaccaria, trovato a finestra de d. Maria Donà, monaca sua morosa, tradito dal Longo. Anche un Gaspare Longo venne ucciso nel 1697 in Campo S. Stefano, per causa di giuoco, da Michele Corner”. (TASSINI, 347). “E’ nominato tra gli altri Girardo fregiato dell’assoluto comando degli Eserciti della Repubblica nell’anno 1268. Nicolò e Lorenzo di benemerito valore nella guerra di Genoesi (...). Guglielmo Longo da Bonifacio VIII creato Cardinale. (...). L'arma antica faceva il Leone Vermiglio con una fascia azurra.” (FRESCHOT, 361-362). “Questi vennero da Rimano, il suo primo genitor fu bastardo delli Signori di Rimano, et poi furono fatti nobili di quel loco, è per le parte furono cacciati et vennero à Venetia, et per il buon portamento di ms. Nicolò Longo da s. Marcilian, alla guerra de’ Genovesi fù fatto del Consiglio del 1381.” (ANONIMO, “Cronica”, 53; due varianti dello stemma). “Questa famiglia ottenne la conferma di sua nobiltà con sovrana risoluzione 16. Nov. 1817”; comunque, gli altri Longo originari di Venezia, diedero una “lunga serie di senatori, governatori di provincie e distinti letterati. Marco di Alvise nel 1563 conte e capitano di Sebenico; Nicolò di Lorenzo castellano a S. Nicolò.” (CROLLALANZA, II, 31-32). Cfr. CORONELLI, 54 (quattro varianti dello stemma); BAXA, 12; SCHRODER, 446-447 (con tre rami domiciliati a Venezia); BAXA I (tre varianti, due con banda), RADOSSI, “Stemmi di Parenzo”, 396 e Monumenta, 254-255; AA.VV., [ nobili, 35 (per i Longo Baroni del SRI e per l’antica famiglia (plebea) del Consiglio, ambedue di Trieste); RADOSSI-PAULETICH, “Re- pertorio”, 409 [“Si conservavano nella famiglia Biondo a S. Tomaso due Stemmi in tavolette di pietra dei due Podestà Lauro (recte Lombardo, n.d.a.) o Longo, e Cico- gna”]; MORANDO, 1742-1748; BONIFACIO, 8. Nel CADASTRE del 1945 risulta- rono a Pola 2 nuclei familiari, a Rovigno 25 ed a Gimino 1. Scudo ovale con bordurina liscia, cimato da conchiglia aperta e da svolazzi (?), affiancato da otto volutine, in punta foglie d’acanto. Arma: d’argento alla fascia di nero. Dimensioni: 52 x 86 cm. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 345 LOREDAN Piccolo ma elegante stemma gentilizio in oro ed argento, inciso e smaltato in una delle placchette esalobate del piede del ‘Reliquiario di S. Eufemia’ appartenuto al casato dei Loredan veneziani, ovvero ad un supposto podestà rubinense di questa famiglia, collocabile nella prima decina d’anni del secolo XV, in relazione al doge Michele Steno (vedi) la cui arme, unitamente ad un Leone marciano (vedi), compare sul medesimo oggetto custodito nella sacrestia dell’insigre Collegiata della città; non figura né in Natorre, né in Petronio. Il Reliquario “rimanda ad un dono gentilizio, offerta solenne e preziosa per custodire alcune reliquie della martire, patrona e contitolare della chiesa rovignese. Sul dorso del piede a sei lobi, tra i medaglioni con le abituali immagini sacre del Cristo, della Madonna e di S. Giovanni, risaltano due scudi smaltati con glistemmi delle famiglie Loredan [podestarile] e Steno [dogale]. (...) Appare abbastanza plausibile, e prudente, una datazione nell’ambito del primo Quat- trocento, in relazione al dogado di M. Steno (1400-1413)”. (CRUSVAR, 254-257). Un ulteriore contributo alla precisazione cronologica potrebbe derivare dalla storia sul recupero del trafugato corpo di S. Eufemia, ritornato nella cittadina istriana nel maggio del 1401, un evento che sollecitò certamente il desiderio di onorare la santa ‘praesentia’ con opere significative che trovarono nel rettore e nel doge gli interpreti massimi. Il casato diede a Rovigno ben 12 podestà (qui incluso l’ipotizzato dell’avvio del secolo XV): Marco Loredan, (1340), Antonio L. (1497-1498), Marc’Antonio L. (1541-1542), Sigismondo L. (1569-1570), Camillo L. (1620-1621), Anzolo L. (1626- 1627), Zuane L. (1646-1647), Francesco L. (1701-1702), Francesco L. (1710-1711, seconda volta?), Domenico L. (1712) e Francesco L. qm. Marco (1780-1781). Nel maggio 1570, con propria Terminazione, Sigismondo Loredan, podestà, ordinava che “ipegni di debito non si potessero vendere al pubblico incanto nei giorni di Domenica, né nelle feste comandate in osservanza al precetto di santificazione, e nemmeno nei sabbati, perché giorno di riposo all’Israelita”; nel 1647, Z. Loredan su indicazione della carica di Capodistria, “proibiva ai fondacchieri di più somministrare frumenti e farine ai debitori del fondaco (...) ed ordinava che questi abitanti non fossero aggravati della pena di nessun interesse per la prorogazione concessa al pagamento delle ricevute farine, in vista della loro povertà e miseria”. Si dice che “questi vennero da Bertinoro, chè è in Romagna, questi edificarono Lordo, etvi abitarono gran tempo, è poi vennero à Venetia, furono uomini valenti alle cose da mar, et molto superbi, ma pronti al ben 346 G.RADOSSI, L’araldicapubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.245-394 della Patria, questi furono fatti nobili al serar del Consiglio”. (ANONIMO, “Cronica”, 53). “Si può far risalire all’undecimo secolo l'origine di questa famiglia, di cui ora non sussiste che un solo ramo. Marco Loredan, che viveva alla metà del sec. XIV era Procuratore di S. Marco e fu uno degli elettori del doge Andrea Dandolo. Contempo- raneo ad esso fu Paolo, rivestito di tale dignità e che si distinse nelle più elevate cariche militari di terra e di mare. Il massimo lustro venne a questa casa da Pietro, che ricuperò dalle armi dei Turchi le più importanti fortezze e posizioni militari della Dalmazia; ruppe i Genovesi e sostenne la Repubblica lacerata da intestine discordie e morì nell’anno 1439. In quello stesso secolo, Luigi, Giacomo ed Antonio, tutti Procuratori di S. Marco, si distinsero in importanti incarichi. Leonardo per 19 anni portò lo scettro dello Stato (1501-1521), morì in età di 85 anni; il suo mausoleo trovasi nella Chiesa dei SS. Giov. e Paolo. Ad egual dignità pervennero: Pietro (1567-1570) e Francesco (1752-1762). Gian Francesco, fiorì nel sec. XVII, ed oltre aver coperte importanti Magistrature, fu uomo di scienze e di lettere, creò l'Accademia degli Incogniti. Alla caduta della Repubblica Veneta esistevano i rami detti di S. Luca, S. Giovanni in Bragora e S. Pantaleone, ora non esiste che quello detto di S. Vio. (...).” (SPRETI, IV, 146-147). Inoltre, si veda REINHARDT (641-643), circa l’arme ma anche sulla storia del casato: “Lo stemma dei Loredan è diviso in oro e azzurro e presenta tre rose azzurre nella metà superiore e tre rose d’oro in quella inferiore. La posizione di primo piano che i Loredan occuparono all’interno della nobiltà veneziana quale una delle ‘nuove’ famiglie, è attestata dai loro tre dogi (due nel XVI e uno nel XVIII sec.) e dai dodici procuratori di S. Marco. Nella prima metà del XV secolo, Piero Loredan comandò con successo la riconquista della Dalmazia contro l'occupazione ungherese e l’annessione di parti dell’attuale Albania (...). Andrea L., un discendente di Piero, fece costruire lo sfarzoso palazzo sul Canal Grande, Cà Loredan, che dopo molti cambiamenti di proprietà porterà il nome di Vendramin-Calergi (qui morì nel 1883 Richard Wagner). I contemporanei trovarono orgoglioso e superbo non solo il palazzo — a causa delle sue insolite dimensioni, soprattutto dell'altezza, che offendevano le norme e anticipavano il futuro — ma anche il suo committente. Nel 1509 Andrea fu infatti esiliato per sei mesi (...). Leonardo L. (morto nel 1521) nel 1480 si incaricò con altri della costruzione della chiesa di Santa Maria dei Miracoli. (...) Durante i vent'anni del suo governola Serenissima si trovò a dover affrontare, con la guerra contro la Lega di Cambrai, una delle sue prove più difficili. (...) Determinante per il superamento della crisi fu in misura considerevole la lealtà delle città della terraferma, che si sentivano più al sicuro sotto l’amministrazione pragmatica e corretta della Serenissima che sotto il dominio degli invasori monarchici e sfruttatori. (...) Altri rami produssero significative personalità in campo politico, militare e culturale: Pietro L. (1481-1570, doge negli anni 1567-70) rimase nella memoria dei veneziani di basso ceto come il ‘doge della fame’ perché introdusse la carta del pane in tempi di carestia. (...) Gian Francesco L. (1606-1661) si distinse non solo come collezionista d’arte, romanziere e saggista, ma anche come fondatore dell’Accademia degli Incogniti. (...).? Cfr. CORONELLI, (cinque varianti); BAXA, 12 (“Loredan, Lauredano); DE TOTTO, “Feudi”, 94; RADOSSI, “Stemmi di Valle”, 380-381; “Stemmi di Albona”, 213 e Monumenta, 255-265; MORANDO, 1750-1754; KRNJAK-RADOS- SI, 174; AA.VV. Famiglie, 224. Scudo gotico lunato, entro comparto esalobato. Arma: troncato d’oro e d’azzurro, ciascun punto a tre rose forate dell’uno nell’altro, nel 1° punto in fascia, nel 2° poste 2 e 1. Dimensioni: a) cornice esalobata: 3 x 3 cm; b) stemmino: 1,5 x 1,8 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 347 LOREDAN Secondo esemplare dell’arme dei Loredan, scolpito su lastra calcarea mutila (50%), infissa sul muro sotto l’archivolto d’entrata (superiore) del Liceo italiano di Rovigno; il reperto, considerate le sue caratteristiche scultoreo-araldiche, potrebbe essere appartenuto ad Antonio Loredan che resse la podesteria rubinense tra il 1497 e il 1498. Di provenienza ignota, sconosciuto al Natorre e al Petronio, è in buono stato di conservazione. Una testimonianza ci ricorda che il rettore Marc'Antonio L. “seden- do pro tribunali sotto la piccola Loggia del Comune il 4 gennaio 1542 fece pubblicare la Terminazione che schiariva dei danni circa gli animali da lavoro introdotti a pascolare nella piccola Finida”. (ANGELINI, VII, 64). Nel secolo XVIII troviamo ben quattro podestà appartenenti a questa famiglia; al tempo di Francesco Loredan, rettore dal 25 febbraio 1701 al 1 luglio 1702, il Consiglio municipale “stabiliva doversi dilitare la Finida, e che per pascere i bovi nei luoghi di olivi, o di altre piante, si dovesse ligare alle corna una fune terminante in corto spazio a un piede; (...) deliberò di non conceder a chi si sia lo Squero di Valdibora per fabbricar case in alcun tempo; (...) il popolo di Rovigno cominciò con ispontaneo comunale concorso la fabbrica del Convento e della Chiesa di S. Francesco di Assisi”. (ANGELINI, VI, 58; V, 290; VI, 115). All’epoca di Francesco Loredan (1710-1711) “si può stabilire la fabbrica dei molini a vento, ch’esistevano sul monte che prese quel nome, poco distante da Rovigno vers’ostro”; mentre il Consiglio, sotto la reggenza di Domenico Loredan (1712) deliberava “di ristaurare la prigione oscura, ch’era a pianterreno sotto la scala 348 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 della Casa comunale, ora al civico num. 1”. (ANGELINI, VI, 129). Sulla storia della famiglia, I CROLLALANZA (II, 32) scrive: “Originaria di Bertinoro e trapiantata in Venezia, fu ascritta a quella nobiltà nel 1297. Dette alla patria due dogi (?), dodici procuratori di S. Marco, molti capitani generali, senatori e magistrati; furono inoltre alcuni dei Loredan conti e capitani e castellani di Sebenico. Ottennero la conferma della loro avita nobiltà con sovrana risoluzione 1817, e la dignità e il titolo di conti dell’Impero Austriaco con altra sovrana risoluzione 1820.” Merita qui accennare ai Loredan di Barbana, Castelnuovo d’Arsa (BENEDET- TI, VII, 11): “La famiglia L., patrizia veneziana, acquistò nel dicembre 1535 per 14.760 ducati il feudo di Barbana e Rachele (= Castelnuovo d’Arsa). I due castelli formavano, a differenza di quasi tutte le altre giurisdizioni istriane, un feudo nella discendenza mascolina e femminina e i Loredan avevano la giudicatura civile e criminale in prima e seconda istanza [che fu poi divisa tra essi ed i Pisani ed infine passò ai Zustinian Lolin, n.d.a.].” Dal seno di questo casato “uscirono tanti uomini illustri che noi ci troviamo imbarazzati nel farne la scelta. Merita tuttavia speciale menzione quel Pietro per tre volte generale di mare, che nel 1416 conquistò Traù, Sebenico, Spalato, Clissa, Lesina, Curzola, con altri luoghi della Dalmazia, e poscia ruppe i Turchi a Gallipoli, prendendo loro quindici galere. Il medesimo conseguì pure nel 1431 pieno trionfo sopra i Milanesi e i genovesi nel golfo di Rapallo colla presa di otto galere (...). Egli morì nel 1439 lasciando erede delle proprie virtù il figlio Giacomo che, generale pur egli, nel 1453, incendio 22 navi degli infedeli, e gli sconfisse nel 1464. Anche Luigi, cugino, ed Antonio, figliuolo di Giacomo, fecero più volte oscurare sui mari la luna ottomana. (...)”. (TASSINI, 347-349). Cfr. AMIGONI, “Il patriziato”, a. 1942, 266; BAXA I; PAULETICH-RADOSSI, 124 (erroneamente attribuito ai ‘Que- rini?); RAYNERI (di), 400; RADOSSI, “Stemmi di Montona”, 206 (tre esemplari); CIGUI, Corpo, 66; KRIZMANI/E, “Stemmi di Barbana”, 527-537; AA. VV., Fami- glie, 224 (“cimiero il corno dogale”). Scudo gotico antico lunato con bordurina liscia, sormontato da una rosa forata e da foglie d’acanto; il tutto entro comparto saltellato. Arma: troncato d’oro e d’azzurro, ciascun punto a tre rose forate dell’uno nell’altro, nel 1° punto in fascia, nel 2° poste 2 e 1. Dimensioni: (frammento): 53 x 55 cm. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 349 ila NPA, Les dig e È hg MALIPIERO Armeggio gentilizio in bassorilievo scolpito su lapide calcarea ed appartenuto molto verosimilmente per le caratteristiche araldiche al podestà Ambrogio Malipiero (1425); il reperto è stato portato alla luce nei primi mesi del 2004, in v. S. Croce n. 49, durante i lavori di riatto dell’edificio. Infatti, la lastra era inserita nel muro interno dello stabile, presumibilmente in situ, cioè sulle mura cittadine, alle quali, a partire dal secolo XVII, vennero addossate le nuove costruzioni; in discreto stato di conservazio- ne, presenta molte ed evidenti abrasioni e danneggiamenti da scalpello/martello, risultando particolarmente monca la cornice saltellata. L'oggetto, ovviamente scono- sciuto al Natorre e al Petronio, si trova oggi esposto all’interno dell’abitazione, al III piano, parete nord. Sono stati evidenziati tre rettori rubinensi del casato: Ambrogio Malipiero, (1425), Lunardo M. (1531-1532) e Piero Malipiero (1573-1574); ad essi va aggiunto un quarto podestà, Daniele Malipiero, collocabile nella prima metà del secolo XV, come risulta dall'iscrizione “ che scorre in lettere gotiche con il nome del donatore, membro [podestà !?] di una nobile famiglia veneziana, sulla veretta esago- nale, sotto il nodo” (CRUSVAR, 254) del calice tardogotico nella sacrestia dell’insigne Collegiata di Rovigno: + DNO DANIELI MALIPETRO I TENPORE SUO. Con Terminazione 23 settembre 1531, il podestà Lunardo Malipiero “ordinava la buona tenuta dei Libri, e la regolarità delle partite nei Registri del Cancelliere, e del Camerlengo del Comune, che prima erano in tutto disordine”; (...) inoltre, “firmava il 13 dicembre dell’anno medesimo “due atti di fideiussione di Duc. 50 giusta la forma legale: l’uno per il notariato del prete Cristoforo Cattena, e l’altro per quello del canonico Giovanni Malusà”. (ANGELINI, VI, 58 e V, 222). Il suo ‘successore’ di casato, Piero Malipiero dovette purtroppo occuparsi dei simili situazioni, visto che con Terminazione 8 maggio 1574 “proibiva di ricercare e poner mano nei Libri della 350 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 Cancelleria si scivili che criminali senza licenza, onde togliere che più non si abusi degli stessi col trafugarli o strapparne le pagine”, mentre con altro atto del 14 giugno successivo, “ a toglimento degli abusi introdotti nel consiglio, decretò la privazione per 10 anni di sedere in quello a chi sotto qualsiasi motivo, colore o pretesto, domandasse o promettesse il voto per ottener cariche con promessa o patto di dare o ricevere un pranzo, od altre cose”. (ANGELINI, VI, 57 e V, 288). I Malipiero, anticamente denominati Mastropiero, vennero dalla Germania in Venezia fin dai primi tempi della sua fondazione e nel 908 furono del Consiglio degli Ottimati. Curiosa ma interessante l'origine in ANONIMO, “Cronica”, 55: “Questi prima erano chiamati Magistrelli è poi si fecero chiamar Miseropietri, è doppo Malipiero, questi vennero de Altin, et furono i primi che usassero la cana per governar Navigi), et stavano in Canaregio, et ivi se servivano portate le cane, è perciò si chiama Canaregio, questi fecero edificar la Chiesa vecchia in s. Gicremia.” Aggiunge il CROLLALANZA, II, 55: “(...) Ebbe diversi ambasciatori, senatori, avogadori di comune, podestà e generali d’armata. Angelo-Benedetto Malipiero fu confermato nell’antica nobiltà con sovrana risoluzione del 1° gen. 1818”. Comunque è certo che i Malipiero, “venuti da Altino alla fondazione di Venezia, chiamavansi anticamente Magistrelli, e poi Maistropieri [Malipiero e Ma- stropiero erano i nomi di due casate diverse; il capostipite dei Mastropiero è sicuramen- te un ‘magister Petrus’ (...); invece da un ‘Marinus Petrus’ o ‘Petri’, derivarono i Marinpetro o Maripedro che per dissimilazione furono chiamati Malipedro e, venezia- namente, Malipiero). (...) Orio Malipiero salì alsoglio ducale nel 1178, che illustrò colla sottomissione di Zara ribellata, e colla spedizione d’un’armata in Terra Santa. Ma nel 1192, dopo 14 anni di governo, abdicò, facendosi monaco. Un Pierazzo della medesima famiglia, essendo nel 1380 sopraccomito contro gl’Istriani, ruppe un ponte fatto dai nemici, e ricuperò Capo d’Istria. Anche Pasquale Malipiero ebbe il berretto ducale nel 1457. (...) I Malipiero brillarono per altri guerrieri, per altri letterati, e per alcuni vescovi. Fra i membri più moderni di questa famiglia che si estinse nel 1856, c’è quell’Angelo, il quale essendo stato confinato nel 1797 nell’isola della Giudecca, divenne mezzo pazzo, e ricusò di ritornare in città anche dopo la caduta della Repubblica, dicendo che un decreto del Consiglio dei X avealo bandito, e che soltanto un decreto consimile poteva liberarlo. Mandassi pertanto un cotale, camuffato da Comandador, ad intimargli il ritorno, al che il Malipiero obbedì, morendo nel 1826 scemo di cervello, e fisso nell’idea che la Repubblica ancora sussistesse”. (TASSINI, 368-369 e 744). Cfr. CORONELLI, 57 (con ben 14 varianti-alias); ANONIMO, “Armi”, 60 (disegno poco preciso) e 141 (semivolo sinistro); (FRESCHOT, 357-358); SCHRODER, I, 461 (“Furono confermati nobili con Sovrana Risoluzione primo gennaio 1818”); BAXA, 12; (“Malipiero — Pirano”); DE TOTTO, “Famiglie”, a. 1946, 251; BAXA I (due varianti); AMIGONI, a. 1942, 267; BENEDETTI, VII, 11 (“Fa- miglia patrizia veneziana che ebbe il feudo di Isola Morosini. Fra gli uomini di governo che diede all’Istria ricorderemo Natale podestà di Pirano 1463-4 e altro 1477”); RADOSSI, “Stemmi di Valle”, 382-383 (due reperti) e Monumenta, 2678-269; MO- RANDO, 1847-1852; CIGUI, Corpo, 67-68; AA.VV., I Nobili, 35-36 (“esistente anche a Trieste”); CHERINI-GRIO, Bassorilievi, 140. Scudo gotico antico lunato con bor- durina liscia, affiancato in punta da foglie d’acanto; il tutto entro comparto dentellato. Arma: D’argento, al semivolo destro spiegato di nero, sostenuto da un artiglio dello stesso. Dimensioni: 38 x 50 cm. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Att, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 351 MICHIEL Blasone gentilizio dell’insigne famiglia tribunizia dei Michiel, scolpito a tutto tondo, presumibilmente in legno, e collocato al sommo d’immagine pittorica sacra (0 altare?) nel “Duomo” rovignese, come si può evincere dal f. 79 in NATORRE, e chiaramente affermato in PETRONIO (“Repertorio”, 61) nell’illustrare uno stemma cittadino (vedi) di consimile fattura. Purtroppo, ambedue gli oggetti di cui sopra, sono irreperibili da lungo tempo. Ressero la podesteria della Terra: Thomas Michael (1306), Bortolomeo Micheli (1308-1310), Francesco Michiel (1485-1486), Donato M. (1507), Vittore M. (1534-1536), Ermolao M. (1544-1545), Gio. Batta M. (1548-1549), Zan Francesco M. (1555-1556) e Nicolò M. (1561-1562). E' documentato che nel 1507, sotto il reggimento di Donato Michiel, “sopra istanze di questo popolo (...) il Podestà doveva riscuotere dai Fondacchieri prima il ‘Cavedal’ (Capitale) e poi le pene a loro spettanti, onde il Comune potesse conseguir ciò ch’era suo dal Fondaco, (...) e non potevano torre in questa contrada animali di nessuna sorta e che pagassero erratico come avevano cominciato a torlo gli animali dei famigli. (...) “Nel giorno 13 febbraio 1535 [Vittore Michiel] sentenziava pubblicamente sub Lodia magna a favore di Pietro Burla cittadino (Nobiles) del luogo per lungo pacifico possesso, e contro Benedetto Giotta sindaco del comun, il quale voleva obbligarlo, che nel termine di un mese dovesse farsi confermare in Venezia, altrimenti s’intendesse escluso dal Consiglio, giusta il sentimento d’un proclama su tal proposito”. (ANGELINI, VII, 63-64 e V, 221). Con Terminazione 27 settembre 1549, Gio. Batta Michiel “ordinava che le .crivellature dei frumenti fossero del Fondaco, e non più a benefizio del fondachiere”; a sua volta, il podestà Nicolò Michiel, con Terminazione 27 dicembre 1561 decretava 352 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Arti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 “che i frumenti e le farine del Fondaco non si potessero più vendere a minor prezzo del costo, sotto pena di |. 100 al fondachiere”. (ANGELINI, VI, 58). “Questi vennero da Roma, et si chiamavano Frangipani, furono Tribuni antichi, homini splendidi, et da uno di questa famiglia nominato Angelo fu fatto edificar el Castel S. Angelo in Roma, è così chiamarlo dal suo nome, questo poi venne a Venetia, con molte ricchezze e co li suoi vicini fece edificar le chiese vecchie di s. Cassano, et di s. Giovanni novo, et i Michieli solevano portar l’arma con li leoni nel mezo, come portano hora li Frangipani, ma ms. Dominico Michiel Duce di Venetia, Capitano General dell'impresa contra il Turco, mancandoli la moneta fece, certi denari di cuoio, che si chiamavano Michieletti, con ordine che corressero come ducati buoni, da ricambiar poi a Venetia in buona valuta come seguì, et con questa invenzione soccorse l’armata, et così mutò l’arma co li danari sopra, come hora portano tutti i Michieli, e dopo elessero il detto Duce Re di Sicilia, ma lui non vuolse, e si contentò più tosto esser Duce di Venetia”. (ANONIMO, “Cronica”, 61). Il capostipite del casato “credesi Angelo Frangipane, figliuolo di Flavio Anicio Pier Leone Frangipane, senator romano, venuto a Venezia con altri due fratelli nel quinto secolo, e soprannominato dal popolo Michiele, forse per pareggiarlo in fortezza e bontà a quest’arcangelo. La famiglia Michieli fino dai primi tempi ebbe tribuni, e nel 697 votò all’elezione del primo doge. Vitale Michiel I, salito al principato nel 1096, mandò una forte armata sotto il comando di Giovanni suo figlio, e d’ Arrigo Contarini, in aiuto ai Crocesegnati, ma, dopo pochi anni di governo, morì trucidato. (...) Vitale Michiel II, figlio di Domenico, illustrò il suo principato colla vittoria riportata sopra il patriarca d’Aquileja. (...) Anch’egli, però, come Vitale Michiel I, suo bisavolo, venne ucciso nel 1172 mentre recatasi alla chiesa di S. Zaccaria”. (TASSINI, 412-413). Va ricordata come “potente e illustre famiglia patrizia veneziana, alcuni membri della quale furono conti feudali a vita di Ossero e di Arbe (Leonardo 1166, figlio del doge Vito Michiel, conte di Ossero; suo fratello Nicolò fu conte d’Arbe), Marino fu il 35° vescovo di Cittanova 1366-1375; questa famiglia diede uomini di governo a varie città istriane: Marco podestà eletto di Parenzo 1270, Marco podestà di Valle 1413, Francesco podestà di Albona e Fianona 1465”. (BENEDETTI, VII, 12). Resta ancora da dire che oltre ai tre dogi, il casato “ebbe nove capitani generali, undici procuratori di S. Marco, un cardinale, e molti prelati, cavalieri e senatori”. (CROLLALANZA, II, 136). Cfr. CORONELLI, 61 (13 alias); FRESCHOT, 370-371; PETRONIO, “65 Stemmi”, 6 e “Repertorio”, 11 A (“Palazzo Pretorio costruito a dimora del podestà Bortolomeo Michieli nel 1308”); BAX A, (Michiel, Michieli - Parenzo); SCHRODER, II, 11-13 (“con Sovrana Risoluzione ebbe confermata l’avita nobiltà e fu decorata della dignità e grado di Conte dell’Impero Austriaco”); DE TOTTO, “Famiglie”, a. 1946, 349 (“antichissima famiglia Patrizia Veneta, tribunizia, apostolica, insignita della dignità dogale”); AMIGONI, a. 1942, 270 (“estinta”, 3 varianti); RADOSSI, “Stemmi di Cittanova”, 310-311 (“vescovo emoniense Marino Michiel”), MORANDO, 2066- 2082 (ben 17 alias); CIGUI, Corpo. 73; AA.VV., Famiglie, 268 (“de Micheli”); AA. VV. Annuario, I, 1391. Scudo ovale, cimato e affiancato da volute. Arma: fasciato d’azzurro e d’argento, di sei pezzi, ciascuna fascia caricata da bisanti d’oro: 6, 5, 4, 3, 2, 1. [evidentemente il disegno del Natorre è piuttosto impreciso!]. Dimensioni: (disegno) 6,5 x 8 cm. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 353 MINIO Stemmino scolpito in bassorilievo stacciato su vera di pozzo (probabilmente opera del secolo XVI) in località “Pulizuòi”, a 3 km. cca dalla città, ed attribuito al nobile casato dei Minio; in precarie condizioni di conservazione per la presenza di licheni e azione eolica, il reperto si trova in situ, nel luogo cioè dove è stato scavato (ed esiste ancor oggi) un pozzo d’acqua [l’etimo del toponimo è probabilmente il medesi- mo di “Polari”, dove si trova altro stemma (C. Balbi —- vedi)] su vera. L’oggetto è sconosciuto al Natorre e al Petronio. Ricoprirono la carica di podestà: Castellano Minio (1460), Bernardo M. (1496), Lorenzo M. (1502-1503), Sypion M. (1570-1571), Stefano M. (1572-1573), Alessandro M. (1702-1703), Zuanne M. (1707-1708), Gerola- mo M. q. Zuanne [figlio ?] (1722-1724) e Zilio M. (1777-1779), in tutto nove. Purtroppo sono scarse le notizie sulla loro attività nei secoli XV-XVI; così, è noto che nel 1460 il “Senato di Venezia ordinò al podestà Castellano Minio di restaurare il Palazzo pretorio, ne palatium suae abitationis in totum ruat, sicut minatur, concedendogli di spendere fino a lire 200 di piccoli”; sappiamo poi che Stefano Minio seguì la confina- zione della Finida piccola il 4 febbraio 1572. (TAMARO, I, 181 e ANGELINI, VI, 58). Il podestà Alessandro Minio viene incaricato nel luglio 1702 di indagare circa un “Francese che s'intitola Console della Natione in Rovigno e si informi sul tempo dacchè ne dura l’impiego e con che fondamento lo eserciti”. (AMSI, XXII, 17). Nel 1707-08, Zuanne Minio supplicò con successo il doge perché “restasse inibita l’intro- duzione dei vini forestieri sino a che non fosse seguito l’esito dei vini terrieri”; il 1 luglio, invece, ebbe dispaccio dal Senato in cui si asseriva essere “un vero disordine quello trovato nell’habitazione presa a Rovigno da Bortolo Novò francese, nella torre sopra la porta che dà l’ingresso per la via di Terra in quel luoco. Il posto è geloso ed importante ed il Pod. di Rovigno farà evacuare dal Novò stesso la torre predetta, così che non habbia nell’avvenire da altri, che da gente suddita e fedele verso la Signoria 354 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 ad essere abitata e tenuta. Il Pod. di Capodistria poi rilevi - come ne godeva il Novò e da chi vi habbia conseguito il possesso — e tenga l’occhio costantemente ai passi di lui”. Sotto la sua reggenza venne proibito l’acquisto del “corame acconcio ad uso di suola estero, come pregiudiciale allo smaltimento delle pelli nostrane”. (ANGELINI, VI, 118 e VII, 59; AMSI, XXII, 286). Infine, visto che la “vecchia chiesetta di S. Tomaso minacciava di cadere”, la Confraternita chiese ed ottenne dalla Carica di Capodistria, durante il ‘reggimento’ di Girolamo Minio, il 4 settembre 1723, di “rico- struirla c di ampliarla da una parte sopra la Sacristia, e dall’altra con volto sopra una colonna di pietra piantata in un angolo fuori della stradacomune, come vedesi tuttora; (...) [ed ancora], essendo quasi giornaliere le arbitrarie concessioni di fondi pubblici sì dentro la Terra che nei Borghi, senza che il danaro della vendita passasse per la Cassa del Comune, con occupazione inoltre di ogni più piccolo sito vacuo, sicché non rimaneva fin d’allora più luogo a camminare, per esscrc tutte le stradee gli altri siti tutti ristretti, mentre in passato erano ampli, [decretò] che in seguito ogni istanza per concessione di fondi dovess’essere rassegnata al Consiglio, formato almeno da cento votanti, (...) [e concludendo] di non concedere mai a nessuno i due piccoli angoli o posti, dove si piantavano i Rastelli di Sanità a piedi dei Borghi Sp. Santo e S. Martino (...)”. (ANGELINI, VI, 179-180). Merita ancora ricordare che il nominativo di Zilio Minio (1777-1779), compare ‘annotato’ sui fogli 1 e 2 del Codice della Translatio Corporis di S. Eufemia, assieme ad altri suoi familiari: Zan Antonio e “Teresa Maria Badoer Germana di Zilio Milio” (1789). “Questi vennero da Mazorbo, furono huomini humani, et piacenti con tutti, et ben voluti, si essercitavano nel pescar.” (ANONIMO, “Cronica”, 60). “In Altino rintraccia questa Casa la sua prima origine, et hebbe la destruttione di quella Città dall'arme degli Hunni per cagione di ricoverarsi nell'Isole dell'Adriatico. Habitò prima Mazorbo, poi nell'anno 790 giunse a risedere in Venetia Paolo M., primo Ascendente della sua Famiglia, in questa Reggia. Partecipò con le più cospicue da quelli principi} l'ingresso nel maggior Consiglio, poiché fu dichiarata Patritia al serrar dello stesso, doppo il qual tempo diede al servitio Pubblico ministri qualificati nelle dignità, e negli impieghi, tanto del Senato, quanto dell'Armate della Serenissima Repubblica. (...)." (FRESCHOT, 380-381). "(...) Lorenzo figlio di Francesco nel 1431 fu sopracomito di galera nell'armata in Po contro il duca di Milano; (...) Bartolomeo di Lorenzo nel 1470 combattè contro i Turchi a Negroponte; (...) Marco di Bartolomeo cavaliere e senatore andò ambasciatore a Papa Leone X, nel 1519 a Solimano, imperatore dei Turchi. (...) Paolo di Teodoro fu eruditissimo magistrato (1670-1715). (...) Dei palazzi abitati dai vari rami della famiglia rimane solo quello di S. Fosca, attribuito al Sammicheli. (....) In palazzo ducale si vede lo stemma Minio caricato di una crocetta in capo, fra quelli che fiancheggiano il verone nella Salla della Quarantia C. V. (...)." (SPRETI, IV, 600-601). Cfr. CORONELLI, 61; CROLLALANZA II, 143; AMIGONI, "Il patrizia- to", 1942, 270; DETOTTO, "Famiglie", 1946, 350 PAULETICH-RADOSSI, 117-119; BAXA, 12; RADOSSI, “Stemmi di Valle”, 382-383; /dem, “Stemmidi Cittanova”,311 e Monumenta, 282-284; MORANDO, 2091-2093; TASSINI, 413-415; AA. VV., Fami- glie, 270. Scudo sagomato (?), con bordurina liscia. Arma: di azzurro alla banda di fusi accollati d'oro. Dimensioni: 17, 5 x 25 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 355 MONTE DI PIETA’ Splendido disegno denominato Stemma del Monte di Pietà in NATORRE (tav. XIV.A, f. 24), comprendente lo stemma comunale (vedi) e lo Stemma del Monte poggianti su un monte, e tra essi una torre bandierata sulla cima e, più sotto, il Leone marciano (vedi); il PETRONIO (“Repertorio”, 44 e “65 Stemmi”, 14) riproduce soltanto il simbolo dell’ente definendolo “antico sigillo del Civico Monte di Pietà”. Oggi ambedue gli oggetti sono inesistenti, mentre nel Civico Museo di Rovigno si custodisce l’ultima insegna del Monte, quella usata per la sede di Palazzo Milossa (secc. XIX-XX). Sul frontespizio del volumetto “Capitoli per l’amministrazione, e buon governo del Santo Monte di Pietà nuovamente (?) eretto in Rovigno, relativa- mente al Decreto dell’Eccellentissimo Senato 12. marzo 1772. formati dal Magistrato Eccellentissimo de’ Scansatori, ed approvati dall’Eccellentissimo Senato col Decreto 10. settembre 1772”, pubblicato a Venezia (Pinelli, 1772), la vignetta illustrativa presenta un leone marciano (vedi) in primo piano, sostenente al centro un monticello cimato da castello e la sua torre sostenente il vessillo con il drappo sventolante a destra, tenente con la zampa anteriore destra il libro aperto senza scritta (!); il leone è affiancato alla destra dallo stemma di Rovigno (entro comparto con il giglio araldico in capo e punta, fiancheggiato da foglie d’acanto), alla sinistra dal simbolo del Monte di Pietà a tre cime (!), (entro comparto con il giglio araldico in capo e punta, fiancheggiato da foglie d’acanto). Resta comunque il dubbio se tale ‘insegna’ così riprodotta dal Natorre, sia stata effettivamente tale e, se fosse stata esposta sull’edifi- cio/sede. L’ente “fu istituito dietro ricerca del Comune, ed approvato dal Senato Veneto, con decreto 12 marzo 1772. Suo primitivo Capitale L. 77775:6, erogato dagli utili del Fondaco, i cui civanzi, e gli utili annui del Monte stesso passavano in aumento del Capitale: cosicché nel giro di 33 anni, e precisamente col 31 dicem. 1805 il Capitale crebbe sino a L. 209059:4 che però durante la dominazione francese per soccorsi all'Armata e al Comune ritornò poco a poco alla primitiva sua cifra. Suo primiero locale fu il Fondaco in Riva-grande: portavi iscrizione in pietra ed in lettere romane 356 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV,2004, p. 245-394 dorate, rimossa quella del Fondaco, la quale fu collocata sopra il continguo Arco del ‘Porton della Pescheria Vecchia”. Fu traslocato nell’odierno locale in Piazza grande ov’era il pubblico Archivio, per dar luogo al Tribunale l’anno 1816. (...) Sotto i Veneti erano Presidenti del Monte i tre Giudici pro tempore del Comune; e senza salario. Eranvi un Cassiere, ossia depositario del soldo, per un anno, due Cassieri dei pegni, ossiano Massarj, per due anni, uno all'impegno, l’altro al disimpegno. (...) Questo sistema di amministrazione durava anche sotto l’occupazione austriaca dopo la caduta della Repubblica Veneta dal 1797 al 1805. (...) Sotto i Francesi dal 1808 al 1813 sopraintendeva al Monte di Pietà una Commissione detta di Carità. (...) Ritornati gli Austriaci, mantennero lo stesso sistema di amministrazione, sotto la stessa Commis- sione, che assunse il nome di ‘Congregazione di Carità”. (...) Il Podestà assunse la Presidenza della Congregazione, e quindi divenne Capo del Monte di Pietà. (...)”. (RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 339-340; si veda ancora Ibidem, 278 la voce ‘Congregazione di Carità’). Cfr. TAMARO, I, 188-190; COSSAR, “Quaderni”, R-III, 46 [Sigillo del Monte di Pietà, Piazza Venezia — aprile 1927 (?)”], dove aveva sede prima del suo trasloco a Palazzo Milossa; monte a tre cime]; PAULETICH-RADOS- SI, 120 (‘“L’unica testimonianza dell’esistenza di questo sigillo ci è offerta appunto dal Petronio; l’Istituto del Monte di Pietà ebbe varie sedi; l’ultima fu nel Palazzo Milossa”). Scudo sagomato con cornicetta liscia, entro comparto cimato ed affiancato da volute e foglie d’acanto. Arma: di ..., ad una croce lunga sorgente da un monte italiano [4(!?)] - nel sigillo i monti sono tre (!). Dimensioni: a) (disegno integrale Natorre): 14 x 21 cm.; b) (disegno stemma): 8,5 x 12 cm. O. D. À. È LA.Ri P. Pi MO. È ANNO DNI MDCLII ORDINE DEI FRANCESCANI Lapide calcarea epigrafa oggi infissa sulla facciata interna del chiostro del Con- vento dell’Isola di S. Andrea presso Rovigno, con in punta lo ’stemma’ dell’Ordine dei Francescani; l’iscrizione: 0.D.A. // I.A.R. P.P. M. O. // ANNO DNI // MDCLIII. Il G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 357 reperto è in buone condizioni di conservazione e si trova presumibilmente in situ (?). Si potrebbe forse congetturare che le prime tre iniziali esprimono la ‘dedica’ a Dio, mentre le successive potrebbero ‘rappresentare’ i nomi di tre frati “Padri Minori Osservanti”. Si sa che l'isoletta “in oggi di S.t Andrea chiamasi almeno nel secolo XV Serra, di appartenenza dell'Abbazia dei Monaci Benedettini di Santa Maria della Rotonda di Ravenna, i quali (...) avevano fondato un Ospizio, che restò disabitato probabilmente nel secolo XIII. [In esso] si crede, che di poi San Giovanni di Capistra- no, che vuolsi giungesse in Rovigno intorno il 1442 fondasse sulle istanze del popolo il Convento dei Padri Minori Osservanti di S. Francesco, al cui Ordine egli apparteneva. (...) Si crede eziandio, che lo stesso S. Giovanni fosse stato il primo Guardiano di quel Convento, d’onde poi se ne partisse per recarsi in Ungheria (...). Peraltro si ha d’altronde, che nel 1454 Matteo Biondo Abbate della sunnominata S. Maria a Raven- na, concedeva stabilmente la chiesa di S.t Andrca sull’isola Serra di Rovigno ai Min. Osservanti. (...) Il nostro concittadino Fra Paolo Pellizzer [“XVI/XVII sec., del serafico Ordine dei Minori Osservanti”] ha abbellito quando erane guardiano il Conven- to e l’isoletta con nuovi lavori, aggiungendo il Chiostro, la Foresteria, il luogo da racconciare la loro barchetta, cosiddetto squero, l’ordine delle colonne dell'orto e la simmetria dei viali. (...) Questi Min. Osse.ti avevano in città una casa sotto il nome di Ospizio, in Contrada S. Barnaba, e precisamente quella in oggi marcata col civ. n.° 682 [ora 19 di via S. Croce, già ospizio dei Benedettini, nd.a.]. Una decisione simile a quella emanata il 29 luglio 1765 contro li Padri Serviti di S.ta Catterina (vedi), il Consiglio di X spediva a questi Minori Osservanti a favore del Parroco e Capitolo (...). I M.M. 0.0. durarono sino l’anno 1807, essendo stato soppresso in allora questo loro Convento sotto il Governo francese, ed incorporato a quello dello stesso Ordine nel Convento di Sant'Anna di Capodistria. Incamerata l’isoletta con il Convento e la Chiesa, venivano tenuti a fitto da particolari sino l’anno 1812 o 13, i quali conservarono tutto in buono stato. Ma da quell’epoca rimasta l’isoletta inaffittata e senza custodia, fu devastato il Convento, la Chiesa e l’isoletta stessa da una mano di vandali che presidiavano questa città. Passò poi l’isoletta dal Fisco in proprietà di un tessero, del sig. Neker, Console Svizzero in Trieste, da cui la prese a fitto l’illustre cittadino Angelo Sbisà, addottorato in legge nel Collegio della Sapienza in Roma, il quale procurò di migliorarne lo stato. (...) Fin dal 1852 passò l’isoletta in proprietà dei signori Catraro e Stengle, che subito ristorarono il Convento a propria abitazione e comodo, come pure l’antico Belvedere [una torricella quadran- golare ben conservata a tre piani colle scale di pietra all’esterno, e nelvano a pianterra una cappelletta con altarino dedicato a S. Francesco delle Stimmate, nel secondo altra simile dedicata all B.V. Addolorata, ed il terzo aperto con pilastri ad ogni angolo sostenenti il tetto acuminato- d’onde si godeva un magnifico panorama, cioè il Belveder, n.d.a]., convertirono in altro la chiesa, eressero altre fabbriche e collocarono un molino a bestie, che poi fu ridotto a vapore, servente a molti usi, e specialmente per olii. [Si convertirono quei fabbricati in un grande stabilimento di cemento Portland, ‘facendo servire il campanile da camino della fornace e mutando pienamente l’aspetto di quel convento sì da far sparire le tracce della chiesa]: nel 1890 fu venduto al Sig. Hutterot il quale, collo squisito senso artistico che lo distingueva convertì l’isola in uno splendi- do parco e con nuovi fabbricati ne fece un nuovo soggiorno”. (PAULETICH, “I conventi”, 720-726). Cfr. POLESINI, 114 (“Nel 1454 Matteo Biondo abbate del Monastero di S. Maria della Rotonda (...) dell'Ordine di S. Benedetto, concesse ad 358 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 alcuni frati dell'ordine dell’Osservanza per loro uso ed abitazione in perpetuo, la chiesa non curata di S. Andrea nel Scoglio vicino a Rovigno. Nel 1455 (...) confermasi tale donazione; e tale in strumento è legalizzato da un certo Gritti podestà e capitano di Ravenna”); TAMARO, I, 244-253; PAULETICH-RADOSSI, 136; RADOSSI, “Stemmi di Dignano”, 372-273 e Monumenta, 323-325; RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 279-280 (in particolare per il “Convento di S. Francesco in città”, a partire dal 1700-1702) e 316. Scudo ovale e ‘sagomato’. Arma: di ..., alle braccia incrociate [il destrocherio è vestito dell’abito francesca- no, il sinistrocherio al naturale (?)] e croce pomata di ..., sorgente da un monte italiano (3). Solitamente, il simbolo dell'Ordine Francescano raffigura, attorno alla croce, le braccia di Cristo e di San Francesco incrociate. Dimensioni: a) lapide: 45 x 50; b) stemma: 17 x 20 cm. ORDINE DEI SERVITI Simbolo dell'Ordine dei Serviti, scolpito in bassorilievo stacciato su un pezzo d’architrave proveniente dalla prospiciente isola di S. Caterina nel porto di Rovigno, (dove l’Ordine aveva un ‘ospizio) e sistemato negli anni sessanta del secolo XX nel piccolo lapidario della loggia nella chiesetta di S. Croce; sul lato destro dello ‘stemma’, la datazione: “1708”. In quell’anno reggeva la podesteria rubinense Zuanne Minio. Ed infatti, è attestato che nel 1473 “i Serviti ottengono dalla Religione di Malta (vedi) di stabilire molti conventi nell’Istria, compreso quello di S. Catterina nell’isoletta di Rovigno”. (ANGELINI, VI, 52). L’isola, abitata già in epoca preistorica, ed anche quando ‘approdava l’anno ‘800 in un arca di marmo a gala del mare il Corpo di S. Eufemia’, fu abitata da eremiti, fino alla morte di Fra Francesco, ultimo superstite di quella ‘famiglia’; “alla sua morte, subentrarono in quel convento i Frati Serviti, i quali furono qui chiamati dal Comune l’anno 1486, ed i quali avevano già ottenuta ancora G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 359 l’anno 1472 dalla Religione di Malta (vedi) di stabilire Conventi in Istria. I Serviti qui durarono oltre secoli, bene visi da questa popolazione, che indefessi assistevano spiritualmente. Anzi si ha memoria che il Priore Padre Giuseppe Fustignoni doveva essere traslocato, riconoscente di tanti benefizi da lui fatti sì al convento con erezione di fabbriche a propria fatica ed industria, sì per l’incessante assistenza spirituale a questo popolo, avesse deliberato il 1713 di supplicare, come fece, il Padre Provinciale dei Serviti di lasciarlo, ed ottenne il favore, a condizione di questo popolo. [I{ Convento possedeva in città un Ospizio dove] moriva eziandio dopo lunga malattia addì 18 luglio 1779 fra Giuseppe-Maria Variani Priore e solo individuo del Convento, e colla sua morte si estinsero i Padri Serviti. (...) La metà di questa isoletta, quella cioè verso ponente con casa e separata cisterna era già passata per matrimonio ancora nel secolo XVII dalla famiglia Devescovi, che n’era proprietaria, in quella dei conti Califfi; e l’altra metà, quella cioè verso levante, abitata dai Serviti, passò dal fisco in proprietà alla famiglia Paulin, nella quale era di già accollata per matrimonio anche l’altra metà dei Califfi. (...) All’epoca della prima occupazione austriaca dal 1797 cioè al 1805 il suddetto Stabilimento, ch’era ancora intatto, servì di quartiere a porzione della truppa del presidio militare di questa città; ed i francesi sino al 1809 tenevano una batteria di cannoni sopra la punta verso il mare di questa isoletta”. (PAULETICH, “I conventi”, 716-720). A seguito di una serie di passaggi di proprietà tutta l’isola divenne possesso di Alvise Rismondo che “nel 1898 la vendette all’arciduca d'Austria Carlo Stefano e questi a sua volta la cedette nel 1904 al conte Korvin Milewski, di origine lituana. Egli intraprese un’ampia opera di rimboschimento e di ristrutturazione dell’isola erigendo due nuovi palazzi, uno al centro (doveva diventare una casa da gioco), l’altro vicino alla chiesa già allora cadente. Dopo la sua morte [/926, n.d.a.] l’isola passò al comune e, successivamente, alla famiglia Sella, mentre la chiesa, il campanile e il convento nel giro di qualche decennio andarono completamente in rovina”. (BUDICIN, 239). L’Ordine dei Servi di Maria o dei Serviti, ovvero Ordo Servorum B. Mariae Virginis, professa un culto particolare per la Vergine Maria; sorse a Firenze nel 1240, a seguito di una visione della Vergine; fu definitivamente approvato da Benedetto XI nel 1304, diffondendosi rapidamente in Italia, Francia, Germania ed alcune parti dell’ Asia. Nel 1616 per opera della terziaria Anna Giuliana Gonzaga arciduchessa d’Austria esso fu restaurato e diffuso in Austria ed Ungheria; attorno il 1870 si propagò in Inghilterra e negli USA. Nei suoi sette secoli di vita, l'Ordine dei servi ha tenuto uno dei primi posti nella società religiosa e civile. I teologi di casa Savoia e i consultori della repubblica veneta venivano scelti tra i Serviti e molti di essi occuparono cattedre nelle più rinomate università dell'Europa: l'Ordine vanta anche una larga schiera di cardinali, vescovi, e di alti dignitari ecclesiastici. Cfr. CAPRIN, II, 196; RADOSSI, Monumenta, 322-323. Scudo a rotella. Arma: lettere “M” ed “S” intrecciate, sormontate dalla corona. Dimensioni: (diametro): 13 cm. 360 G.RADOSSI, L’araldica pubblica diRovignod'’Istria, Atti, vol. XXXTV, 2004, p. 245-394 ORDINE DEI SERVITI Secondo esemplare del simbolo dell'Ordine dei Serviti, inciso in bassorilievo stacciato sull’architrave epigrafo d’entrata dell’edificio al N° civico 801, ora via De Amicis, 16. Ai due lati dello ‘stemma’ si può leggere la seguente iscrizione: EXC.MI SENATUS AUCTORITATE // ANG. IOS. FUSTINIONI AD USUM F.F. SERVO- RUM BEATAE M.V.//HOC HOSPITIUM [scalpellato] ..S EDIFICAVIT // ANNO DNI MDCIC. Di fronte si ergeva la bella chiesa di S. Giovanni Battista (Evangelista ?) consacrata nel 1439, restaurata nel 1779 e ‘rovinata’ nel 1839. Non ne fanno cenno alcuno né il Natorre, né il Petronio. I Frati Serviti “abitanti quest'isola di S.a Catterina, avevano anch’essi in Città un Ospizio, situato in Contrada S. Zuanne, civ. n.0 801. In quest’Ospizio morì il Padre Servita Antonio Biondo di Rovigno l’anno 1763 e l’ultimo Priore e solo individuo di quel Convento Padre Giuseppe Maria Variani li 18 ag.o 1779. Estinti qui col Variani i Serviti, sì durante la Repubblica Veneta, che sotto la prima occupazione austriaca, quella Casa servì di alloggio alla Sbirraglia”. (RADOS- SI-PAULETICH, “Repertorio”, 351). “Appena morto [“demortus est in pavvulo Ao- spitio ad S. Joannis Baptistae Pater Joseph Variani Ord. Servorum, Prior Conventus S. Catharine annorum 74, nullo Frate vel Sacerdote, vel Laico relicto, n.d.a.] per ordine del podestà veneto di allora Lucio da Riva fu fatto inventario dal suo cancelliere di tutti gli effetti, generi, e danaro del Convento, e della Chiesa, e dell’Ospizio, il qual inventario fu in copia spedito al Magistrato sopra Monasteri con lettera di partecipa- zione del caso. [Tuttavia fu immediatamente supplicato perché potessero continuare i Serviti nel possesso del Convento Chiesa e nel servizio spirituale con assistenza ai moribondi], per cui fu concesso al Padre Maestro Battista Vendramin qui spedito per occasione della lunga malattia del prefato Variani di riprendere in consegna tutti gli effetti, e dato possesso del Convento, Chiesa, Orto con cisterna, metà dell’isoletta, ed G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 361 Ospizio per nome della Provincia della Marca Trevisana. (...) Peraltro convien ritenere che il Vendramin abitasse solo, senza compagni (...) o che di lì a poco sopraggiungesse la soppressione di quell’Ordine, (...) fatto è che qui si estinse la religione dei Padri Serviti. Cfr. TAMARO, I, 254-256; PAULETICH-RADOSSI, 135 (due esemplari); AA.VV., / Nobili, 28 (“De Fustinioni: antica famiglia del Consiglio di Trieste. A Trieste vivono Giuseppe ed il figlio Fabio”); RADOSSI, “Stemmi di Montona”, 201; BUDICIN, 230 (“venne fatta scolpire nel 1690 dal padre priore Fustignoni che in quell’anno eresse colà un piccolo ospizio in segno di riconoscenza verso il convento Servita dell’isola di S. Caterina dove aveva dimorato per lunghi anni”); PAULETICH, “I conventi”, 719 [in particolare per i “passaggi di proprietà (dell’isola) fino ai giorni nostri”). Scudo ovale concavo. Arma: lettere “M” ed “S” intrecciate, sormontate dalla corona. Dimensioni: a) architrave: 12 (22) x 170 cm.; b) ‘stemmino”: 20 x 21,5 cm. PONTE (da) Rara arma gentilizia dogale dipinta nell’angolo superiore sinistro del grande affresco (dimensioni: 280 x 750 cm.) della sala del Consiglio del palazzo pretoreo rovignese, attribuita al Doge Nicola da Ponte (1578-1585), in carica; nella pittura altri quattro stemmi: S. Benzon, podestà rubinense in carica [1583-1584] (vedi), Steno (vedi) perché Doge (1400-1413) che aveva assegnato il patriziato ai Benzon, e due arme comunali (vedi). In discreto stato di conservazione, il tutto è stato restaurato nel 2003-2004; questa e le altre arme sono ‘sconosciute’ al Natorre e al Petronio. Il riatto della ‘Sala del consiglio’ permise al Benzon di commissionare l’affresco che orna ancor oggi un’intera parete e di tributare omaggio ai suoi grandi benefattori (due Dogi) ed alla città che governava. Nessun appartenente a questa famiglia dogale ha retto la 362 G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXTV, 2004, p. 245-394 podesteria di Rovigno. “Questi vennero dalle Contrade, furono uomini da ben, et molto si esercitavano al ben fare, et ms. Fantin et ms. Antonio da Ponte, volendo esser fatti del Consiglio, et ritrovando alcune difficoltà fecero in modo che mostrarono, che li suoi antichi erano stati del Consiglio, è così furono accettati”. (ANONIMO, “Cro- nica”, 72). Il DE TOTTO (“Famiglie”, a. 1947, 177, ricorda che fu “famiglia patrizia, compresa nella serrata del 1297: Marino da Ponte console di Capodistria (1226), Lorenzo Capitano e Podestà di Capodistria (1662 e 1665-66); Bonifacio fu l’ultimo vescovo di Capodistria (1176-1810)”. “La famiglia, giunta secondo alcuni dalla Grecia, e, secondo altri dalla Germania, vanta fino dal 959 un Giovanni Da Ponte, spedito ambasciatore con Giovanni Contarini al pontefice Giovanni XII. In epoche posteriori uscirono dal di lei seno Ambrogio vescovo di Concordia nel 1386; Antonio vescovo di Selenico, e quindi di Concordia nel 1402, donde venne trasferito ad altre sedi; Nicolò, eletto doge di Venezia nel 1578; Lorenzo che fiorì nel 1741 come vescovo di Ceneda; nonché parecchi letterati”. (TASSINI, 202). Nicolò da Ponte nacque a Venezia, nel 1491, da Regina Spandolin di Costantinopoli, figlia del cavaliere Dimitri, primo di sei fratelli; allora la famiglia era ridotta in povertà, avendo il nonno perduto tutti gli averi venendo da Negroponte. Si laureò in filosofia a Padova e coltivò gli studi teologici; a vent’anni entrò nella vita pubblica. A Corfù, dove era rettore, fece restaurare le mura cadenti e fece erigere un pubblico granaio; ad Udine, essendo luogotenente, eresse acquedotti; fu ambasciatore al Concilio di Trento. Amico intimo di papa Giulio III, già ottantenne fu mandato oratore al papa Gregorio XIII ed ambasciatore presso Francesco II di Francia. Attendendo alla cosa pubblica non trascurò i suoi affari e da povero, riuscì a farsi una ingente fortuna valutabile a 150.000 ducati: dicevano che si fosse arricchito col commercio ed altri mezzi non sempre leciti e con la grande taccagneria ed avarizia. Salì al soglio ducale il 18 marzo 1578, in gara con molti concorrenti cavalieri e procuratori dei più insigni casati. Il suo dogato fu turbato da una controversia con Trieste per la costruzione di una salina, da incursioni di corsari e di pirati nell'Adriatico, fra i quali i più infesti erano gli scocchi, da controversie con la Corte romana e da una lotta interna contro il Consiglio dei Dieci; arrivò a Venezia un’ambascieria giapponese e durante i banchetti molto sontuosi faceva eseguire delle rappresentazioni cantate in musica. A causa della tardissima età, si affievolì tanto da addormentarsi ogni momento e per impedire che cadesse si dovette mettere nel suo sedile in collegio uno speciale appoggio di legno coperto di velluto; ebbe un primo accidente apoplettico che gli levò in parte la favella nell’aprile 1585.ma si trascinò come potè intervenendo a qualche cerimonia e sforzandosi di parlare con la lingua impedita (gli capitò di addormentarsi, perdendo il corno dogale che rotolò!); il 30 luglio ascoltò messa dalla finestra che s’affaccia all’interno di S. Marco, poco dopo ‘rese lo spirito a Dio’. Di lui non rimane più il monumento (costruito tutto in pietra d’Istria), ma neanche le ceneri che furono disperse. (DA MOSTO, 366-375). Cfr. FRESCHOT, 398-399; CROLLALANZA, II, 360; ANONIMO, “Armi”, 120; AMI- GONI, // patriziato, 276 (“di azzurro al ponte di un solo arco balaustrato e gugliato d’oro”); MORANDO, 2499-2500; RADOSSI, Monumenta, 343-347. Scudo ovale, sormontato dal corno dogale (molto danneggiato), bordura ornata, affiancato da due angeli tenenti e mascheroni policromi, svolazzi, il tutto entro cornice liscia a listello. Arma: d’azzurro, al ponte di un solo arco d’oro, balaustrato dello stesso, murato di nero. Dimensioni: a) cornice: 100 x 150 cm.; b) stemma: 55 x 85 cm. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 363 = — ALMA tei KAMA UNNI REN gii PREMARIN Composizione araldico-sacra in pietra bianca di Rovigno, con il blasone gentilizio del podestà Zulian [Zuanne?] Premarin (1719-1721) scolpito in bassorilievo su pilastro epigrafo commemorativo, sito nel luogo del presunto approdo dell’arca di S. Eufemia, nell’Amo di S. Eufemia, sotto la chiesetta di S. Croce, nella via omonima. Questa l’iscrizione: D.O.M. // DIVAE EUPHEMIAE RUBINENSIUM //NUMINI TUTE- LARI AC TITOLARI // CIVITATIS OBSEQUENTISSIME VOTU // ANNO 1720; sul retro è incisa una croce in rilievo stacciato, mentre in cima al pilastro altra croce in ferro (ricollocata di recente, in sostituzione della scomparsa originale). Il reperto è in mediocre stato di conservazione, a seguito della corrosione eolica e dell’acqua salsa. Ressero la podesteria cinque rettori di questo casato: Bernardin Premarin (1681-1682), Renier P. (1686-1687), Zuanne P. q. Bernardin (1705-1706), Reniero P. (1709-1710) e Zulian [Zuanne ?] Premarin qm. Bernardin (1719-1721). Nel 1686, al tempo di Renier Premarin fu reintrodotta una vecchia prescrizione del Consiglio, che ordinava che “de caetero non ardisca chi si sia vender frumenti e farine in poca o molta quantità ad alcuna persona di questa Terra, ma di contrattare con questo ‘Collegio delle Biave” per conto Fondaco, sotto pena di confisca del genere, e di essere processati criminal- mente; (...) [ed inoltre nell’anno successivo] dietro reclamo dei Presidenti di questo Fondaco sulla renitenza dei fondacchieri di dispensar frumenti per le semine” si ordinava loro di “praticar tutte le dispense che si facessero, assegnando a loro soldi 4 per stajo”. (ANGELINI, VI,. 96-97). Zuanne Premarin qm. Bernardin ribadiva nel 1706 l’antico possesso del privilegio del Comune circa le “pubbliche ragioni in torno le mura che circondano Rovigno, la fossa, e spalti, dei quali fondi non possano investirsi particolari persone in modo alcuno” e “trovandosi il Comune in bisogno di danaro [ordinò] che tutti i [suoi] salariati lasciassero il loro soldo per sostenere le liti 364 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 del Comune medesimo”, mentre fece eseguire un accurato inventario della Sala del Pretorio (“vi erano una Chiesetta con un quadro della B.V. col bambino, un inginoc- chiatoio, un Cesendel sempre acceso, sei candelotti) e del Tribunale (“dove giudicava il pubblico Rappresentante: una tribuna per gli Avvocati, due quadri in controno di pietra del Semitecolo ed Orio, uno del Pasqualigo”); il suo successore, Reniero Premarin deliberò il 24 aprile 1709, in Consiglio municipale, che “avendo bisogno di restauro la vecchia Chiesa Collegiata, e in particolare le due navate che minacciavano di cadere, di consegnar D.ti 500 perché fossero impiegati a tal effetto, [e poiché] per mala cura essendo smarrite molte palle d’oro e di ottone, il che rendea difficoltà nel ballottare, fu presa parte dal Consiglio nella medesima seduta di provvederne in Venezia 200 di ottone, e 28 d’oro”, mentre onde limitare il danno della “perdita degli Olivi, (...) proibiva tagliarli, svangarli, o sradicar i germogli tanto negli stabili propri, quanto negli stabili altrui, nonché pascolarvi dentro animali di qualunque sorta”. (ANGELINI, VI, 116, 118 e VII, 158). L'ultimo podestà del casato, Zulian (Zuanne) Premarin fece iniziare la stampa dello Statuto comunale, “ma appena stampato un brano del Libro Primo, fu sospesa per ordine, lo si crede, del Governo; dunque in Venezia veniva intrapresa la stampa per Domenico Lovisa nel 1720, sotto il reggimen- to di Giovanni Premarin, essendo Deputati del Comune Nicolò Spongia, Matteo De’ Vescovi, Pietro De’ Vescovi, Giudici, e Giovanni Basilisco Sindaco; conteneva il ‘Libro Primo’ i paragrafi ‘de Salario Potestatis. (...). Nel 1720, nel sito del monte, dove dicesi approdasse l'Arca di S.ta Eufemia da Calcedonia, e che si chiama l’Amo di S.ta Eufemia, la Città di Rovigno eresse una colonna quadrata di pietra con iscrizione, tuttora esistente, a memoria di tanto avvenimento”. (ANGELINI, VI, 179, 187). “Questi vennero da Giesolo, furono uomini molto grossi de intelletto, et erano pochi in casata”. (ANONIMO, “Cronica”, 72). “Assai antica è questo famiglia veneziana, originaria di Jesolo, e che dette alla patria i primi tribuni. Nel 1205 fu aggregata al Gran Consiglio, e nel 1328 acquistò dodici carati dell’isola di Ceos nell’Arcipelago, di cui tenne il dominio sino al 1537. Quando il governo veneto comprò l’isola di Negro- ponte, la famiglia Premarino andò ad abitarvi, e dopo la perdita di quella passò in Candia, dove dimorò fino alla caduta di quel regno in potere dei Turchi, dopo di che, fece ritorno a Venezia. Un Nicolò fu uno dei sopracomiti delle galee mandate dai Veneziani a favore di Alessandro III contro il Barbarossa nel 1177 (...); nel 1192 capitano nell’armata che a Pola sconfisse i Pisani, nel 1202 uno dei 49 governatori delle galee che andavano al ricupero di Zara; (...)°. (CROLLALANZA, II, 376-377). Merita ancora ricordare che “Giovanni P. fu Podestà e Capitano di Capodistri nel 1729; Simone P. Podestà d’Isola nel 1521, Giacomo Premarino Podestà di Cittanova nel 1414, Zuanne P. Podestà di Albona e Fianona nel 1731”. (DE TOTTO, “Famiglie”, a. 1947, 178). Cfr. CORONELLI, 70; FRESCHOT, 403-404; ANONIMO, “Armi”, 146; BAXA, 13; AMIGONI, a. 1942, 276 (“1297, est. 1738”); BAXA I: RADOSSI, “Stemmi di Isola”, 349-351); MORANDO, 2514-2517. Compare tavolta la variante Permarin. Scudo ovale con bordurina liscia, affiancato da foglie d’acanto, il tutto entro comparto sagomato con cornice liscia: sopra tutto un ‘cimiero” con S. Eufemia, gli strumenti del suo martirio e i due leoni sotto ampio baldacchino (?). Arma: d’oro a tre fasce ondate d’azzurro, col capo di rosso. Motto: IUSTUS UT PALMA FLOREBIT (ad Isola d’Istria). Dimensioni: a) pilastro: 31 x 58 x 203; b) composizione con ‘cimiero’: 58 x 118 cm.; c) comparto: 34 x 38 cm.; d ) stemma: 12 x 18 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 365 SORANZO Minuscolo quanto delicato stemmino dipinto sulla copertina del codice miniato rovignese (dim.: 20 x 29 cm.), denominato “Translatio Corporis beate Eufemie” (già depositato presso l’Archivio capitolare di Rovigno, oggi proprietà della Biblioteca universitaria di Pola) ed attribuito verosimilmente al podestà Ludovico Soranzo (1468), il primo dei sei rettori rovignesi del casato; infatti, studi anche recenti (cfr. l'edizione integrale e critica del reperto dell’anno 2000!), fanno risalire il manoscritto al XIV-XV secolo. L’arme è miniata sulla Torre del Ponte, al centro cioè della raffigurazione del Castello di Rovigno che presenta una doppia cinta muraria con numerosissime torri, un colle verde coperto da alberi e la (vecchia) chiesa di S. Eufemia sulla cima. “Il codice membranacco porta il prospetto di Rovigno, disegnato a penna, rozzamente ed in tempi a noi non vicini. Dal quale e dalle tracce esistenti si vede come Rovigno avesse doppia cinta di mura, l’un al mare, l’altra più interna, distinguendo così la città dalle borgate; però sospettiamo che nell’interno della città vi fosse il castello, conservandosi così la distribuzione che era delle città più antiche. (...) Nel Codicetto vedesi miniato uno stemma senza corona, il quale sembrerebbe essere quello di Rovigno. E° tagliato a diagonale in due campi, l’uno dei quali celeste, l’altro aureo (...)”. (KANDLER, L'’Istria, IV, 148). Anche il NATORRE (tavv. V e VII, ff.6 e 8) lo definisce, erroneamente, “secondo stemma del Comune di Rovigno”; sconosciuto invece al Petronio. Le fonti disponibili ci indicano che ressero questa podesteria: Ludovico Soranzo (1468), Francesco S. (1469), Lodovico S. (1484), Lodo- vico S. (1487 -II volta?), Mario S. (1737) [morto Marco Badoer “in reggimento, Mario Soranzo, Consigliere di Capodistria (fu) Supplente, ossia Vice-podestà sino all’arrivo di Nicolo Pizzamano”, per la durata di una settimana! (ANGELINI, VII, 4)] e Andrea Soranzo (1763-1965). Anche il Ludovico del 1468 sembra essere stato un “Supplente” 366 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 e, verosimilmente, per decesso di Ludovico Marcello, poiché in quel ‘millesimo’ VPANGELINI (VI, 52), annota: “1468. Pestilenza in Rovigno. Vedi Astolfo de Astolfi notajo. E’ questa l’annotazione che si ritrova negli atti di questo Capitolo; ma gli atti dell’Astolfi come tutti gli altri notaj di allora andarono perduti nell’incendio dell’ Ar- chivio della Città, avvenuto intorno il 1500, non si bene se fortuitamente, o come parlasi per oscura politica del veneto governo”. "Illustre famiglia patrizia e tribunizia veneziana, della quale le prime memorie risalgono alla origine dello Stato detto latinamente Superantius. Dopo la distruzione di Aquileia si rifugiò in Belluno, trasfe- rendosi poi nelle Lagune Venete all'epoca della fondazione di Venezia, portando grandi ricchezze e diventando una di quelle tribunizie famiglie che per il corso di due secoli governarono le Isole Veneziane. Un Carolus Superantius è nominato nella serie cronologica dei tribuni di Rivoalto nel 549. Giorgio S., sopracomito, partecipò alla battaglia di Salvore contro l'imperatore Federico; Domenico nel 1192 fu uno dei quarantun elettori del doge E. Dandolo (...). Ma non solo la posizione politica fece emergere questa famiglia, perché anche il cospicuo censo e la enorme ricchezza le permisero nel 1294 di armare a proprie spese due galere per la guerra contro i Genovesi. Coprì tutte le più eminenti cariche della Repubblica e non vi fu mai epoca in cui si possa dire abbia avuto minore influenza nella storia di Venezia generando uomini eminentissimi in ogni carica pubblica ed arrivando al dogato con Giovanni S., che regnò dal 1312 al 1328. E molti furono i generali, gli ammiragli, i senatori, gli ambasciatori ed i procuratori di S. Marco. (...)." (SPRETI, VI, 377-378). Cfr. CORO- NELLI, 75-76; T ASSINI, 611-612 (“Benedetto S., sopraccomito della galera intitolata il ‘Cristo Risuscitato’, nella grande giornata delle Curzolari, essendo ferito da tre colpi di freccia, e vedendosi uccisi all’intorno tutti i suoi commilitoni, appiccò fuoco alle munizioni, e saltò in aria col naviglio, e coi nemici, che già se n’erano fatti padroni”); CAPRIN, I, 224-225; DE TOTTO, "Famiglie", 1950, 53; SCHRODER (II, 280-285) ["Gli individui usciti dalla medesima coprirono eminenti dignità, ebbero somma influenza nei primordj del Governo Veneto, e sostennero senza interruzione le principali Magistrature”]; RADOSSI, "Stemmi di Valle", 386-387; "Stemmi di S. Lorenzo", 226 e Monumenta, 374-377. Scudo a mandorla (normanno), entro doppia bordurina di nero e di rosso. Arma: trinciato d'oro e d’azzurro. Dimensioni: (miniatura): 2,3 x 2,5 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 367 SORANZO Secondo esemplare lapideo ed epigrafo del blasone gentilizio dei Soranzo, scol- pito in bassorilievo stacciato su lastra rotonda infissa sopra la porta cittadina di S. Croce. Il manufatto si trova in situ ed è in buone condizioni di conservazione, pur presentando macchie di licheni; esternamente allo scudo, le iniziali A.(/vise / Andrea 9) S.(oranzo). Dall’impianto dell’opera, è facile arguire che essa è appartenuta ad un podestà rovignese di questo casato, del secolo XV inizi del XVI. Nei secoli XIX-XX, il reperto è stato interpretato erroneamente come arme del podestà A. Semitecolo (1687-1688), ovvero —- da altri studiosi - indicato quale ‘stemma di Rovigno’, ‘dono’ del predetto rettore (per probabile suo intervento alla Porta), avendo tutti ‘rilevato’ una croce di S. Andrea, invece di una banda; così, infatti, NATORRE, tav. XIX, f.31 (nel disegno appare lo stemma cittadino!); PETRONIO, “Repertorio”, 16 (“Porta S.ta Croce - Antonio Semitecolo Podestà di Rovigno nell’anno 1688”) e “65 Stemmi”, 3 (‘Stemma Antonio Semitecolo Podestà anno 1688 —- Porta S. Croce”); PAULE- TICH-RADOSSI, 146 (“1688.Antonio Semitecolo”). "Questi vennero da Buran da mar, furono Tribuni antichi, ma troppo audaci, questi condussero a Venetia grande haver, et furono ricchissimi." (ANONIMO, "Cronica", 81). La famiglia è iscritta nel Libro d'oro e nell'Elenco Ufficiale della Nobiltà Italiana col titolo Nobiluomo Patrizio Veneto. Diede a Capodistria ben nove podestà e capitani. "E' contemporanea questa Famiglia, ab origine del Paese, all'edificatione di Venetia, e trovasi registrata nel numero delle Patritie dell'anno 747, qualificata con Nobiltà e ricchezze singolari. (...) Giovanni S., (fu) acclamato Principe l'anno 1313, doppo ottenuti dalla sua Famiglia tutti l'impieghi nella Repubblica. (...) Passo li nomi di Marco, Marino, Vettore, e Gabriele Generali dell'armi pubbliche, e d'un'altro Vettore ò Vittorio Cavaliere, Procu- rator, e Generalissimo, e colla punta di ferro caratterizzò il suo valore sù la fronte di quanti nemici ardirono turbar la di lei pace (...), altri diversi Soggetti ornati con la 368 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 Porpora Procuratoria, e benemeriti del pubblico servitio in impieghi, et Ambascierie, et altre Dignità, che rendono la gloria di questa Casa uguale alle prime di questa Serenissima Dominante. (...)." (FRESCHOT, 217-220). "Originaria di Aquileja, dopo la distruzione si ricoverò in Belluno, donde si trasferì poi nelle lagune venete all'epoca della fondazione di Venezia, dove portò grandi ricchezze, e fu una delle tribunizie. Nel 1176 Giulio S. che era sopracomito, ebbe parte colla nave che comandava nella battaglia di Salvore contro l'Imper. Federico. (...) Ed era tanto ricca la famiglia Soranzo che nel 1294 fu caricata essa sola dell'armamento a proprie spese di due galere con venti uomini armati per ciascheduna in occasione della guerra contro i Genovesi. (...) I vari rami in cui si divise la famiglia, ottennero la conferma di loro avita nobiltà da Francesco I Imper. d'Austria. (...)”. (CROLLALANZA, II, 545). Cfr. ANONIMO, "Armi", 77; BAXA I; MORANDO, 2941-2947. Scudo a testa di cavallo, con bordurina liscia, fiancheggiato da svolazzi, il tutto entro comparto a rotella con ampia cornice liscia. Arma: spaccato d’oro e d’azzurro, alla banda dell’uno nell’altro. Dimensioni: (diametro): 58 cm. ctonsws È LS n ET AGMADELLI COMES SET NS SanVE FVIT NOB. VEN. A SERENE” lap ge STENO - M.CCCCVIH. }SCIP: BENZ - RY B-PRAT SUATIVINE BRATIA LE EFC Mv STENO Rara arma gentilizia dogale dipinta nell'angolo superiore destro del grande affresco (dimensioni: 280 x 750 cm.) della sala del Consiglio del palazzo pretoreo rovignese, attribuita al Doge Michele Steno (1400-1413) che aveva assegnato il patri- ziato ai Benzon; nella pittura altri quattro stemmi: S. Benzon, podestà rubinense in carica [1583-1584] (vedi), Da Ponte (vedi) perché Doge in carica (1578-1585) e due G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 369 arme comunali (vedi). In discreto stato di conservazione, il tutto è stato restaurato nel 2003-2004; questa e le altre arme sono ‘sconosciute’ al Natorre e al Petronio. Il riatto della ‘Sala del Consiglio” permise al Benzon di commissionare l’affresco che orna ancor oggi un’intera parete e di tributare omaggio ai suoi grandi benefattori (due Dogi) ed alla città che governava. Soltanto tale Jacobus Steno (1330), appartenente a questa famiglia dogale, sembra aver ricoperto la carica di podestà di Rovigno (secondo il Kandler: Marco Steno -1330). Sotto lo scudo, un’ampia cartella epigrafa ricorda l'attribuzione della nobiltà (nel 1407) da parte di M. Steno al capostipite dei Benzon: GEORGIUS BENZONO CREME PANDINI // MISANI ET AGNADELLI CO- MES ET DNS // CREATUS FUIT NOB. VEN. A SERENIS.O // MICHAELE STENO MCCCCVII //SCIP. BENZ. RUB. PRAET. GRATITUDINIS //GRATIA EREXIT //MDLXXXIV. “Originari di Altino, furono tribuni antichi e diedero alla patria un doge nella persona di Michele eletto nel 1400, e si spensero colla morte dello stesso”. (CROLLALANZA, II, 564). M. Steno “nacque verso il 1331; nella sua leggera e dissipata gioventù fu uno degli attori principali della grande tragedia di Marino Falier, ma poi diventò un uomo serio e rese segnalati servigi alla patria. Fu Savio, consigliere ducale, soldato, ammiraglio, diplomatico, rettore di città e provincie dello Stato veneto. (...) Nella sfortunata giornata di Pola, come provveditore d’armata, fu sempre assieme a Vettor Pisani, e con lui processato e condannato. Le sue beneme- renze gli fecero conseguire la dignità i Procuratore di S. Marcode supra. (...) Fu colto e amante degli studi, e non gli mancava il dono dell’eloquenza. Su tutti i seggi dove stava, fu il primo Doge a far stendere un panno, intessuto d’oro ed argento col suo stemma, ad cccezione di quello nella chiesa di S. Marco. (...) Fece il suo ingresso di Doge con pompa straordinaria, con balli, cacce di tori, giostre e torneamenti popolari. In tale occasione ebbe origine la famosa Compagnia della Calza. (...) Era chiamato dux stillifer, dalla stella che campeggiava nel suo stemma (spaccato d’oro e di azzurro alla stella di sei o otto raggi dell’uno nell’altro). Tale qualifica è nei versi latini dell’iscrizione sul balcone centrale del Palazzo Ducale, su cui stanno i suoi stemmi, e prima del 1797 si vedeva il leone di S. Marco col Doge orante davanti (“Mille quadrigenti currebant quatuor anni hoc opus illustris Micael, dux stillifer auxit”). (...) Il suo dogato fu molto notevole e pieno di grandi e lieti eventi che Venezia festeggiò sfarzosamente con pubbliche feste. Guerre con i genovesi, con i carraresi, col duca di Ferrara e con gli ungari, grandi accrescimenti del suo dominio in terraferma (...) e il riacquisto di Zara e di altre parti della Dalmazia. (...) Sordo e acciaccato dall’età, mori di mal di pietra, il 26 dicembre 1413. Col testamento, dopo aver disposto molti legati, destinò il residuo del patrimonio alla costruzione di un fondo per maritare le figlie dei marinai. (...) Con lui finì la famiglia Steno, che una tradizione vorrebbe fosse detta nei primi tempi F/abianica. (...) La Dogaressa Maria che sposò nel 1362 circa, appartene- va alla famiglia patrizia dei Gallina (...), che morì il 4 maggio 1422”. (DA MOSTO, 185-192). Cfr. ANONIMO, “Armi”, 78 e 164 (due alias); BAXA, 14; BENEDETTI, IV, 15; MORANDO, 3004-3006. Scudo ovale, sormontato dal corno dogale (molto danneggiato), bordura ornata, affiancato da due putti reggiscudo e mascheroni (leo- nini) appesi policromi, foglie d’acanto e spighe, il tutto entro comparto con cornice liscia a listello. Arma: spaccato d’oro e d’azzurro, ad una stella (8) dell’uno nell’altro. Dimensioni: a) comice: 100 x 150 cm.; b) cartella epigrafa: 35 x 55 cm.; c) stemma: 55 x 85 cm. 370 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 STENO Minuscolo secondo esemplare dello stemma gentilizio in oro ed argento, inciso e smaltato in una delle placchette esalobate del piede del ‘Reliquiario di S. Eufemia’ attribuito al doge Michele Steno (1400-1413); l’arme, accompagnata da quella di un podestà rovignese Loredan (vedi) e da un Leone marciano (vedi), compare sul mede- simo oggetto custodito nella sacrestia dell’insigne Collegiata della città; non figura né in Natorre, né in Petronio. Il Reliquiario “rimanda ad un dono gentilizio, offerta solenne e preziosa per custodire alcune reliquie della martire, patrona e contitolare della chiesa rovignese. Sul dorso del piede a sei lobi, tra i medaglioni con le abituali immagini sacre del Cristo, della Madonna e di S. Giovanni, risaltanodue scudi smaltati con gli stemmi delle famiglie Loredan [podestarile] e Steno [dogale]. (...) Appare abbastanza plausibile, e prudente, una datazione nell’ambito del primo Quattrocento, in relazione al dogado di M. Steno (1400-1413)”. (CRUSVAR, 254-257). Un ulteriore contributo alla precisazione cronologica potrebbe derivare dalla storia sul recupero del trafugato corpo di S. Eufemia, ritornato nella cittadina istriana nel maggio del 1401, un evento che sollecitò certamente il desiderio di onorare la santa ‘praesentia’ con opere significative che trovarono nel doge e nel rettore gli interpreti massimi. Anche se la collocazione nell’ambito degli inizi del secolo XV appare sufficiente, comunque “lo scudo con lo stemma gentilizio della famiglia veneziana degli Steno, inciso in una delle placchette esalobate del piede (‘spaccato d’oro e d’azzurro alla stella di otto raggi dell’uno nell’altro’), faccia inclinare verso l’avvio del secolo”, avendo presente quest’ultimo esponente della casata. Un significativo apporto alla datazione, ancora da approfondire, è certamente offerto “dalla storia locale e dall’indagine e sulle pratiche devozionali di S. Eufemia. Trafugato a Rovigno dai genovesi, assieme al tesoro sacro e alla suppellettile preziosa, recuperato dai veneziani, secondo le cronache, e una prassi non estranea ad altre, consimili, vicende, il corpo di S. Eufemia è restituito alla cittadina istriana nel maggio 1401, via mare, con grande pompa e G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 371 qualche incidente di percorso. E° ovvio che dopo tale evento, memorabile per la comunità locale, (...) sorgesse il desiderio per custodire schegge di ossa, sfuggite a un corpo notevole per la sua integrità, oppure per conservare qualche reliquia ‘di contat- to”. (...) Al di là delle ipotesi resta l’evidenza di un oggetto di pregio (...) che esalta il legame tra Venezia e il centro istriano a lei sottoposto. Permangono alcuni quesiti. Chi sono i membri delle famiglia ricordati dagli stemmi? Per quale scopo e occasione offrirono il prezioso reliquiario? (...) Pare plausibile il richiamo a un dono, una celebrazione, un omaggio o un evento memorabile connesso in qualche modo con il già menzionato doge Michele Steno, il dux stillifer, morto ‘di mal di pietra’ il 26 dicembre 1413. Uomo sensibile alle arti e agli studi, signore della Repubblica nel primo scorcio del Quattrocento, si distinse pure per sfarzo, interventi monumentali e donativi preziosi. Un’ulteriore prova di tale associazione deriva da un affresco del 1584 al primo piano del Palazzo Comunale di Rovigno, riportato in una monografia di Pauletich e Radossi: vi campeggia lo stesso, identico stemma apposto sulla base del reliquiario tardogotico di s. Eufemia e l’iscrizione sottostante declama la pertinenza dell’arme a Michele Steno, qui ricordato per la concessione di un titolo di nobiltà nel 1407”. (CRUSVAR, 254-258). “Questi vennero de Altin, et poi da Buran da mar, furono Tribuni antichi, savij, et di bon consiglio et dibelli (?) parlatori, condussero di gra (?) tesoro a Venetia, mancò questa casata in ms. Michiel Steno Duce di Venetia del 1413”. (ANONIMO, “Cronica”, 83). Michele Steno fu il 63° doge di Venezia “e prima di assurgere alla ducea (cui pervenne sulla settantina), partecipò a fazioni navali, come provveditore a Pola (1378), e al riacquisto di Chioggia. (...) Una tarda tradizione fa di Michele S. il provocatore diretto della congiura di Marin Faliero. (...) La ducea dello Steno fu ricca di avvenimenti di grande importanza nella storia di Venezia. (...) In Oriente e nell’Adriatico la dominazione veneziana si amplia con l’acquisto di Lepanto (1407), di Patrasso (1408), di Zara, Arbe, Pago, Cherso, Ossero (1409), del Castello di Ostrovizza (1410), di Sebenico (1412). (...)”. (AA.VV., Enciclopedia, XXXII, 698). Il Coronelli ed il Freschot non riportano notizie su questa famiglia. Cfr. BAXA II; AMIGONI, a. 1943, 36 (“1297, est. 1413”; due alias); DE TOTTO, “Famiglie”, a. 1949, 343; PAULETICH-RADOSSI, 139 (parzialmente “sconosciuto”); CRUSVAR, 271 (“Lo stemma della famiglia Steno qui compare spaccato d’oro e d’azzurro con stella a otto punte spaccata d’azzurro nella parte superiore e d’oro nella parte inferiore”): KRNJAK-RADOSSI, 193-194 (“Scudo gotico lunato, timbrato del corno dogale e di una crocetta”). Scudo gotico lunato, entro comparto esalobato. Arma: spaccato d’oro e d’azzurro, ad una stella (8) dell’uno nell’altro. Dimensioni: a) cornice esalobata: 3 x 3 cm; b) stemmino: 1,5 x 1,8 cm. 372 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 TREVISAN Blasone gentilizio scolpito in bassorilievo su lapide calcarea, infisso sulla facciata del palazzo pretoreo, in p.zza Matteotti, proveniente dalla ’casa Sponza-Scardobola, guardante Sottomuro” (PETRONIO, “Repertorio”, 22 e “65 Stemmi”, 4), attribuito ad un podestà Trevisan (Trivisan); la lastra era custodita nel deposito di S. Martino ancora nel 1927 (COSSAR, R-III, 53), ed è in ottimo stato di conservazione. In considerazione delle caratteristiche scultoreo-araldiche, il reperto è certamente ap- partenuto ad uno dei primi due rettori del casato; ressero la podesteria di Rovigno: Giacomo Trevisan (1470), Sebastian T. (1547-1548), Stefano T. (1552-1554) e Anzolo T. (1568-1569). I cronisti hanno registrato che nel 1550 a Sebastian Trevisan “furono concessi a livello per parti prese in Consiglio nei giorni 21 giugno e 17 settembre di quest'anno, a di lui ricerca, alcuni terreni e luoghi comunali, ed una casetta di S. Eufemia, contro le leggi e lo statuto”, comunque fuori reggenza! Invece, durante il governo di Stefano Trevisan fu emanata il 7 aprile 1554 “la Terminazion dei sindaci generali sulla istanza dei pescatori di Rovigno, con la quale venivano disobbligati di dare al podestà più pesce di quello gli bisognava per suo uso e della propria famiglia al prezzo di un soldo alla libbra; gli stessi sindaci con al Terminazion proibivano, che nessuno il quale non fosse vero vicino potesse venire a pascolare sopra il territorio i loro animali, e che non si intendesse vero vicino, se non quello che stesse /oco e foco; (...) [veniva inoltre] approvata l’Aggiunta al Capitolo dei danni dati dallo Statuto contra animali di qualunque sorta danneggianti i luoghi fuori delle Finide, seminati di frumento e di altre biade, ove si condannavano i padroni degli animali al risarcimento del danno”. (ANGELINI, V, 222 e VII, 64). “Famiglia Patrizia veneta, compresa nella Serrata del 1297, insignita della dignità dogale, iscritta nel Libro d’oro e nell’Elenco Ufficiale della Nobiltà Italiana coi titoli di Conte (concesso nel 1913) e Nobiluomo Patrizio Veneto. Diede un Doge: Marc ‘Antonio Trevisan nel 1553-1554. A Capodistria G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 373 sette Podestà e Capitani”. (DE TOTTO, “Famiglie”, a. 1952, 85). Comunque, “la prima venuta dei Trevisani a Venetia fu dalla città di Aquileja, o ai tempi d’Attila (...), oppure l’anno 705. (..) Vennero poi gli altri da Trevigi, e tutti insieme produssero uomini antichi, savii, cattolici, molto discreti, amatori della Patria, e gran maestri di Mare. Nel chiudere del Gran Consiglio l’anno 1297 parte di questa casa rimase fra le popolari, ma fu poi riassunta fra le Patrizie l’anno 1381”. (TASSINI, 669). Notizie del resto confermate dal FRESCHOT, 422- 425 e 74-75, quando afferma che “(...) d’Aquileja vennero li primi ascendenti conosciuti sotto questo nome in Venetia (...). Da Treviso e dalla confinante Regione si trasferirono pure altri dello stesso cognome, parte giustificati nobili a al serrar del Consiglio, parte aggregati per benemerenza doppo la Guerra dei Genoesi 1381. (...). Un Giovanni T. dall'anno 1259 si trova General delle Pubbliche forze contro li Genoesi, Enrico per lo stesso comando contro Greci l’anno 1256 (...). Con la scorta del proprio merto s’incaminò al Soglio Marc 'An- tonio Travisano incoronato l’anno 1552. (...)”. Cfr. CORONELLI (ben 24 varianti dell’arma!); BAXA (4alias); NATORRE, tav. XXIII, f. 34; BENEDETTI, “VI”, 502. Peri Trevisan nobili di Pola ed i Trivisani famiglia di Capodistria, vedi DE TOTTO, Ibidem. Scudo gotico antico lunato, con bordurina liscia, il tutto entro comparto quadrato dentellato. Arma: (antica) d’argento, alla banda (sbarra) di rosso, accostata da sei stelle (8) dello stesso, tre in capo, e tre in punta. Dimensioni: 55 x 55 cm. TREVISAN Secondo esemplare dell'arma gentilizia dei Trevisan, murato in situ sul “muro del Palazzo pretorio guardante Sottomuro” (PETRONIO, “Repertorio”, 22 e “65 Stem- 374 G. RADOSSI, L’araldicapubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol XXXIV,2004, p.245-394 mi”, 4), ora edificio con entrata in v. Dietro Caserma, 4 — facciata riva P. Budicin. Nel 1569, Anzolo Trevisan, con propria Terminazione “comminava la pena di 1. 50 contro quei cittadini, che rifiutassero Cariche comunali, oltre che privi di seder in Consiglio per un anno continuo, e di poter avere alcun offizio e benefizio del Comune; [inoltre] ordinava, onde meglio regolar l’amministrazione del Fondaco, che in seguito fosse ad imitazione d’altre ben governate Città eletto uno Scontro al Fondaco per controllare appunto l’amministrazione del fondachiere, e ne dava il relativo regolamento; proi- bendo in fine che lo Scontro fosse della stessa famiglia del fondachiere”. (ANGELINI, VI, 58). Durante la sua reggenza “il canonico Domenico Devescovi, navigando verso Venezia, colle Carte capitolari, forse per sostenere i diritti del Capitolo contro i propri Cappellani, che si erano in quel torno manomessi nelle rendite di quello, stante assenza degli altri Canonici forestieri, annegava nel golfo li 30 aprile 1568”. (Ibidem, 92). Circa l’origine del casato, lo SPRETI (VI, 706) la dice “antica famiglia veneziana, originaria da Mestre, stabilitasi in Venezia nei primi tempi della Repubblica e larga- mente arricchitasi coi commerci sul mare. Fu ascritta a quel Patriziato per beneme- renze nel 1381. Fece fabbricare la chiesa di S. Giorgio Nero ed acquistò speciali benemerenze verso lo stato durante la guerra di Chioggia. (...) Girolamo fu creato vescovo di Verona da Papa Pio IV e Francesco fu vescovo di Ceneda e poi di Verona nel secolo XVIII; Giovanni fu Patriarca di Venezia nel 1560. (...).” Dal canto suo PANONIMO, in “Cronica”, 87, afferma che “questi vennero de Aquilegia, furono huomini savij, et molto cattolici, questi co’ li Zorzi fecero èdificar la Chiesa di s. Benedetto, sono molto antichi”, mentre per altri due rami (ibidem) asserisce che “vennero de Trevisana”, ovvero che “furono Veneziani antichi”. Il ramo che “alzò” quest’arme sembra tuttavia “originario di Musestre, si trapiantò in Venezia nei primi tempi della Repubblica, e col traffico sul mare si rese ricchissima, e fece fabbricare la chiesa di S. Giorgio nero. Girolamo, creato Vescovo di Verona dal Papa Pio IV; Francesco, Vescovo di Ceneda e poi di Verona nel XVIII secolo. Aggregata per benemerenze al patriziato veneto nel 1381 e nel 1689, fu confermata nella sua nobiltà con sovrane risoluzioni 1818 e 1819”. (CROLLALANZA, III, 43). Cfr. ANONIMO, “Armi”, 168; SCHRODER, II, 327-330 (“Li suoi individui sostennero successivamen- te le cariche e impieghi importanti riservati al solo ordine Patrizio, ed anche negli ultimi tempi della Repubblica prestarono utile servigio in qualità di Comandanti nell’armata navale”); NATORRE, tav. XXXIII, f. 34; BAXA (4 alias); RADOSSI, “Stemmi di Pinguente”, 510 e Monumenta, 394-395; RAYNERI (di), 570; COSSAR, R-III, 50; AA. VV., Famiglie, 416; MORANDO, 3150-3183 (con ben 34 alias!). Scudo gotico antico lunato, con bordurina liscia, il tutto entro comparto quadrato dentellato. Arma: (antica) d’argento, alla banda (sbarra) di rosso, accostata da sei stelle (8) dello stesso, tre in capo, e tre in punta. Dimensioni: 55 x 65 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 375 ZEN(O) Cospicuo stemma epigrafo, scolpito in bassorilievo a tutto tondo ed appartenuto molto verosimilmente al podestà Benvenuto Zen (1695-1697), documentato in NA- TORRE, f. 163; il PETRONIO (“Repertorio”, 13 e “65 Stemmi”, 5) lo attribuisce, erroneamente, a Bernardo Zen “podestà di Rovigno nel 1422”. Nei due cantoni del capo le iniziali “B(benvenuto)” e “Z(en)”. L'oggetto, di provenienza sconosciuta, si trovava comunque nel “cortile della Chiesa di S. Martino - aprile 1927”, come asserito da COSSAR (“Quaderni”, P-R - IV, 61), ma oggi è irreperibile. Ricoprirono, pertan- to, la carica podestarile a Rovigno: Bernardo Zen(o) (1422), Valerio Z. (1428) e Benvenuto Z. (1695-1697). Rest documentato che nel 1422 “Bernardo Zen teneva i pubblici incanti sub logia ripae: più tardi, nel 1534 chiamavasi anche /odia magna: ora [1850, n.d.a.] Caffè Bazzarini in Piazza. Quella che oggi si chiama Piazza chiamavasi in allora Riva grande”; invece, nel 1428, Valerio Zen “teneva i pubblici incanti sub logia carcerum. Logia ora Corpo di guardia militare. Le carceri sono quei locali contigui, conosciuti sotto il nome di torretta, perch'è una torretta verso levante dell’antico Castello, i quali servirono a quell’uso, ed anche di alloggio in questi ultimi tempi alle Guardie di Polizia”. (ANGELINI, VI, 52). “Questi vennero da Buran, furono savi et cortesi, anticamente non portavan l’arma, che portano al presente, ma Msr. Renier Zen 376 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 duce di Venetia, essendo Capitano d’alcune galere, sconfisse un’armata de Genovesi della qual era Capitano un nobile di casa Freschi, e così tramutò l’arma in quella del nemico, Capitano, che era tre tresse azure, e tre bianche, ma attione fosse giusta li aggionse due tresse ed li fece otto in tutto, cioè quattro bianche e quattro azure.” (ANONIMO, “Cronica”, 94). Si veda SCHRODER, II, 385-387: “Dall’Oriente la Famiglia Zen, d’illustre nobilissimo ceppo, venne a trapiantarsi nelle Isolette adiacenti a Venezia. Quivi colle sue gesta si distinse in modo che già avanti ilsecolo decimo era nel numero delle Famiglie notabili, ed avanti la serrata del Maggior Consiglio nel 1297 contava Procuratori di S. Marco, Generali da Mare e Soggetti che contribuirono a rendere celebre la Repubblica. Renier Zen dopo avere comandata l’armata contro i Genovesi e dopo aver lasciato un monumento di sua grandezza nel vasto e sontuoso edifizio ora occupato dall'Accademia delle belle Arti sostenne lo scettro della Repub- blica. Nel secolo decimoquarto uno Zen tracciò co’ suoi coraggiosi viaggi la via allo scopritore del nuovo Mondo, mentre contemporaneamente Carlo Zen [vedi in partico- lare FRESCHOT, 226-230, n.d.a.] Cavaliere e Procuratore di S. Marco riprendendo Chioggia ai Genovesi pervenne vittorioso nel seno perfino della loro Capitale. (...).” L’illustre famiglia ha dato ben nove rettori giustinopolitani. (DE TOTTO, “Famiglie”, a. 1953, 330). Una famiglia nobile Zeno, dimorava a Pola nel secolo XV, oriunda da Venezia, compresa nel Registro dei Nobili di Pola del 1500, estinta prima del 1641. Cfr. CORONELLI, 81-82 (cinque varianti dell'arma); CROLLALANZA, III, 121- 122; SPRETI, IV, 1012; MORANDO, 3426-3434 (9 alias); AMIGONI, a. 1943, 73; BAXA I; TASSINI, 706-709 [(...) “Renier Z., spedito nel 1420 con quarantacinque galere contro i Zaratini ribelli, li ridusse ad obbedienza e poscia riportò vittoria contro i Genovesi. (...) Nicolò e Antonio, fratelli, equipaggiata una nave a proprie spese, si spinsero a settentrione dell’Oceano Atlantico, e scopersero il Drogo, ora detto Terra del Labrador, nell’ America settentrionale con altre regioni. (...) La famiglia produsse parecchi vescovi, ed un G. Battista cardinale, morto nel 1501”]; PAULETICH-RA- DOSSI, 151; RADOSSI, “Stemmi di Montona”, 216 e Monumenta, 442-443; RAYN- ERI (di), 598 (“Istituì una Commenda di Giuspatronato nel Sovrano Ordine di Malta”); RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 409 (“si conserva eziandio dal Comune nel Cortile della Chiesa di San Martino”); CIGUI, Corpo, 102-103; AA. VV., Annuario, II, 521. Scudo ovale entro comparto sagomato con cornicetta liscia, timbra- to della corona e bisantato di due; foglie d’acanto cadenti lungo i fianchi. Arma: bandato di azzurro e di argento di 8 pezzi. Dimensioni: (disegno Natorre) 10 x 15 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 377 cinese i RA SO ZORZI Arme gentilizia, oggi irreperibile, appartenuta al rettore Antonio Zorzi (1578- 1580), scolpita “sopra la Porta del Palazzo pretorio guardante sottomuro” e sopra cui esisteva una lapide epigrafa, “ma sono scarpellati lo stemma e la soprapposta iscriz.e ancora sotto i Veneti; la Porta fu ridotta a finestra”; ai lati dello stemma l’epigrafe: ANTONIUS ZORZI//MDLXXX”. (PETRONIO, “Repertorio”, 12 e “65 Stemmi”, 16); il disegno, con stemma e lapide abrasata, si trova anche in NATORRE, t. XXIII, f.34. Ressero la podesteria rovignese: Lorenzo Zorzi (1450-1451), Francesco Z. (1559- 1560), Antonio [Nicolò] Z. (1578-1580), Nicolò Z. (1597-1599), Lorenzo Z. (1611- 1612), Zan Battista Z. (1614-1615), Zorzi Z. (1636-1637), Gabriel Z. (1679-1680), Piero q. Gerolamo Z. (1725-1726), Andrea q. Gerolamo Z. (1744-1745) e Giacomo Piero q. Carlo Zorzi (1753-1754), ovvero 11 rettori. Nel 1451, Lorenzo Zorzi, podestà a Rovi- gno, non avendo voluto “acconsentire con alcuni cittadini alla collazione del canoni- cato del prete Andrea da Parenzo, perchè intendevasi di conferirlo ad altro sacerdote contro l’onore e la giurisdizione del diocesano; Francesco Foscari con ducale 1° marzo gli comandava, che non si manomettesse nell’affar della suddetta collazione come in nessun’altra cosa spettante alla giurisdizione episcopale, e di consuetudine ecclesiasti- ca”; al tempo di Francesco Zorzi, nel 1560, i sindaci “regolavano le competenze dovute per le pegnore fuori di Rovigno (...) e che alcun forestiere non potesse esser vicino, se prima di otto giorni non capitava a star in questo Castello a loco e foco (...)”. Sotto la reggenza di Lorenzo Zorzi (1612) venne eretta “in Rovigno il 6 gennaio la confra- ternita di S. Francesco d’Assisi, confermata da mons. Tritonio vesc. di Parenzo, ed 378 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.245-394 aggregata alla pia e venerabile arciconfraternita delle sacre stimate di S. Francesco in Roma nel 1688 dalle contribuzioni ai propri precettore e scrivano. Potè avere sepolture in chiesa e fuori e costruire nel 1779 bellissimo altare di marmo nel Duomo con lodevole pala del Serafico, e mantener decorosamente il culto nella chiesa di S. Tomaso ap. dopo che da quella di S. Giuseppe perché piccola si trasportò in questa”. (ANGELINI, V, 287 e 289 e VI, 58). “Questi vennero da Pavia, furono uomini savi], con tutti tenivano amicizia, et erano forti in battaglia, anticamente non portavano l'arma, che hora portano, ma msr. Papon Zorzi, che era capitano dell’armada al conquisto di Curzola, tolse per memoria l’arma di quella communità”. (ANONIMO, “Cronica”, 94). Comunque, le radici di questa casata ci parlano di una “illustre e tribunizia famiglia veneziana, anticamente detta Giorni, una fra le più cospicue dell’antico patriziato, avendo la sua origine con quella della città di Venezia nel VI secolo.La tradizione la vuole originaria dai Georgius, duchi di Slesia e Moravia, discesi in Italia al seguito dell’Imperatore Onorio. Dette un gran numero di illustri personaggi: tribuni, procuratori di S. Marco, vescovi, cardinali, governatori, capitani, ammiragli generali, senatori, ambasciatori e provveditori. Possedette molti feudi non solo in Dalmazia, ma nell’Albania e nel Montenegro, dove membri della famiglia si trasferi- rono come signori di detti luoghi. Ebbe in assoluto dominio le isole Curzolari [recte Curzola (?!)] dal 1269 al 1797, possedette il marchesato di Bondonizza, la contea di Curzolo (?) e quella di Zumella nel Friuli. Alvise fu provveditore generale della Dalmazia e dell'Albania e gli fu dedicata una lapide che trovasi tuttora nella facciata a levante del palazzo luogotenenziale di Zara. L’antico stemma della famiglia fu modificato e raffigurato soltanto da uno scudo d’argento con la fascia di rosso e ricordo della conquista delle isole di Curzola e di Meleda fatta nel 1269 da Marsiglio Zorzi, conte di Ragusa, quando essendogli stata squarciata in combattimento la sua bandiera bianca e, rimasto ferito, ne fece di essa una fascia rossa imbevuta del suo sangue e che poi usò sempre come emblema, adottato anche da Marino Zorzi, che fu eletto doge nel 1311.- Quest'ultimo fu soprannominato il Santo per le sue rarissime doti, per il suo alto spirito di filantropia e per il suo fervido amore alla religione. Le isole di Curzola e Meleda, malgrado che il nominato Marsiglio, morendo, le avesse legate con testamento ai suoi congiunti, di erede in erede, nel trattato di Campofor- mio, nel luglio 1797 furono cedute all’Austria e attualmente [7932!] sono in possesso della Jugoslavia. Il doge Zorzi domò la VII ribellione di Zara e fu egli che concesse alla Casa Savoia il privilegio di fregiare lo scudo sabaudo con un leone a guisa di cimiero”. (SPRETI, VI, 1028-1030). Anche a Capodistria esisteva un’antica famiglia Zorzi (scudo: d’argento alla fascia di rosso). Cfr. BAXA, 15 (“Capodistria, Pirano, Rovigno”); DE TOTTO, “Famiglie”, a. 1953, 331-332; PAULETICH-RADOSSI, 152-154, MORANDO, 3467-3476 (dieci alias); RADOSSI, “Stemmi di Montona”, 217 (3 esemplari), “Stemmi di Pinguente”, 521 e “Stemmi di Parenzo”, 413-414; RADOSSI-PAULETICH, “Repertorio”, 409 [“Stemmi Zorzi — in tavoletta di pietra tanto sopra il piccolo Arco in Piazza del Porto (recte Longo, n.d.a.), quanto sopra la fu porta del Cortile pretorio verso Sottomuro”]. Scudo sagomato ed accartocciato. Arma: d’argento alla fascia di rosso. Dimensioni: (disegno Natorre): 4,5x 7,5 cm. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 379 ZORZI Secondo esemplare dell’arme del podestà Antonio Zorzi (1578-1580), scolpita in bassorilievo “sopra l’ultimo (sic!!) gradino [epigrafo, n.d.a.] della scaletta che dall’Atrio mette nel Cortile interno del Palazzo pretorio” (PETRONIO, “Reperto- rio”, 12 e “65 Stemmi, 16), oggi inesistente; precisava in proposito l’ANGELINI (VII, 18) che “sopra un gradino [scomparso, n.d.a.] della scaletta di pietra, che mette dall’atrio dell’antico Palazzo pretorio al Cortile interno, vi è l'arma gentilizia di questo Podestà, il cui scudo è diviso a metà da una colma fascia trasversale; sopra l’arma è scolpito il MD [l'arma] LXXVIIII // e sotto ANT.o Z”. Infatti, “il cortile interno, nel quale si trovava parte dell’armamento di cui era dotato il comune, mediante una porta con stemma accartocciato e iscrizione di Antonio Zorzi (ANTONIUS ZORZI MDCLXXX; oggi irreperibile come l’altro stemma Zorzi del 1579 che si trovava sopra l’ultimo gradino della scaletta che portava al cortile interno) dava accesso alla parte del Palazzo pretorio verso Sottomuro dove si apriva la cosiddetta Loggia della riva (secolo XV, chiusa nel 1704)”. (BUDICIN, 207). L’oggetto si trova documentato anche in NATORRE, T. XXVIII, f. 41. Si ricorda che il 16 agosto del 1725, con il podestà Piero Zorzi q. Gerolamo, “fu presa in Consiglio comunale la supplica dei Procuratori alla nuova fabbrica della Chiesa, che per continuarla il Fondaco concor- resse ancora con D.ti 3.000; [fu poi ] adottata l’altra supplica, che dal dazio del Forno al Tibio fossero per la med.ma fabbrica corrisposti annualmente i D.ti 150, destinati a tal oggetto, dalla Cassa comunale,e non ancora pagati. [Nello stesso anno 1725] veniva permesso dal Senato veneto alla Sig. Elisabetta Angelini qm. Rocco contessa Califfi, di fondare un Canonicato nella Collegiata di S. Eufemia per gli ecclesiastici di allora della famiglia Angelini, e in mancanza per i discendenti da quella, ed anche per 380 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 estranei mancando gli uni e gli altri, con la dote di D.ti 4000 in capitali livellari, e con la riserva del jus electionis et presentandi al Diocesano; (...) 11 febbraio 1725 fu fatto con sfarzoso apparato, e messa solenne, e con continui spari, di mortaretti, nonché con generale concorso e giubilo di tutto il popolo la riconciliazione e benedizione della nuova Chiesetta di S. Tomaso app. in Città, con l’intervento di tutto il Capitolo e Clero, ricevuti e accompagnati processionalmente alla Chiesa Collegiata dalla Con- gregazione di tutti i Confratelli col suo gonfalone, alla qual funzione intervennero le Cariche tutte, ed anche il Podestà, in figura pubblica, vestito di ducale rosso, accompa- gnato dai giudici, e dai principali signori della Città. (...) [Ed infine] il Conte Giov. Antonio Califfi fu Giacomo donava nel 1726 all’Amministrazione dell’Ospitale il fondo, muri, ed altro contigui all’Ospitale delle donne, all’oggetto dell’ampliazione del medesimo. [Fu poi, nel gennaio del 1744, al tempo del podestà Andrea Zorzi q. Gerolamo che] il Senato venuto in cognizione, che si distruggevano i boschi di legna da fuoco di questa Provincia maliziosamente, e con arbitrio, onde qualificati poi come luoghi abbandonati ed incolti, averne queste genti l’investitura; con Ducale 26 marzo 1744 ordinava la Capitanio di Raspo, di non investire chi si sia di alcun terreno, riservando tali occasioni unicamente all’autorità di esso Senato”. (ANGELINI, VI, 186 e VII, 22). “Da Pavia à stabilir li primi fondamenti di questa Reggia concorse questa con le prime Famiglie, che vi formarono l’habitatione, mà in Pavia dalla stessa Provincia di Germania loro più antica Patria si trasferirono li Ascendenti più remoti, che in Italia diedero principio a questa mobilissima Casa. Bernardo Zorzi, tanto autorevole Scrit- tore, quanto, Senator famoso di questa Ser. Rep. Ne fa piena relazione. (...) La serie degl’huomini illustri tanto nel Sacro, quanto nel Civile teatro della Gloria, che sono usciti di questa Famiglia, è un Oceano che no può varcarsi nel ristretto d’un raggua- glio. (...) Pappone Zorzi sì à li Capitani grandi, superiore a tutti li Elogi] della fama, vanta l’acquisto fatto dell’Isola di Curzola, sotto gli Auspicij di Dominico Michiel, con la scorta del solo suo coraggio. (...) Durò lungo tempo questa nobilissima Casa nel dominio utile della sua conquista, e nel gius di non ricevere nell’Isola altro Rettore Rappresentante la pubblica maestà, che della stessa Famiglia Zorzi. (...)”. (FRE- SCHOT, 445-448). Per il CROLLALANZA (I, 480-481) furono “Giorgi o Zorzi di Venezia. Originata da un Cavaliere della Moravia, e stabilita in Venezia, fu signora di diversi castelli nel territorio pavese e nel piacentino. Bernardo senatore veneziano e uno dei tre riformatori della città di Padova; Marino fu il cinquantesimo Doge della repubblica nel 1311; sei membri di questa famiglia furono procuratori di S. Marco. Diversi furono vescovi. (...)”. Cfr. CORONELLI, 82 (sei alias); BAXA II; COSSAR, “Quaderni”, P-R, IV, 62; AMIGONI, a. 1943, 73 (“Famiglia dogale”); PAULETICH- RADOSSI, 152-154. Scudo sagomato e accartocciato. Arma: d’argento alla fascia di rosso. Dimensioni: (disegno Natorre): 5 x 6,5 cm. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovignod'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 381 ZORZI Esemplare miniato del blasone gentilizio epigrafo appartenuto al podestà Loren- zo Zorzi (1611-1612), dipinto sullo splendido frontespizio del ‘Catastico delli beni stabeli della Sacrestia della Collegiata Chiesa di S.ta Eufemia di Rovigno”, unitamen- te allo stemma cittadino a sinistra (vedi) e, sopra, ad un leone marciano (vedi); ai lati le iniziali: L(AURENTIUS) G.(EORGIUS). Il manoscritto (dimensioni 24 x 34 cm.; cartella: 9 x 19 cm.) è custodito presso l’ufficio parrocchiale ed è in ottimo stato di conservazione. Furono ben cinque i rettori rovignesi di questo casato nel corso del secolo XVII; nel 1679, il senato veneto, avute informazioni ’esatte’ circa il “grave danno che ne deriva(va) ai poveri dalla dispensa dei grani nel fondaco di Rovigno”, stabiliva che “in avvenire tali dispense siano proibite”, imponendo al podestà Gabriel Zorzi (1679-1680) che “non siano più comprati formenti, che ben crivellati e netti e bastante al consumo del Popolo”. (AMSI, v. XX, 262). Ma fu sotto la reggenza di Giacomo Piero Zorzi q. Carlo (1753-1754) che furono introdotte severe disposizioni in materia di pubblica gestione, per cui non si poteva più “fabbricare o far ristauri, senza il beneplacito della carica di Capodistria; (...) non si poteva affittar le rendite del Comune, ed in particolar i forni, senza previa delibera al più offerente; i concorrenti alle cariche di Cancelliere, Camerlengo, Quadernier, Cassier, e Fondacchieri doveva- no prima della loro ballottazione giurar a mani del pubblico Rappresentante nella Sala del Consiglio, di esercitare la loro carica in persona, fuori di patto e intelligenza con alcuno; e nel giorno dopo anche i Giudici giurare, che farebbero adempire agli eletti i propri doveri; nelle Cariche di Cassiere, Fondacchieri, e Quadernier fosse esclusa la parentela fino al terzo grado inclusivo; che il Cancelliere, Camerlengo, Giudici, 382 G.RADOSSI, L’araldicapubblica diRovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 Sindaco, Cassier, Quadernier, e Fondachiere avessero un anno di contumacia, e che i due Cattaveri fossero sempre di differente famiglia; i Giudici e Sindaco dovevano perfettamente saper leggere e scrivere; non si potevano sovvertire i voti con pane, vino e danari, com’era turpissimo uso (...). [Inoltre si richiese al podestà] di far intimare agli Esattori della Carratada, di saldare l’intiero loro debito; [di concorrere alla stesura dei] Catastici dei boschi per la buona custodia, preservazione ed aumento dei mede- simi, resi languidi e pregiudicati da tante punibili abituate private licenze; [nella previsione di estendere] un esatto e legale Catastico di tutti i molini, valche, e squeri e perciò invitava questo podestà a raccogliere tutte quelle note, che in proposito fossero presentate dai proprietari, onde poter elaborare il divisato Catastico”. Merita ancora ricordare che il “Lago di Lamadipelise, il più prezioso deposito di acqua ch’abbia il territorio di Rovigno, fu del pari nettato nel 1753 sotto il Podestà Giacomo-Piero Zorzi, il quale avea progettato di cingerlo di masiera (muro a secco) per impedire l’impurità dell’acqua causata dal passaggio degli animali. Non ebbe effetto”. (ANGELINI, VII, 87-88 e 222). Sull’origine del casato, il TASSINI (714-715) narra che “alcuni discendenti dagli antichi duchi di Moravia vennero, come vuolsi, in Italia nel 411 militando sotto le insegne dell’imperatore Onorio. Fermatisi in Pavia, comperarono varii castelli, ed assunsero il cognome di Giorgi, o Zorzi, da Giorgio, uno di loro, che ai tempi del vescovo S. Epifanio, liberò Pavia da strettissimo assedio. La famiglia Zorzi, fuggendo davanti ad Attila, trasmigrò nelle nostre lagune l’anno 453, e diede opera con altre famiglie all’edificazione di Venezia. (...) Portava anticamente due insegne, l’una consistente in un leone nero rampante in campo d’oro, e l’altra in uno scudo scaccheggiato d’oro e vermiglio. (...) Hebbe pure lungamente il dominio su Curzola sino che, resosi il posto geloso, gli fa dalla pubblica munificenza cambiato nella contea di Zumelle. (...)”. Ed infine lo SCHRODER (II, 392-397) sostiene che “al principio del secolo nono li Zorzi erano già nel numero delle famiglie ottimate di Venezia, e copersero le più riguardevoli Magistrature. Due di essi (?) Graziano e Giovanni furono Dogi”, mentre i numerosi rami ebbero confermata l’avita nobiltà con Sovrana Risoluzione. Cfr. BAXA I; BUDICIN, 215; AA.VV., “Famiglie”, 454-455 (“Cimiero: il corno dogale”). Scudo accartocciato (di rosso), con bordurina liscia d’oro, sormontato dal giglio araldico d’azzurro e di rosso, affiancato da svolazzi d’oro. Arma: d’argento (ricoperto da finissimo arabesco d’azzurro), alla fascia di rosso. Dimensioni: (con svolazzi) 8 x 8,5 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovignod’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 383 1. IINOTO Insolito scudo gotico antico, con bordurina liscia, inciso su un vaso di pietra esposto nel parco dello ‘scoglio di S. Andrea’ presso Rovigno. In buono stato di conservazione, l’oggetto è appartenuto molto verosimilmente al Convento dei minori osservanti dell’isola. Nell’interno dello ‘stemma’ una croce, più sotto le iniziali e la datazione: “Z — G // 1577”, forse indicante il nominativo del Padre Guardiano o Abbate (?); il BENUSSI (299) riporta la “serie di Abbati di quest'isola di Sera” dall’anno 741 (Andreas) al 1223 (Joannes), per un totale di 16 nominativi. Sul lato destro dell'oggetto, altra epigrafe: AD. 18 LUG.0. Cfr. PAULETICH-RADOSSI, 138. Dimensioni: 23 x 27 cm. 384 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 2. IINOTO “Arme” scolpita in rilievo stacciato su “pietra che, rovesciata, serviva da scanno nella chiesa della SS. Trinità di Rovigno”; oggi è custodita nel piccolo lapidario della chiesa di S. Croce, nell'omonima via. Manufatto di evidente origine chiesastica, è in buone condizioni di conservazione. Cfr. PAULETICH-RADOSSI, 136. Scudo ovale [al suo interno una croce con due chiodi decussati (?)] entro altro accartocciato e sagomato, bisantato di otto (?), con due volute in capo e cornicetta liscia. Dimensioni: 32 x 53 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovignod'’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 385 3. IGNOTO Scudetto epigrafo, inciso in bassorilievo stacciato su recipiente rotondo in pietra d’Istria, proveniente dall'ex casa Giuseppe Quarantotto (area di ‘Monte Mulini’); l’edificio è stato abbattuto nel 1964 per dare spazio alla costruzione dell’albergo Park di Rovigno. Attualmente il manufatto, in buone condizioni di conservazione, è custo- dito nel piccolo lapidario nella loggia della chiesa di S. Croce. L’iscrizione, con relativa datazione: D. D. // D.o B. // 1630. Cfr. PAULETICH-RADOSSI, 133. Scudo a testa di cavallo. Dimensioni: 16 x 30 cm. 386 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Arti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 4. ISNOTO Stemmino epigrafo, scolpito in bassorilievo su architrave in pietra, proveniente dalla casa Brunetti, ex Pergolis, in via S. Croce, 41. L'oggetto è in buone condizioni di conservazione, ed è esposto nel lapidario della loggia del tempietto di S. Croce. L'iscrizione [iniziali (?)], sormontata da una crocetta di Lorena: “D C”. Cfr. PAULE- TICH-RADOSSI, 134. Scudo gotico e sagomato, con cornicetta liscia. Dimensioni: 9 x 15 cm. G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 387 5. IGNOTO Cospicua lapide calcarea in pietra d’Istria (?), infissa nella facciata dello splendi- do edificio tardo rinascimentale di via Trevisol, 7 a Rovigno, tra il secondo ed il terzo piano, superiormente alla trifora (?) con artistica balaustrata in pietra. La tradizione vuole trattarsi della raffigurazione simbolica della ‘Giustizia’, per quell’atteggiamento dell'angelo che sembra tenere un qualcosa che richiama la bilancia. Il manufatto, sconosciuto al Natorre, è certamente nella sua sede primigenia, ed è in discrete condizioni di conservazione; è documentato in PETRONIO, “Repertorio”, 26 (“Con- trada Trevisol N. 215, La Giustizia”) e “65 Stemmi”, 8 (“Stemma nella Contrada Trevisol N. 215 - Sconosciuta”). Il COSSAR, nell’’aprile 1927” (“Quaderni, RV-3, n. 52), azzarda l’attribuzione al casato dei ‘Carli’ capodistriani. Cfr. PAULETICH-RA- DOSSI, 107 (“La Giustizia”). Scudo sagomato, fiancheggiato da foglie d’acanto e sormontato da un angelo tenente, vestito, con le ali lunghe ed aperte, le mani giunte e il corpo in maestà; il tutto entro comparto rettangolare con cornice saltellata. Arma: di ..., ad una palma a due rami di ..., nascente dal suolo. (?) Dimensioni: 60 x 85 cm. 388 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d'Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 6. IGNOTO Splendido blasone gentilizio, scolpito a tutto tondo in pietra scura, infisso sopra l’entrata dello stabile in v. S. Croce, 26 (ex casa Zecchi). Il manufatto è in situ, ed è in buone condizioni di conservazione. L’opera è documentata in NATORRE (f. 162), mentre è sconosciuta nei due manoscritti di D. Petronio. Cfr. PAULETICH-RADOS- SI, 134. Scudo ovale, con cornicetta liscia, entro scomparto riccamente accartocciato, timbrato di un vistoso elmo a cancelli in maestà. Arma: di ..., alla croce (?) di ... e ... (?) [il campo risulta essere praticamente ’vuoto’]. Dimensioni: 50 x 80 cm. G.RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol XXXIV, 2004, p. 245-394 389 7.IGNOTO Monogramma (?) lapideo, di gusto (stile) gotico, scolpito in bassorilievo stacciato su lastra murata superiormente all’architrave del pianterreno (lato occidentale) della torretta del ‘Belvedere’, sull’isola di Sera (S. Andrea) di Rovigno. In cattivo stato di conservazione per evidenti segni di corrosione eolica, il manufatto è quasi certamente in situ, sconosciuto al Natorre ed al Petronio. Se monogramma, potrebbe essere una stilizzazione a significare ‘Venerabilis (?). Comunque, al centro dello ‘stemma’ si riconosce una croce (?) recante tre chiodi — di cui uno sul montante che termina a ‘V’ e due sulla traversa trifogliata (?); ai lati quattro figure terminanti a mo’ di dardo (0 di lancione ?). Cfr. PAULETICH-RADOSSI, 94 [indicato quale ‘simbolo dell’Ordine dei Cavalieri di Malta’; l’attribuzione è forse dovuta a B. Benussi (?)]. Scudo a rotella, con triplice bordura (a fogliame, cordonata e liscia), il tutto entro formella con foglie d’acanto nei quattro angoli. Dimensioni: 55 x 55 cm. 390 G. RADOSSI, L’araldica pubblica di Rovigno d’Istria, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 245-394 BIBLIOGRAFIA AA. VV., Annuario della Nobiltà Italiana, a. XXVIII, Milano, 2000. AA. VV., Cadastre national de l’Istrie, SuSak (Sussak), 1946. AA. VV., Dizionario Biografico degli Italiani (DBI), Roma, 1960-2002. AA. VV., Enciclopedia Italiana Treccani (EIT), Roma, 1950-2001. AA. VV., Famiglie Nobili delle Venezie, Udine, 2001. AA. VV., Guida-ricordo del Museo Civico di Storia e d'Arte di Capodistria, Capodistria, 1926. AA. VV., I nobili a Trieste, Trieste, 1997. AA. VV, Rovigno d'Istria, Trieste, 1997. AA. VV., “Senato Mare”, “Senato Misti”, “Senato Secreti” e “Senato Rettori”, Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria (= AMSI), voll. s.a. 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Tom segmentu sada se pridruZuje istrazivanje o zbirci rovinjske javne heraldike, grbova i simbola Serenissime i mletaèkih potestata, gradske uprave i drugih vise ili manje vaznih udruga za gospodarsku, vjersku i drustvenu zbilju grada, uglavnom iz razdoblja od XIV. do XIX. stoljeéa. U usporedbi sa Natorrevim rukopisom pronadeno je dak trideset i sedam novih nalaza (dvadeset i devet, ako ih usporedimo s dokumentacijom D. Petronia), dok je nekima “korigirana” pripadnost. Po zavrsetku istrazivanja i dokumentiranja ukupno je predstavijeno osamdeset i osam grbova; njih Sesnaest smatraju se nestalim. POVZETEK: JAVNO GRBOSLOVIE V ROVINIU - Potem ko je leta 1968, s sodelovanjem A. Pauleticha, izìla raziskava “Grbi nacelnikov komun in znamenitih druzin v Rovinju” (1970) je, kot zakljuéek dolgega pregledovanja in dopolnjevanja dokumentov pred desetimi leti v XXIII. knjigi (1993) Arti Centra za zgodovinske raziskave izsel esej “Grbi in podatki druzin iz Rovinja v Istri”. Temu se sedaj pridruzuje raziskava o javni zbirki grbov v Rovinju, grbov in simbolov Serenissime in beneskih upraviteljev, obCinskih oblasti in drugih drustev, ki so predvsem od XIV. do XIX. stoletja bol) ali man] sestavljali gospodarsko, versko in èlovesko stvarnost mesta. Za razliko od Natorrejevega rokopisa je bilo odkritih kar sedemintrideset novih najdb (devetindvajset de jih primerjamo z dokumentacijo D. Petronia), medtem ko so pri nekaterih popravili ime njihovega najditelja. Po dokonéanih raziskavah in dokumenti- ranju je bilo skupno najdenih sedeminosemdeset plemiskih grbov, neodkritih pa jih je do danes $e Sestnajst. J. ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Art, vol. XXXIV, 2004, p.395-418 395 ANALISI DI UN SEGMENTO ARCHITETTONICO NEL SUO CONTESTO CULTUROLOGICO (LA FACCIATA DELLA CHIESA DI SAN PELAGIO A CITTANOVA) JERICA ZIHERL CDU: 726(497.SCittanova) Cittanova Sintesi Ottobre 2004 Riassunto — L'analisi di questo contributo riguarda lo stato attuale della facciata della chiesa parrocchiale di San Pelagio a Cittanova, che viene inserita in un ampio contesto culturologico e che diventa pure pretesto per condurre il lettore attraverso le sue epoche storiche. La facciata venne una prima volta ricostruita nel 1882, mentre durante il restauro del 1935 la sua pietra bianca fusostituita da mattoni ed il tutto arricchito da lesene e da un portale in pietra. Il risultato artistico-architettonico di un tale intervento su un contesto antico risulta alquanto mediocre. L’autrice, però, lo valorizza collocandolo entro il contesto artistico-culturale della prima metà del secolo XX, in considerazione anche del fatto che con l’abolizione della diocesi cittanovese, da cui conseguì la demolizione del vecchio episcopio e del battistero (1874), la facciata dell’ex cattedrale diveniva libera unità archi- tettonica. 1. “Opera povera d'ispirazione” All’odierno aspetto della facciata della chiesa parrocchiale di San Pelagio a Cittanova! non sono stati sinora dedicati articoli né specialistici, né pubblicistici. L'argomento non figura nemmeno negli inventari storico- artistici, né in alcuna guida culturologica o turistica. In merito l’unico riferimento concreto si trova nel libro di Luigi Parentin, in cui leggiamo: “Affrettatamente decisa dall’arciprete Francesco Chierego ed eseguita (1935) dall’architetto Giovanni Berne, sorse alla vista una facciata in cotto nudo intersecato appena da rozze paraste di pietra, opera povera d’ispira- ! La chiesa parrocchiale è dedicata a Santa Maria, San Pelagio e San Massimo. 396 J.ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 395-418 Fig. 1 - Fronte della chiesa di San Pelagio di Cittanova (Foto K. Nemet, 2003). zione e mal conciliata col carattere arcaico dell’edificio”. Sono proprio caratteristiche come “opera povera d’ispirazione” e “mal conciliata col carattere arcaico dell’edificio” che spiegano benissimo i motivi della sua emarginazione. Effettivamente, quella superficie rivestita di piccoli mat- toni rossi rettangolari, fiancheggiati ai margini da lesene di pietra bianca, produce un effetto d’inerzia sulla fronte cadenzata dalle tre navate. Nell’asse che attraversa quella centrale spicca il portale decorato, sovra- stato da una finestra rotonda - il rosone —, in pietra bianca. Il portale è di forma semicircolare, ed è coperto da un tettuccio a due spioventi, con una colonna accanto a ogni stipite. Nella lunetta c’è un rilievo raffigurante la Vergine Maria tra due angeli. Appiè del rilievo, sul montante del portale, sono scolpiti gli anni 1882-1935 (XIII EF)}. Nonostante sia evidente che 2 L. PARENTIN, Cittanova d'Istria, Collana studi istriani del Centro culturale “Gian Rinaldo Carli”, Trieste, 1974, p. 239. 3 La scritta XIII EF fa parte del caratteristico modo di registrare gli anni durante il regime di Mussolini. Poiché, al termine della HI guerra mondiale, scritte del genere venivano cancellate, questa J. ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 395-418 397 portale, lesene e rosone sono di epoca più antica, proprio a motivo del color rosso dei mattoni, questi dettagli appaiono artificiosamente decora- tivi e infondono un senso di freddezza. Accosto alla facciata, nell'angolo sud-orientale, a due metri di distanza dalle mura ecclesiali, c'è il campanile di pietra a pianta quadrata, la cui massa verticale bianca accentua più vigorosamente ancora l’incongruenza del materiale edile. 2. Una facciata contestuale al territorio dell’arte di frontiera” In Istria il mattone come materiale da rivestimento è pressoché inesi- stente”. Non fa semplicemente parte dell’ambiente. Per questo motivo la fronte rossastra della chiesa parrocchiale cittanovese è alquanto insolita. Poiché non disponiamo di maggiori riferimenti scritti concreti sul motivo per cui vennero usati i mattoni per ricoprirla, né esiste in tutto il territorio istriano un insieme architettonico sacro, tipologicamente coerente, dello stesso periodo, cercheremo di rispondere alla domanda del perché di quella scelta pervie più complesse, ricorrendo ad un approccio socio-uma- nistico più vasto. All’inizio ricorreremo alla terminologia linguistica di Vladimir Markovi6, che a onore del vero è attinente a un tipo di chiesa istriana del XVII e XVIII secolo, ma che può essere applicata anche nel nostro caso. Rifiutando concetti come “ritardo stilistico” e “tradizionali- smo” e altri determinativi usuali, il Markovié propende per quello di “storicismo regionale” nel senso che gli elementi architettonici importati non vengono ritenuti “portatori di significato architettonico e dei suoi stratificati valori storici e addirittura simbolici. Nella loro modellazione sono quindi attestate anche esperienze diverse (...)”®. Sta di fatto che l’odierno aspetto della facciata non è certamente portatore di “significato è una delle poche che si siano conservate. Sebbene sia evidente che ci furono tentativi di abraderla, essa rimane tuttavia a confermare che nell’anno XIII dell'Era Fascista venne inaugurata la “nuova veste” della facciata della chiesa cittanovese (D. DUKOVSKI, Fasizam wu Istri 1918-1943 [Il fascismo in Istria 1918-1943], C.A.S.H., Pola, 1998, p. 11-279). 4 Fa eccezione il palazzo civico (municipio) di Arduino Berlam a Parenzo, che risale al 1910. M. POZZETTO, Giovanni Andrea, Ruggero, Arduino Berlam, Un secolo di architettura, Editoriale Lloyd, MGS Press, Trieste, 1999, p. 134. 5 VI. MARKOVIC, “Jedan tip trobrodnih istarskih crkava 17. i 18. stoljeéa” [Un tipo di chiesa trinavata istriana del XVII e XVIII secolo], Radovi Instituta za povijest umjetnosti [Lavori dell'Istituto per la storia dell’arte], Zagabria, vol. 21 (1997), p. 93. 398 J.ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Am’, vol. XXXIV, 2004, p.395-418 architettonico”, motivo per cui l’analisi della fronte sacra, di cui all’inizio, è servita solo da spunto all’argomento di quest'articolo, ne è cioè la base di partenza. Perciò, rivolgendoci a strumenti metodologici storico-artistici e a un approccio interdisciplinare, è nostra intenzione cercare di situare l’analisi del segmento architettonico in questione in un contesto culturo- logico più vasto, contesto che per le sue connotazioni geo-storiche viene definito come “territorio dell’arte di frontiera”°. L’analisi formale della facciata ci dice che oggi, date le sue caratteri- stiche morfo-tipologiche, non detiene alcun valore, anzi, a causa della sua posizione inusitata, spesso è perfino difficilmente accessibile all’occhio di osservatori e visitatori”. Ma quando se ne conoscano il titolare, il luogo e la regione, quella modesta facciata svela, velo dopo velo, le sue quinte (finte) che nascondono 1 portatori di “stratificati valori storici e addirittura simbolici”. Le cose diventano più chiare sapendo che si parla della facciata della chiesa parrocchiale di San Pelagio, ubicata proprio nel centro di Cittanova, città che si trova sulla costa nord-occidentale dell’Istria. Fino a poco tempo fa la storiografia storico-artistica croata ( che si è occupata assai poco di Cittanova e, in genere, dell’Istria) si richiamava alle vecchie tesi di Ljubo Karaman sugli ambienti definiti di provincia, di frontiera e di periferia, naturalmente senza implicite connotazioni negati- ve. Sono ambienti cui nella maggior parte dei casi ben si adatta la locuzio- ne “storicismo regionale” coniata dal MarkoviC. Date le circostanze stori- che attraversate dal territorio istriano, sia le più remote che quelle del recente passato, la scelta di determinanti stilistiche e tipologiche diventa molto complicata, anche se oggi la storia dell’arte non è più, come discipli- na, un circolo chiuso. Anzi, l'approccio interdisciplinare è un metodo auspicabile che si applica in quasi tutti i campi della sua ricerca. Oggi si è 6 Termine che è servito da /eitmotiv al convegno internazionale dal titolo S koje strane granice / Da che parte del confine, tenutosi a Cittanova e a Parenzo dal 18 al 20 settembre 1997. Zborikradova Medunarodnog skupa “S koje strane granice” [Raccolta di studi del Convegno internazionale “Da che parte del confine”], Cittanova, 1998. ? Per quanto la chiesa parrocchiale cittanovese domini con il suo volume la principale piazza cittadina, la sua fronte, cioè l’entrata principale, dà sul mare, così che dalla piazza si vedono il retro e l’entrata laterale alla chiesa. Tenendo poi presente la stretta fascia verde del parco, le fronde dei cui alberi si ergono fra la facciata e la riva, si capirà che l’entrata principale resta effettivamente coperta alla vista. 8 Lj. KARAMAN, O dijelovanju domace sredine u umjetnosti hrvatskih krajeva [Dell’incidenza dell'ambiente locale sull’arte delle regioni croate], Drustvo historitara umjetnosti N.R.H. [Società degli storici dell’arte della Repubblica popolare di Croazia], Zagabria, volume 8 (1963). J.ZIHERL, Lafacciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 395-418 399 più propensi all’uso di un altro sintagma, preso dal campo della letteratu- ra, e che riguarda “l’arte di frontiera”. In senso culturologico-fenomenologico Cittanova, come tutta la peni- sola istriana, è una regione di frontiera, rispettivamente di “piccoli scam- bi” di frontiera, un peculiare “mondo intorno a un confine”. Confine che, leri come oggi, è immanente al territorio istriano. Regioni come l’Istria croata, il Litorale sloveno e l’italiana Friuli-Venezia Giulia hanno un’iden- tità che si è dovuta confrontare con il principio della periferia. Entro i lemmi geografici dianzi detti la periferia non è connotata come dimenti- cata, arretrata e chiusa. Tutto al contrario: qui confinario come contrasse- gno territoriale significa essere articolato, aperto ai contatti di lingue e culture diverse. Osservando il fenomeno della storia dell’arte nel contesto di questo problema, possiamo estendervi l’opinione del Runtié attinente alla letteratura e dire che “essa (storia dell’arte, ndt.) è più idonea delle altre discipline a enunciare situazioni così indefinite, ovvero a scavalcare tutto ciò che è particolare per riunirlo in una più vasta, più variopinta situazione generale”! In merito all’area confinaria istriana esiste un’infi- nità di saggi socio-umanistici. Ci limitiamo qui a menzionare gli studi scientifici e la pubblicistica di Miroslav Bertosa, in cui sono particolarmen- te preziose le sue premesse sul micro-cosmo istriano che è immerso in una stratificazione macro-culturale!!, Le ricerche del Bertoda sui meccanismi delle determinanti istriane e sulla millenaria immersione dell’Istria nello spazio culturale mediterraneo, adriatico e centro-europeo hanno concor- so a fornirci una visione e un’interpretazione più perspicue della storia istriana nel suo complesso, mentre nei suoi testi i micro-elementi “avan- guardisti” assurgono a esempi metodologici anche per le altre scienze. Purtroppo, la disciplina scientifica storico-artistica non ha prodotto sinora, nonostante le molte ricerche e i molti risultati, una monografia analitica più complessa sulla ricca produzione artistica della regione istriana. Seb- ° Negli anni ottanta del secolo scorso, di Mitteleuropa si è discusso in innumerevoli incontri fra letterati, saggisti e storici della letteratura centroeuropei: esiste, non esiste, che cosa la determina, quali ne sono le caratteristiche, ecc. Da quei dibattiti sono nati termini come “cultura dei piccoli popoli” e “cultura di frontiera”, ovvero, in riferimento alla tematica letteraria, “letteratura di frontiera” in quanto fenomeno specifico nell’ambito della letteratura europea. 10 I. RUNTIC, “Granica kao faktor knjizevnog opkoradenja”[Il confine come fattore di scaval- camento letterario], Jezici i kulture u doticajima / Lingue e culture in contatto, Raccolta di studi del I Convegno internazionale, Pola, 1989, p. 208. !! M. BERTOSA, Istra: Doba Venecije (XVI.-XVIII. stoljece) [Istria: l'epoca veneziana (XVI- XVIII secolo)], Zavitajna naklada-Casa editrice istriana “Zakan Juri”, Pola, 1995. 400 J. ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 395-418 bene l’Istria sia eccezionalmente ricca di beni culturali, intesi in tutta la loro estensione temporale, finora sono state studiate solo singole epoche, singoli monumenti o unità tematiche. Anche il presente scritto è solamen- te un tentativo di illustrare il corpus di “elementi micro-avanguardisti” e il loro essere immersi nel mondo dell’arte di confine. 3. Tesi vecchie e nuove sull'origine di Cittanova 3.1. Le vecchie tesi storiografiche La maggior parte degli scritti scientifici e pubblicistici riguardanti Cittanova hanno nell’introduzione una premessa secondo cui nessuna città istriana è così “avvolta nelle nebbie e in opinioni tanto divergenti da parte degli storici”!?. Nella storiografia del passato ci furono innumerevoli dibattiti sull’origine della città e sulla sua supposta remotissima genesi”. Le dispute sull’ubicazione di Emonia o Aemonia, tendenti unicamente a cercare di far risalire la fondazione della città all’antichità, non hanno sinora trovato riscontro nelle prove materiali. Cittanova è infatti una di quelle città costiere dell’Istria in cui non ci sono mai state ricerche archeo- logiche sistematiche, e nemmeno gli sporadici sondaggi all’interno del centro storico hanno rivelato tracce di architettura romana, che invece si incontrano nell'immediato circondario rurale!*. Le sole prove materiali concrete sull’origine o lo status “politico-economico” della città sono fornite dai frammenti litei risalenti all’epoca altomedievale”, nonché dalle più recenti ricerche nella cripta cittanovese"?. !? M. JURKOVIÒC, Novigrad istarski izmedu 7. i 12. stoljeéa [Cittanova d'Istria fra il VII e il XII secolo], Kulturno-povijesni vodié [Guida storico-culturale], n. 6, Muzej Hrvatskih arheolo$kih spome- nika {Museo dei monumenti archeologici croati], Spalato, 1996, p. 5. 13 L. PARENTIN, op. cit. 14 Quasi tutta la fascia costiera attorno a Cittanova (Carpignano, San Pietro d’Or, Daila, ecc.) è ricca di reperti architettonici romani. R. MATIJASIC, “Topografija antiéke ruralne arhitekture na obalnom podruèju sjeverne Istre” [Topografia dell’architettura rurale antica nell’area litoranea dell’Istria settentrionale], Arheoloska istraZivanja [Ricerche archeologiche], Pola, 1986, p. 75-98. 15 Il Lapidario cittanovese è una delle collezioni più preziose del genere in Croazia. Dal 1995, per motivi di risanamento, dissalazione e ricostruzione, si conserva in un locale inaccessibile al pubblico. Poiché è in corso la costruzione di un nuovo museo-lapidario, vogliamo sperare che questi pregevoli monumenti saranno presto esposti al pubblico. 6 I lavori di restauro nella cripta sono stati eseguiti negli anni dal 1996 al 2000, con la sovrintendenza di Ivan MatejéiC. I nuovi reperti e la ricostruzione del suo aspetto originale hanno fatto J.ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.395-418 401 Fig. 2- Lacripta dopo il restauro (Foto Z. Alajberg, ripresadal catalogo Hrvati i Karolinzi / | Croati ed i Carolingi). emergere una nuova interpretazione e una nuova proposta di datazione, sia della cripta stessa che di tutta la chiesa di San Pelagio. Il Matejéié ha esposto in merito una relazione al Convegno scientifico internazionale Novigrad-Cittanova 599-1999, tenutosi a Cittanova dal 15 al 16 ottobre 1999. 402 J.ZIHERL, Lafacciata dellachiesa di SanPelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.395-418 3.2. Le nuove tesi Alla recente mostra rappresentativa “I Croati e i Carolingi” che, dopo Spalato, è stata in parte presentata anche a Brescia, ai monumenti cittano- vesi è spettato un posto di rilievo, tanto più che nei testi di Miljenko Jurkovié e Ivica Matejtié vengono esposte nuove conoscenze sull’origine di Cittanova, cioè sul suo formarsi in città!”. La tesi, in verità ancora timida ma che viene presa in sempre maggior considerazione, è che l’origine della città di Cittanova (della diocesi cittanovese) vada collegata alla costruzio- ne della cripta, che fece parte integrante del primo progetto di massima della cattedrale di San Pelagio, e trascende arditamente le secolari suppo- sizioni sulla sua origine antica e, in seguito, tardoantica!8. Poiché la cripta cittanovese è una copia fedele di quella aquileiese, è lecito supporre che sia stata costruita al passaggio dall'VIII al IX secolo!”. Con questa datazio- ne la cripta non solo diventa un nuovo acquisto dell’architettura e scultura preromaniche istriane, ovvero del patrimonio carolingio, ma rivela pure che la Cittanova dell’epoca doveva essere uno dei centri chiave della provincia marittima dell’impero franco”. Ivica Matejcié, che oggi si dedica a ricerche conservative sistematiche nelterritorio cittanovese, ne conclude che la cattedrale (cripta), “eretta in epoca carolingia alla fine dell’VIII-ini- zio del IX secolo”, è la prova materiale del periodo di “dominio del duca Giovanni, che aveva in Cittanova la sua capitale”. La decisione del governatore carolingio di risiedere a Cittanova e di applicare da lì la politica imperiale in Istria non fu casuale, com'è suffragato da altre circo- stanze socio-economiche e storiche’?. In ogni caso c’è un sufficiente concorso di prove materiali attestanti che il periodo della dominazione carolingia e del suo modo di concepire la metafora della renovatio fu un’ 17 M. JURKOVIC, “Arhitektura karolin&kog doba” [L'architettura dell’epoca carolingia], in Hrvati i Karolinzi [I Croati e i Carolingi], Parte prima: “Rasprave i vrela” [Dibattiti e fonti], Muzej arheolo8kih spomenika, cit., Spalato, 2000, p. 164-189. Cfr. pure I MATEJCIC, “Novigrad” [Cittano- va), in Hrvati i Karolinzi, cit., Parte seconda “Katalog” [Catalogo], p. 42-46; e Bizantini, Croati, Carolingi, Alba e tramonto di regni e imperi, Comune di Brescia-Civici Musei d’Arte e Storia, SKIRA, Ginevra-Milano, 2001, p. 310-351. !# Una vasta bibliografia su Cittanova si trova in: Arti del Centro di ricerche storiche - Rovigno, Trieste-Rovigno, vol. XIX (1988-1989) p. 1-392; M. JURKOVIC, “Novigrad istarski izmedu 7. i 12. stoljeta”, cir., p. 1-32; Novigrad-Cittanova 599-1999, cit., p. 1-186. 19 I. MATEJCIC, “Novigrad”, cit, p. 44-46. 20 M. JURKOVIC, ”Arhitektura karolinskog doba”, cir., p. 170. 21 I. MATEJCIC, ”Novigrad”, cir., p. 46. 22 M. JURKOVIC, “Novigrad istarski izmedu 7. i 12. stoljeca”, cir., p. 7-14. J. ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atri, vol. XXXIV, 2004, p.395-418 403 “epoca d’oro” per l’architettura cittanovese, epoca che nei periodi succe- dutisi fino ad oggi non si è più ripetuta. Con la ridistribuzione del potere all’interno dell’impero carolingio Cittanova perdette l’importanza strate- gica e si lasciò sorpassare da quelle stesse città istriane che anche prima, nell’età della tarda antichità, erano state dei centri di vita più importan- un 4. Il complesso sacro cittanovese (demolizioni e ricostruzioni) Un tempo il centro sacrale diocesano di Cittanova presentava i conte- nuti architettonici tipici delle sedi vescovili. Il paragone più immediato è naturalmente con il complesso eufrasiano di Parenzo, che però, a differen- za di quello cittanovese, oggi mantiene pressoché intatta la fisionomia originale?*. Anche il complesso sacrale cittanovese comprendeva un insie- me architettonico composto dalla cattedrale, dal battistero e dall’episco- pio”. La diocesi venne soppressa dopo la morte dell’ultimo vescovo citta- novese, Teodoro Loredan dei conti Balbi??, Con l’abrogazione de jure del vescovado cessava de facto la necessità di contenuti architettonici diocesa- ni. Anche se attraverso i secoli, a causa della povertà della diocesi cittano- vese, il complesso facente capo alla cattedrale si era mantenuto con difficoltà, dopo il 1831 si iniziò il processo della sua parziale demolizione e parallela ricostruzione?” 23 R. MATIJASIC, Gospodarstvo anticke Istre [L'economia dell'Istria antica], Zaviéajna nakla- da-Casa editrice istriana “Zakan Juri”, Pola, 1998, p. 17-631. 24 A. TERRY - F. GILMORE EAVES, “Reneving the Record: A century of Archaeology at Porec (1847-1947)”, Studies in Early Christian and Medieval Art History and Archaeology - Dissertationes et monographiae, 1, University of Zagreb-International research Center for Late Antiquity and the Middle Ages - Motovun, Montona-Zagabria, 2002, p. 7-180. 25 La questione del battistero cittanovese e dell’annesso ciborio mauriziano interessa già da anni gli studiosi sia croati sia stranieri. Il contributo più recente è un articolo di PavuSa VeziC, che contiene nuove scoperte su battistero e ciborio (P. VEZIC, “Krstionica i ciboriju Novigradu i Puli” [Battistero e ciborio a Cittanova e a Pola], in Novigrad-Cittanova 599-1999, cit., p. 75-87). 26 Con decreto di Leone XII del 5 luglio 1828 cessava di esistere la diocesi di Cittanova, che conservava tuttavia il diritto di sussistere fino alla morte del vescovo in carica Loredano Balbi. Teodoro Loredano dei conti Balbi morì il 23 maggio 1831. L. PARENTIN, op. cit., p. 358. 2? IBIDEM, p. 217-233. 404 J.ZIHERL, La facciata della chiesa di SanPelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 395-418 4.1. La demolizione dell’episcopio e del battistero Durante l’amministrazione austriaca i tentativi del comune cittanove- se di sanare le parti più cadenti dell’ex complesso diocesano e di dare un nuovo assetto urbanistico a tutta l’area circostante la cattedrale, ivi com- presi la piazza cittadina e il tratto di riva, si protrassero per quasi un secolo dopo la morte del Balbi?5. Nel 1874, con l’abbattimento del vecchio episco- pio e del battistero, la facciata dell'ex cattedrale rimase senza i suoi secolari attributi architettonici diventando un’unità architettonica a se stante. Sull’aspetto della fronte della chiesa di San Pelagio, prima che iniziassero gli ingenti lavori edili del 1874, non esiste, a quanto ci consta, materiale illustrativo. In verità, nella sacrestia si conserva un disegno che raffigura la cattedrale dal lato della facciata, con un’alta torre centrale e il complesso episcopale in successione”’. Quantunque il disegno sia interes- santissimo, a causa della sua datazione (1910) e di una nota nell’angolo superiore destro (“Ricordo di Fran/ce/sco Stancich”), l'autenticità del suo Fig. 3 - Disegno del 1910 del complesso della cattedrale (Foto: K. Tadic, 1965). 28 IBIDEM, p. 233-243. 29 Riportiamo la foto del disegno, che è conservato dall'Istituto per la storia dell’arte di Zagabria, nella fototeca, n. d’inventario N-10791. La fotografia è di K. Tadié (vedi Fig. 3). J.ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.395-418 405 aspetto è dubbia e ci induce a una certa cautela. Ci restano le fonti storiche e le comparazioni storico-artistiche. Una delle fonti più attendibili è una lettera del 1874, che si conserva nell'Archivio di stato di Trieste3°. La missiva, con cui si chiede una sovvenzione statale per i lavori edili già avviati attorno alla chiesa, contiene anche una descrizione dello stato della facciata. Vi si dice così che Cittanova, dopo la rimozione delle macerie dell’episcopio e del battistero, ha finalmente “l’aria pura che prima le mancava e la facciata della chiesa risultò libera”. E si prosegue affermando che sono tornate alla vista “le tre porte una volta in uso” e descrivendo il pessimo stato delle mura che “esige un urgentissimo restauro, data soprat- tutto la preoccupante condizione statica della parte inferiore del campa- nile, il quale è inglobato nella facciata stessa, e attraverso il quale si apre la porta mediana notevolmente rimpicciolita con opera muraria”?!. Con- frontando la fonte scritta con il disegno citato vediamo che corrispondono le asserzioni circa il campanile?* e la sede episcopale**, ma sul disegno non si vedono le entrate laterali cui si fa cenno*4. 4.2. La facciata del 1882 Sebbene l’autore della nostra fonte scritta, dalla firma illeggibile, dicesse di voler ricostruire la fronte della chiesa nel suo aspetto originale, dunque con le tre entrate appena scoperte e il campanile sovrastante la navata principale, alla fine non se ne fece niente. Ce lo confermano non solo l’aspetto odierno della facciata, ma anche la documentazione fotogra- fica risalente al periodo 1882-1935. Nell’Archivio di stato a Pisino si conservano i disegni originali del progetto esecutivo per il rinnovamento dell’ex cattedrale*. Dei disegni riguardanti la facciata sono rimasti soltan- to due fogli che attengono, uno, all’aspetto esterno e, l’altro, a quello interno, mentre sul nuovo campanile la documentazione è un poco più 30 L. PARENTIN, op. cit., p. 246-247. 3 IBIDEM, p. 246. 32 “Incapsulato nella facciata della chiesa, di modesta levatura (m 30 circa), in forma di esile torre; la cella sosteneva un tamburo ottagono coperto di tettuccio a spioventi”. IBIDEM, p. 240. 33 « ..deperita residenza vescovile che minacciava rovina”. IBIDEM, p. 246. 34 “...appare primieramente necessario restituire la porta centrale alla sua forma originale, in corrispondenza con le due porte laterali, di cui si intravedono le sagome...”, IBIDEM, p. 246. 35 I documenti non sono stati ancora analizzati dagli esperti; si conservano nel fondo n. 285 “Opcina Novigrad 1814-1918” /Comune di Cittanova 1814-1918/ dell'Archivio di stato di Pisino. 406 J. ZIHERL,La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 395-418 Fig. 4 — Chiesa di Cittanova: ricostruzione al computer secondo i disegni di H. Bergmann del 1880. copiosa. Il progetto della facciata, firmato da H. Bergmann (non abbiamo incontrato il suo nome nelle monografie d’architettura italiane dell’epoca) e datato 1880, corrisponde esattamente all’aspetto che appare nelle vec- chie fotografie?, come pure alla descrizione del Parentin®”. Dunque, all’epoca i committenti e l’architetto decisero comunque di dare un nuovo aspetto alla fronte dell’ex cattedrale, aspetto che alla fin fine corrispose “allo spirito dei tempi”, ovvero all’architettura classicista del periodo”*. 36 Si sono conservate parecchie vecchie fotografie apparse in diverse pubblicazioni. Basterà qui citare quelle pubblicate nel volume Sretan grad, Novigrad na starim razglednicama [La città felice, Cittanova nelle vecchie cartoline], Zaviéajna naklada-Casa editrice istriana “Zakan Juri”, Pola, 2001, p.116-117. 37 «Quattro lesene scandivano verticalmente la faccia della nave centrale e delle laterali, due cornici marcapiano ne interrompevano il senso verticale, chiuso da una gronda con profilature a denti di sega. Un ampio rosone e un bel protiro, lavorato in pietra di Grisignana e affiancato da sei arcatelle cieche, rendevano gaiamente mossala superficie centrale, mentre due finestre romaniche, pure cieche, ricordavano le antiche porte laterali”. Luigi PARENTIN, op. cit., p. 238. 38 POLANO, MULAZZANI, CARBONIA, Guida all’architettura del Novecento - Italia, Electa, Milano, 1996; S. DEL PONTE, Trieste, l’architettura neoclassica, Guida tematica (cat.), Comune di Trieste, 1989. J ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.395-418 407 Contemporaneamente alla facciata, si iniziò la costruzione del nuovo campanile?°. Facciata e campanile furono fabbricati con lo stesso materia- le, il calcare bianco istriano, e presentano gli stessi tratti stilistici. La facciata trinavata, composta di pietre squadrate, è articolata verticalmente da spiccanti lesene. L’entrata centrale venne dotata di un portale orna- mentale dal quale, a destra e a sinistra, si dipartono tre arcatelle cieche. Sopra il portale venne aperto un grande rosone, mentre i settori laterali della fronte ottennero ognuno una finestra semicircolare. Sotto il tetto della facciata scorre uniforme un fregio dentellato. Nonostante che il nuovo campanile risulti sovradimensionato rispetto alla chiesa, l’identità fra il materiale usato e lo stile della facciata e del campanile conferisce all’armoniosità dell’insieme. Il rifacimento della facciata e la costruzione del campanile furono un’occasione mancata per restituire alla fronte il suo aspetto originale, che Fig. 5 - Cartolina raffigurante il campanile e la fronte della chicsa di S. Pelagio, fine secolo XIX / inizi secolo XX (ripresa dal volume Novigrad na starim razglednicama — Cittanova nelle vecchie cartoline) 39 Nella lunetta della porta di accesso al campanile è scolpita una scritta che dice: “ HAEC SACRA TURRIS CAESAREI REGI GUBERNI EX FUNDO RELIGIONIS ET COMMUNIS AEMONIAE SUMPTIBUS CONDITA FUIT A. D. MDCCCLXXXIII". 408 J.ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXTV, 2004, p.395-418 Fig. 6 - Il complesso della cattedrale cittanovese secondo L. Parentin (ripreso dal catalogo Hrvati i Karelinzi) avrebbe forse potuto essere un indizio in più per estendere la datazione altomedievale a tutto il complesso della cattedrale. Fu proprio murando le due entrate laterali sulla facciata, simbolicamente sostituite dalle due nuove finestre semicircolari, e abbattendo il vecchio campanile, che si perdettero le tracce materiali della supposta tipologia preromanica‘. A favore dell’origine preromanica, oltre alla già citata cripta, vi è la circo- 4 Poiché l'architettura preromanica istriana nell’ambito della renovatio carolingia, faceva riferi- mento a due fonti, il patrimonio imperiale giustinianeo e i centri politico-ecclesiastici di Aquileia e Cividale, il termine di paragone più vicino circa l’aspetto originale della fronte cittanovese va cercato naturalmente nell’Eufrasiana parentina. J.ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol XXXIV, 2004, p.395-4 18 409 stanza che la cattedrale cittanovese cambiò aspetto solo nell’ornato, men- tre rimase inalterato il suo volume spaziale. La sua forma basilicale con il coro allungato è tipologicamente assai simile ai modelli carolingi che troviamo nelle regioni centrali dell’impero*’. Lo attestano la disposizione spaziale dell’edificio e della sua pianta fondamentale, come pure la riaper- tura delle finestre, già murate, sovrastanti il lato settentrionale della nava- ta principale*. E non si può nemmeno trascurare il fatto che durante i lavori alla facciata vennero trovate sculture di pietra per lo più non usate come materiale da costruzione: è probabile che alcuni dei loro frammenti facciano oggi parte della ricca collezione del Lapidario altomedievale di Cittanova‘. La questione che si impone è perché il committente/architetto decidesse di fare una nuova facciata e di costruire un nuovo campanile. Le ipotesi sono le seguenti: la vecchia fronte andava senz'altro risanata e c’era anche il pericolo che il vecchio campanile crollasse. Inoltre, non c'era una vera necessità di avere due entrate laterali sulla fronte, perché le due sui fianchi della chiesa, cui si accedeva facilmente dalla piazza principale, erano effettivamente da secoli le entrate principali per i fedeli**. È certa- mente importantissimo il fatto che furono raccolti ingenti mezzi finanziari. Il restauro della facciata, la costruzione del campanile, come pure il successivo assetto urbanistico della piazza, furono finanziati di comune accordo dalla chiesa, dal comune cittanovese e dallo stato‘. Non meno rilevante è ilfatto che il committente affidasse il progetto a un funzionario di stato della K.K. Central Komissione, che aveva sede a Trieste‘. E infine, il simbolismo retorico del comune cittanovese, che ripescando la tradizio- nale venerazione delle reliquie dei santi locali cercava di attribuire radici 4 Hrvati i Karolinzi, cit., Parte prima, “Rasprave i vrela”, cit., p. 32-319. 42 Le finestre vennero scoperte durante i lavoridi riparazione al lato settentrionale della chiesa, all’inizio degli anni Settanta. LI PARENTIN, “A proposito del Duomo di Cittanova (con una nota di M. Mirabella Roberti)”, Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia patria, Trieste, N.S., vol. XX-XXI (1972-1973), p. 83-87. 43 “Tutto il terreno era pieno di resti cimiteriali, mostrando anzi ‘sepolture di due epoche diverse per materiale, forma, posizione’, paleocristiane e medievali...”. L. PARENTIN, Cittanova d'Istria, cit., p. 246. 4 In proposito il Parentin riferisce che molto probabilmente durante i restauri della chiesa dal 1403 al 1580, vennero aperte le porte laterali, ma non dice da che parte. È più circostanziato nella descrizione della porta meridionale, che fu rinnovata nel 1781 con un contributo del cittanovese Nicolò Rigo (L. PARENTIN, Cittanova d'Istria, cit., p. 241). 4 IBIDEM, p. 247. 46 Una delle fonti più rilevanti per una comparazione stilistica è il volume: G. CUSCITO, Le chiese di Trieste, Edizioni Italo Svevo, Trieste, 1992, p. 1-240. 410 J.ZIHERL, La facciata della chiesa diSan Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.395-418 remote alla propria origine, la dice lunga sull’alto grado di consapevolezza culturale nei confronti della millenaria esistenza della città. Tenuto presente il dato di fatto che il potente stato austriaco esaltava il potere temporale a discapito di quello religioso, si spiega benissimo l’indiscusso predominare sul paesaggio del neocostruito campanile, che da allora sovrasta l’orizzonte visivo di tutto il Cittanovese. 4.3. La facciata del 1935 Ben presto la meritoria impresa di ristrutturazione della facciata rivelò il suo lato spiacevole. Infatti, dopo qualche anno, il materiale impiegato, “pietra ottima all’occhio e docile alla lavorazione”, incominciò a scorzarsi e a staccarsi da “questa bella facciata”. La vicinanza del mare fece il resto e “il disastro fu evidente: i blocchi, ben levigati e perfettamen- te connessi, cominciarono a screpolarsi, a fessurarsi, a cadere a pezzi”**. “Le infiltrazioni d’acqua continuavano a danneggiare la muratura” della bella facciata di un tempo, che con il suo biancore offriva una gradevole vista a chi arrivava dal mare”. Tuttavia, la soluzione del problema della facciata sarebbe rimasto all'ombra dei grandi cambiamenti storici che coinvolsero non solo Cittanova e tutta la penisola istriana, ma anche l’intera Europa. Nel periodo tra il 1882 e il 1935 si succedettero, come testimonia l’iscrizione sul portale principale, talmente tante svolte sociali- statali come prima non s'erano viste in tutto un secolo e nemmeno nel millennio precedente. La potente monarchia asburgica rovinò come un castello di carte, e “l’epoca d’oro della sicurezza”’° venne sostituita dai regimi emanati dalle ideologie di massa, che fecero sprofondare il mondo in due guerre mondiali. Come quasi tutta l’Istria, dopo la I guerra mondiale Cittanova appar- tenne al Regno d’Italia, nel cui ambito visse il turbolento periodo della 47 Durante la ricerca di soldi per il rifacimento della fronte della chiesa cittanovese e per gli altri lavori edili, l'ignoto ingegnere asseriva, fra l’altro “(...)[Catalogo], grazie alla sua struttura può dirsi una delle chiese più importanti dell’Istria, in quanto ad essa si allaccia la più remota storia della regione. Essa fu, infatti, la più antica sede vescovile dell’Istria...” (L. PARENTIN, Cittanova d'Istria, p. 246). 48 IBIDEM, p. 238-239. 4 IBIDEM. 50 S. ZWEIG, Jucerasnji svijet [Il mondo di ieri ], Antibarbarus, Zagabria, 1999, p. 7-350. J.ZIHERL,La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p. 395-418 4ll dittatura mussoliniana. E uno dei “micro” indici di quei tempi turbolenti è anche la nostra facciata. Scrive il Parentin che la decisione di rinnovare la fronte corrosa venne affrettatamente presa “dall’arciprete Francesco Chiergo”, che ne incaricò l’architetto Giovanni Berne". Di quest’ultimo abbiamo poche informazioni. Sappiamo che progettò le chiese di San Canziano a Lanischie e la chiesa di San Bartolomeo a Barcola??. Ritenia- mo fosse un mediocre progettista, che veniva ingaggiato nelle aree dell’Istria italiana e che, avendo pratica di edifici sacri, ottenne la commis- sione della fronte cittanovese. La sua mediocrità è confermata anche dalla decisione di usare il mattone. Bisogna, a onor del vero, tener presente che come materiale il mattone è senz’altro una variante più conveniente della pietra e più resistente al sale marino. Sappiamo inoltre che ad Antenal, nella valle del Quieto, c'era un mattonificio, sicché il materiale era a portata di mano°?. Comunque, la mancanza di riguardo per la tradizione architettonica e per le caratteristiche stilistiche dell’edificio sacro la dico- no lunga sul livello di consapevolezza culturale sia del committente che del progettista. La scelta del cotto come materiale edile fu dunque unicamen- te di natura economico-razionale? Oppure la risposta va cercata nell’ap- plicazione del concetto di storicismo regionale? Possiamo avallare la prima supposizione, perché per la seconda non troviamo appigli nei paral- leli del periodo. Dalla prospettiva odierna si fa strada tuttavia una risposta diversa, che meriterebbe forse qualche ricerca più ampia e complessa della nostra: pensiamo a un’indagine sui “microelementi” immersi nella strati- ficazione “macro-culturale”. Significativo in questo senso è l’aspetto con- ferito alla facciata cittanovese nel 1935: non è forse il momento storico il “reo” di quella quinta così strana e, perché non dirlo ?, così brutta sull’an- tica chiesa cittanovese ? Si tratta forse di un “micro” segno indicante che il nuovo regime voleva così dimostrare il suo potere e mascherare con quella quinta i successi e i conseguimenti dell’epoca precedente? Alla stessa maniera in cui la mano dello scalpellino aveva presuntuosamente inciso gli anni dell’era fascista sullo stipite del portale, è altrettanto possi- bile che il nuovo governo volesse farla finita con la secolare tradizione del SL, PARENTIN, Cittanova d'Istria, cit., p. 239. 52 La chiesa di San Canziano a Lanischie venne ultimata nel 1927. D. ALBERI, Istria. Storia, arte, cultura, LINT, Trieste, 1997, p. 204-205. Nel 1930 progettò la chiesa parrocchiale di San Bartolomeo a Barcola. G. CUSCITO, op. cit., p. 141-142. 53 Il mattonificio rimase attivo fino agli anni sessanta del XX secolo. 412 J.ZIHERL,Lafacciata della chiesadiSan Pelagio a Cittanova, Atri, vol. XXXIV, 2004, p.395-418 territorio. Non vanno dimenticate le “gite” di Marinetti, D'Annunzio e Mussolini per l’Istria, i quali con la retorica dell’’era nuova” volevano consegnare al dimenticatoio della storia tutte le precedenti conquiste sia nell’arte e nella cultura, che nella società. Speriamo che una delle future ricerche, che tratterà in maniera più articolata la complessa stratificazione dello spazio culturale istriano, dia una risposta alle questioni poste. Fig. 7 - Campanile e fronte della chiesa di S. Pelagio, inizi del secolo XX (fonte sconosciuta) J.ZIHERL, La facciata della chiesa di San Pelagio a Cittanova, Atti, vol. XXXIV, 2004, p.395-418 413 5. In vece di conclusioni Ma torniamo alla nostra “modesta” facciata che ci ha affannosamente raccontato la sua vicenda, e che, man mano che sono cambiati i confini, così ha cambiato aspetto. Aspetto che fu il più chiassoso durante i grandi imperi, il carolingio, più remoto, e l’asburgico, un po’ più recente. Sia l’uno che l’altro comportarono per Cittanova mutamenti radicali. Il primo vi eresse il complesso sacro, il secondo in parte lo demolì. Sebbene i due imperi abbiano avuto un carattere architettonico eterogeneo, ambedue corrisposero senza dubbio al concetto metaforico della renovatio, in quan- to cercarono, ogni dove fosse possibile, di imitare i modelli classici. Il terzo, l’“impero” di Mussolini, si fondò su principi diversi. Stranamente la facciata in cotto si è conservata benissimo fino ad oggi. I mattoni si sono rivelati resistenti agli agenti atmosferici. L'unico cambia- mento che ha subito, dal rimaneggiamento ad oggi, è stato il tentativo di cancellare l’anno XIII EF. Il confine era cambiato di nuovo. I territori dell’arte di confine sono spazi sui quali merita riflettere e cercare delle risposte. Con il presente scritto abbiamo tentato di contribui- re a una rassegna più sistematica e a un migliore apprezzamento, che vogliamo sperare prossimi, del patrimonio culturale nell’area istriana. Quindi l’intenzione nostra, con questo modesto contributo sulla fronte della chiesa cittanovese, era compiere un passo verso una complessiva storia dell’arte del territorio istriano e la sua interpretazione. 414 J.ZIHE